ROBERTO LONGHI – IL TEMPO DI CARAVAGGIO (prima parte)
L’epidemia di Covid19 non mi ha permesso di mostrare, come avrei voluto e come avrebbe davvero meritato, questa piccola ma interessantissima mostra intitolata “Roberto Longhi – il Tempo di Caravaggio“, dedicata ovviamente alla Collezione Longhi, organizzata in collaborazione con la Fondazione Longhi ed incentrata su Caravaggio ed i Caravaggisti collezionati dal grande critico d’arte in tutta la sua vita.
Ho svolto, all’interno delle sei piccole stanzette messe a disposizione dai Musei Capitolini, 12 turni di visita, con gruppetti a dir poco minuscoli, variabili dalle due alle sei persone, per dar modo di ammirare le opere d’arte in sicurezza. Ho cercato di raccontare i singoli protagonisti presenti in mostra, accennando alle loro peculiarità, differenze e similitudini, e provando a tracciare un sentiero lungo e tortuoso, di cui Caravaggio rappresentò solo un semplice (seppur fondamentale) tratto.
Considerando assai arduo poter riproporre nuovamente questa visita in futuro, anche considerato che la mostra non potrà perdurare all’infinito, ho deciso di provare a raccontarvela qui, seguendo esattamente il copione che avrei adoperato per spiegarvela dal vivo, nell’ora scarsa a mia disposizione per lo svolgimento del tour.
Dividerò il racconto della mostra in due parti, per non appesantire troppo l’articolo. Sarà il mio modo di concedervi, fra la prima e la seconda, una simbolica pausa caffè/sigaretta.
Provate a teletrasportarvi, adesso, nei Musei Capitolini. Immaginate di aver salito le scale e di essere appena entrati nella prima saletta della mostra. Una luca soffusa e radente, ottima per la visione delle opere. Attorno a voi, una coltre di silenzio. E solo una voce, la mia, che vi invita a presentarvi all’invisibile ma onnipresente padrone di casa, ossia Roberto Longhi.
ROBERTO LONGHI
Roberto Longhi (Alba 1890 – Firenze 1970) comincia il suo rapporto con la città di Roma nel 1910, anno in cui si reca nell’Urbe per poter studiare Caravaggio per la sua tesi, discussa poi nel dicembre 1911. Lo studioso torna a Roma per il corso di perfezionamento e qui si ferma ad insegnare Storia dell’Arte nei licei Visconti e Tasso e in seguito conosce la futura moglie Lucia Lopresti, meglio conosciuta con lo pseudonimo letterario Anna Banti.
Nel corso delle sue ricerche Longhi si occupa di argomenti di pittura del Quattrocento, di Futurismo, ma soprattutto si dedica allo studio del Merisi che segna una tappa irreversibile nel mondo dell’arte, lasciando degli influssi più o meno fino ad oggi.
La parte più importante della sua collezione è infatti dedicata a Caravaggio e ai suoi seguaci, pertanto le opere selezionate ed esposte in Campidoglio gravitano tutte attorno al Ragazzo morso da un ramarro. Nella sua dimora fiorentina, la villa Il Tasso, oggi sede della Fondazione a lui intitolata, ha raccolto un numero notevole di opere di maestri di tutte le epoche, ma il nucleo più rilevante è proprio quello che comprende le opere di Caravaggio e dei cosiddetti “caravaggeschi”, acquistate da lui o dalla moglie.
Lo storico dell’arte a soli ventun anni riuscì a cogliere l’importanza della pittura rivoluzionaria del Merisi e, nella mostra di Palazzo Reale da lui organizzata nel 1951, invitò il pubblico a guardare l’artista non come semplice esponente del Rinascimento, ma come “il primo pittore dell’età moderna che si è sforzato di essere naturale, umano più che umanistico, ma soprattutto popolare”.
Nella sala introduttiva è esposto un disegno a carboncino della sola figura del ragazzo, realizzato dallo stesso Roberto Longhi, firmato e datato 1930. È un documento che dimostra non solo la sua abilità nel disegno, ma anche la perfetta comprensione della composizione e della luce del dipinto.
Il Ragazzo morso da un ramarro, che rappresenta il punto di forza della collezione di Longhi e che esamineremo approfonditamente nella Sala 2, risale ai primi anni dell’attività romana di Caravaggio, intorno al 1596-1597, quando l’artista eseguiva tali soggetti per venderli. L’opera si caratterizza per la rappresentazione vivida delle sensazioni e degli stati d’animo; il moto improvviso del ragazzo morso dal ramarro, che sbuca dalla natura morta nell’angolo del dipinto, è reso grazie alla contrazione dei muscoli facciali, unita alla posa scomposta ed alla bocca semi aperta dalla quale sembra uscire l’urlo di dolore.
In tal senso, Longhi si dimostra non solo grande conoscitore del Merisi, ma in grado di stilizzarne a carboncino le principali espressioni dell’animo.
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Nella prima sala alcuni dipinti ci introducono al clima artistico del manierismo lombardo e veneto, in cui si è formato Caravaggio.
LORENZO LOTTO
Tra i suoi predecessori, troviamo Lorenzo Lotto, pittore veneziano dall’indole originale e anticonformista, che lo portò presto a una sorta di emarginazione dal contesto lagunare, dominato da Tiziano Vecellio: oltre che per il luminismo, quindi, è la vita del Lotto ad assomigliare a quella di Caravaggio, perché la sua figura si avvicina a quella dell’uomo moderno, “sradicato” dalla società e fuori dal proprio tempo. Lorenzo Lotto è stato il pittore del profondo, dell’intimo delle cose, della resa psicologica dei personaggi, in un momento in cui la visione prevalente era quella dell’uomo-eroe, sicuro di sè e di ogni sua potenzialità, piuttosto che quella dell’uomo in rapporto con la propria esistenza.
Sono esposte in mostra quattro piccole tavolette di santi (San Pietro Martire, San Domenico, Madonna Addolorata, San Giovanni Evangelista). È a lui, sempre secondo Longhi, che Caravaggio deve la sua prima maniera luministica. Come scrisse Longhi nel 1911: “Lotto è un luminista immenso, che va oltre Vermeer. Specie la prima maniera luministica di Caravaggio può dirsi preparata, – certo oltrepassata – dal luminismo del Lotto. È un luminismo che si serve di una caratteristica luce radente e pure essenzialmente fissatrice di movimenti non scompositrice di essi, tale insomma da preludere al luminismo statico di Caravaggio”.
BATTISTA DEL MORO
Nella stessa prima Sala, è esposto anche il piccolo quadro di Giuditta con la testa di Oloferne, realizzato dal pittore veronese Battista del Moro (1514-1574). Accanto agli elementi manieristici, dovuti alla conoscenza di Giulio Romano, è evidente nell’opera il colorismo robusto e materico, dovuto al contatto con il Savoldo e il Moretto. Secondo alcuni studiosi, la tela suonerebbe come un anticipo dell’audace David con la Testa di Golia di Caravaggio, che certo guardava con attenzione alla pittura veneta: in realtà non fu solo Caravaggio ad ispirarsi a questo stile pastoso, bensì anche Carlo Saraceni in un’opera dal medesimo soggetto (anch’essa esposta in mostra).
Importante qui la ripresa di un quadro di medesimo soggetto del giovane Correggio, per quanto concerne i tratti negroidi della serva e le ciocche della testa di Oloferne: quello che cambia sono gli impressionanti occhi bianchi, indirettamente puntati verso Giuditta, un motivo cruento in una testa in penombra che lo stesso Caravaggio come detto riprenderà, con ancor maggiore valenza drammatica ed ancor più impeto naturalistico, nel suo David con la testa di Golia.
BARTOLOMEO PASSEROTTI
Nel XVI secolo i quadri non raffiguravano soltanto angeli con gli occhi al cielo, Madonne pie e Santi meditabondi. I quadri iniziarono a riempirsi anche di polli e galline, quarti di bue e conigli squartati, scene popolari intorno ai banchi del pesce. Una “pittura delle cose umili”, come la definì Roberto Longhi.
Prendiamo un luogo e una data: Bologna, 1560. In città ritorna Bartolomeo Passerotti, formatosi a Roma e con i marchigiani, molto bravo nel disegno e nei quadri di soggetto religioso. Nello stesso luogo e nello stesso anno, nasce Annibale Carracci, destinato a innovare la rappresentazione del vero: toccherà proprio a lui raccogliere il testimone di Passerotti in un cammino pittorico che guardava a scene di genere, fatte di contadini, cibo semplice e povera gente.
Passerotti era nato nel 1529 a Bologna, si era inizialmente ispirato a Correggio da una parte e a Vasari dall’altra, ma la sua curiosità lo portò ben presto verso il solco della pittura di genere, ma con un tocco di originalità. D’altronde, nella seconda metà del 500, le scene popolari che mostrino componente alimentare cominciano a pesare sul mercato, sia italiano che fiammingo: qualche volta, poi, il tema religioso si ritrova a convivere con quello culinario, come ad esempio in Jacopo Bassano che nel 1546 dipinge “L’Ultima Cena”, dove solo Cristo mantiene una certa dignità, con gli apostoli che si accasciano sazi sulla tavola.
Passerotti va oltre: nel suo dipinto “Le Pollarole” carica l’umiltà sociale dei suoi personaggi di una tensione erotica e dissoluta (nel dipinto, una delle due donne finge di baciare il gallo, con un messaggio che persino oggi tenderebbe a farci arrossire, soprattutto andando a ricercare l’evidente doppio senso in lingua anglosassone…), fra ghigni e strafottenze, che sanno di malafede e furbizia cattiva.
Non c’è nessuna indulgenza verso le classi subalterne, nessuna compassione, nessuna identificazione, ma un distacco sarcastico e divertito, come di qualcuno che ride alle scene del circo. Siccome i destinatari di questi quadri erano i ceti aristocratici, Passerotti ne fa teatro e recitazione comica. Sarà Carracci, in tal senso, a cambiare pagina.
FANCIULLO CHE MONDA UN FRUTTO
Si tratta della copia di un dipinto originale di Caravaggio ormai andato perduto, ma ben conosciuto attraverso le svariate copie dello stesso, tra cui quella presente nella Collezione Longhi.
Stagliato su fondo scuro, si vede un giovane ragazzo rappresentato a mezzo busto che sta sbucciando un frutto con un coltello: il giovane è concentrato nella sua azione e non guarda direttamente il pubblico.
Il Fanciullo che monda un frutto viene considerato da parecchi critici una delle primissime opere realizzate da Caravaggio a Roma, e c’è chi sostiene che essa sia stata realizzata durante la permanenza del pittore presso Monsignor Pandolfo Pucci (soprannimato con salace arguzia “Monsignor Insalata”, per l’abitudine che aveva di dar da mangiare a pranzo e a cena solo questo alimento). Sempre secondo gli studiosi prevalenti, Caravaggio, durante il soggiorno presso il prelato Pucci, avrebbe infatti realizzato due quadri: il “Ragazzo morso da un ramarro” (che vedremo nella prossima stanza) e per l’appunto “Il fanciullo che monda un frutto”.
Risulta molto complicato riuscire a capire cosa sia accaduto a queste due opere seguendo una precisa cronistoria. Si pensa che il quadro fosse uno di quelli strappati con violenza nel 1607 da Papa Paolo V alla bottega del Cavalier d’Arpino (presso cui Caravaggio lavorò durante i suoi primi anni romani, non senza qualche pesante incomprensione fra i due artisti). Tra questi c’erano sicuramente anche il “Bacchino malato” e il “Ragazzo con canestra di frutta” che ora si trovano esposti entrambi alla Galleria Borghese.
LE “SCENE DI GENERE”
Del “Fanciullo che monda un frutto” esistono numerose versioni, molto probabilmente richieste da vari committenti, che potevano essere sia personaggi vicino a Monsignor Pucci che altri generici committenti o protettori del Merisi a Roma. La situazione rappresentata è infatti una cosiddetta “scena di genere” (Longhi lo definisce letteralmente un “non-soggetto”); Si tratta di soggetti che potremmo definire “poco impegnativi”, ma che mantengono comunque una certa classe e sono facilmente smerciabili: Caravaggio ne dipinse molti nella prima fase della propria carriera, come ad esempio la “Buona Ventura” o i “Bari”).
IL FRUTTO
L’analisi che maggiormente ha impegnato i critici intenti a studiare quest’opera riguarda il tipo di frutto che sta venendo sbucciato dal ragazzo.
Il frutto che viene sbucciato dal ragazzo è in effetti abbastanza misterioso. Le fonti dicono che potrebbe trattarsi di una pera, ma non sembrerebbe averne la forma corretta; potrebbe trattarsi di una drupa (una sorta di grossa ciliegia), che però di solito non viene sbucciata; alcuni critici hanno suggerito che potrebbe trattarsi di un bergamotto, frutto dalla forma simile a quella della pera, ma altri hanno obiettato che il bergamotto è talmente aspro da risultare praticamente non commestibile.
La tesi più curiosa e interessante è quella dello studioso di Caravaggio John Spike, che ha recentemente suggerito una visione più spirituale dell’opera: il fanciullo dimostra resistenza alla tentazione nell’ignorare i frutti più dolci (da assimilare ai frutti del peccato) in favore del bergamotto, amaro e non commestibile. In tal senso, nessuna specifica lettura è stata accettata, ed anche quest’ultima visione sembra essere decisamente un po’ forzata.
CARAVAGGIO – IL RAGAZZO MORSO DA UN RAMARRO
Per comprendere a dovere la genesi di questo dipinto, dobbiamo affidarci a due biografie su Caravaggio, al fine di comprendere in quale fase della sua vita l’artista abbia scelto di realizzare quest’opera.
L’opera è tra l’altro nota in due esemplari, entrambi autografi, uno a Londra alla National Gallery e uno a Firenze (la Collezione Longhi). Esposti l’uno accanto all’altro, a Firenze nel 1991, si è potuto confermare l’autografia di entrambe le opere.
LA BIOGRAFIA DI GIULIO MANCINI
Giulio Mancini, il primo biografo del Caravaggio, afferma nel 1621 che nel primo difficile periodo dopo l’arrivo a Roma, “d’età incirca 20 anni, fece per vendere un putto che piange per essere stato morso da un racano che tiene in mano, per valore di quindici giulii”.
Il Mancini sottolinea il basso prezzo al quale il pittore in difficoltà si vide costretto a venderlo, e questo ci fa capire perfettamente la difficoltà della situazione: liberatosi del cavalier d’Arpino, Caravaggio si dedicò a fare dipinti non su richiesta di un committente, ma per affidarli direttamente a un mercante (forse un certo Costantino che aveva il negozio nei pressi di San Luigi dei Francesi).
LA BIOGRAFIA DI GIOVANNI BAGLIONE
Anche Giovanni Baglione, antagonista e biografo ostile del Caravaggio, nel 1642 scrive: “poi andò a stare a casa del cavaliere Gioseppe Cesari d’Arpino, per alcuni mesi. Indi provò a stare da se stesso, e fece alcuni quadretti da lui nello specchio ritratti. Et il primo fu un Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse, con gran diligenza fatte di maniera un poco secca. Fece anche un fanciullo, che da una lucerta uscita da fiori e frutti era morso. E parea quella testa veramente stridere e il tutto con diligenza era lavorato. Pur non trovava a farne esito e darli via”.
Quel che ci interessa maggiormente in questo trafiletto, sempre tenendo bene a mente l’ostilità intercorsa fra il Baglione e Caravaggio, è l’espressione “con diligenza era lavorato”: il biografo si limita dapprima a descrivere la componente naturalistica dell’opera (il ramarro, i fiori e la frutta), ma poi si concentra sull’aspetto tecnico, ossia sulla luce proiettata dalla finestra sulle pareti di vetro della caraffa, un ardimento ottico che si lega a quel suo “nello specchio ritratti”, a cui si legano i processi e gli studi sull’ottica dello stesso Caravaggio. Significativamente, il cardinale Francesco Maria Del Monte condivideva con Caravaggio la passione per le lenti, i vetri, gli specchi e, più in generale, per l’ottica, di cui anche il fratello scienziato Guidobaldo Del Monte era uno studioso appassionato.
I MOTI DELL’ANIMO
Molto evidente l’interesse che, in questo periodo giovanile, Caravaggio nutre per la rappresentazione dei cosiddetti “moti dell’animo”, che Leonardo da Vinci chiamava simbolicamente “gli affetti“.
Tale passione derivava direttamente proprio dallo studio, con ogni probabilità già iniziato in Lombardia durante l’apprendistato presso Simone Peterzano, dell’opera di Leonardo da Vinci e del suo Trattato di Pittura, in cui si descrivono “vari accidenti e movimenti dell’uomo e proporzioni di membra“.
In questo senso, avevano larga importanza gli studi di fisiognomica, il cui fine precipuo era quello di studiare i caratteri psicologici e morali di una persona analizzandone l’aspetto fisico e, in particolare, i lineamenti. Tuttavia, a orientare gli artisti (soprattutto Leonardo da Vinci, che di ciò fu un vero maestro) nella rappresentazione degli “affetti” sono soprattutto i fogli di caricature e di raffigurazioni del grottesco, che avevano il compito non solo di alterare in forma comica i connotati della persona, ma anche di mostrare emozioni e sensazioni.
In quest’opera, quindi, Caravaggio mostra come in un “fotogramma” la raffigurazione di una reazione all’orrore che un giovane prova di fronte al morso di un ramarro sbucato d’improvviso dai fiori e frutti.
ANALISI DELL’OPERA – IL DOPPIO SENSO
Tra le varie analisi effettuate sul Ragazzo morso da un ramarro, ne esiste una che apre scenari intriganti su un possibile doppio senso dell’opera.
Apparentemente, essa raffigura un ragazzo morso da una lucertola che sbuca dai fiori e dai frutti in cui era nascosta. Essa potrebbe però nascondere un riferimento, neanche troppo celato, alla ricerca del piacere ed alle pene amorose: la scelta del modello effeminato, con una rosa fra i capelli e la spalla destra seminuda, e le ciliegie appaiate che appaiono in primo piano sarebbero un evidente e simbolico richiamo sessuale.
Il dipinto risentirebbe, dunque, del clima culturale ed edonistico che si respirava alla corte del cardinale Francesco Maria De Monte che, sulla base dei resoconti mondani dell’epoca, amava festini con ragazzi effeminati, vestiti all’antica, che si esibivano in rappresentazioni teatrali e musicali. Mario Minniti, il ragazzo siciliano effigiato proprio da Caravaggio nel suo Suonatore di Liuto, potrebbe rappresentare proprio una di queste ricorrenze.
Anche il ramarro e la sua morsicatura, però, sono stati oggetto di molteplici letture allegoriche, talvolta piuttosto ardite. Tra queste, spiccano quelle del saggista australiano Peter Robb e dello storico Graham Dixon, secondo cui il dito della mano sarebbe simbolo del fallo leso, o meglio, della castrazione, procurata dalla bocca sdentata del ramarro che punisce l’eccesso di libidine e favorisce la voce bianca, di gran moda all’epoca.
CARLO SARACENI
Dopo il Caravaggio, tocca ai cosiddetti “caravaggeschi“.
Non possiamo considerare questi artisti come facenti parte di una scuola: così come Caravaggio non ebbe veri e propri maestri, egli non ebbe nemmeno veri e propri scolari. Possiamo semmai adoperare il termine “cerchia”: Caravaggio suggerì un atteggiamento ed in questo modo provocò un consenso in altri spiriti liberi, senza mai obbligare nessuno a seguire il proprio pensiero e senza mai definire una poetica di regola fissa.
Uno degli artisti maggiormente rappresentativi della mostra “Il tempo di Caravaggio”, in quanto a numero di opere, è il veneziano Carlo Saraceni (1585-1625). Carlo Saraceni può essere considerato l’unico artista veneziano del suo tempo che, voltate con decisione le spalle alla cultura artistica tardomanieristica veneziana e presa la strada di Roma, si accostò nei primi del Seicento alla visione artistica profondamente rinnovata in senso naturalistico di Caravaggio, assimilandola in modo graduale e del tutto originale, temperandone i drammatici contrasti di luce e ombra con larghi e dolci brani luminosi.
Saraceni, di cui sono presenti in mostra ben tre opere, nasce come paesaggista, e nella prima delle tre opere in mostra, ossia “Mosè ritrovato dalle figlie del faraone“, databile al 1606, egli mostra ancora la grande attenzione riposta nella creazione dei dettagli naturalistici e nella ricerca di effetti chiaroscurali. Qui Saraceni è ancora ben lontano dalla poetica di Caravaggio, e riflette bensì l’attaccamento all’eredità veneziana ed alle influenze nordiche. Il dipinto è molto ben bilanciato dal punto di vista cromatico, spaccato quasi simmetricamente in una zona colpita da una candida luce mattutina (che sbalza le figure abbigliate in costumi evidentemente contemporanei) ed in un’altra immersa nell’ombra, con una natura invasiva ed estesa in profondità.
IL RITRATTO DEL CARDINALE RANIERO CAPOCCI
Tutto cambia pochi anni dopo, con il “Ritratto del cardinale Raniero Capocci“, dipinto acquistato da Longhi negli anni immediatamente antecedenti alla Seconda Guerra Mondiale. Si tratta del ritratto celebrativo del cardinale Raniero Capocci, religioso cistercense membro della famiglia viterbese (non imparentata con l’omonima e più illustre famiglia romana) vissuto fra XII e XIII secolo e passato alla storia come il primo cardinale guerriero, giurista, uomo politico, architetto e musicista, che si legò a Innocenzo III in Tuscia e che combatté per Gregorio III conquistando la natia Viterbo. Sul retro della lettera, che il porporato legge con cura e concentrazione, si legge la data 1213, che allude proprio alla nomina del prelato a cardinale. Si tratta di una data utile a datare l’opera, eseguita da Saraceni probabilmente attorno al 1613, su commissione dei discendenti del Capocci che volevano celebrare il 400simo anniversario della sua nomina a cardinale.
Lo stile pittorico è decisamente mutato: abbandonato il suo primo stile, Saracenistava abbracciando gradualmente, ma con sempre maggiore convinzione, la visione naturalistica di Caravaggio. Il ritratto è profondamente innovante, “vibrante di bassa tensione” come lo definisce Longhi, ma ancora privo di quella drammaticità tanto cara a Caravaggio e ai suoi seguaci.
Saraceni è sempre contrassegnato da una certa pacatezza, e non raggiunge mail il crudo livello di realismo di Caravaggio, in particolare nei temi più tragici: ciò tuttavia non gli impedisce di dare carattere al cardinale Raniero, la cui vigorosa fisionomia di condottiero e combattente viene restituita senza drammi, con un’epidermica attenzione al dettaglio e alla resa naturale, che dimostrano come Saraceni avesse fatta propria la lezione di Caravaggio. Saraceni utilizza un fondo scuro ed una luce laterale, che illumina il volto e la spalla del Capocci, ma soprattutto sceglie di non idealizzare un ritratto postumo: la pesante veste cardinalizia, di un rosso brillante, ben si accorda con l’imponente figura del prelato, la cui grande mano stringe sicura una lettera (forse proprio la sua nomina a cardinale), con la bocca serrata e la fronte aggrottata.
L’unica licenza poetica che Saraceni si permette di seguire è l’età matura del Cardinale, stempiato e segnato da profonde rughe, ma che ai tempi della nomina avrebbe avuto circa 30 anni, essendo nato nel 1180.
GIUDITTA CON LA TESTA DI OLOFERNE
È con questa tela che Saraceni si avvicina inequivocabilmente a Caravaggio, con una completa adesione, tanto che lo stesso Baglione scrisse che il Saraceni “professava di imitare Michelagnolo da Caravaggio”.
Saraceni infatti, nel secondo decennio del Seicento, iniziò ad adottare i fondamenti della pittura di Michelangelo Merisi, come il formato più grande, le figure più solenni, il lume artificiale e lo studio del naturale, proprio a partire da quest’opera, databile al 1618 (acquistata da Longhi assieme alla precedente nel 1939).
L’interpretazione meno drammatica e caricata che Saraceni dà del tema caravaggesco lo porta a scegliere non già il terrificante momento dipinto da Caravaggio, ma l’attimo immediatamente successivo, in cui il gesto eroici e liberatorio si è concluso. Si riscontra un’atmosfera veneta, nella calma della scena, nella brillante veste di Giuditta, in quella testa di Oloferne avente un’espressione ormai distesa ed in quel corpo seducente e formoso di Giuditta (così diversa dall’eroina energica di Caravaggio), che posa con grazia la testa nel sacco. Saraceni ha quindi scelto di addolcire il Caravaggio, con lo sguardo di Giuditta che diventa quasi dolce (anziché freddo e distaccato) e il tiranno Oloferne è definitivamente sconfitto.
ANGELO CAROSELLI
Il romano Angelo Caroselli (1585-1652) è presente con l’Allegoria della Vanità (1620), un’opera che rispecchia il suo interesse per le figure femminili, a volte misteriose e conturbanti, spesso agghindate come donne di piacere.
Longhi afferma come “il Caroselli non seppe conquistare in tutta la sua vita, per nulla breve, la tessera di vero caravaggesco. Egli era infatti covato non dalla pittura del Merisi, ma dalla negromanzia di quei tempi, tanto da considerare la pittura non come un’attività spirituale, ma come industriosa alchimia”. Si è sempre supposto che Caroselli fosse legato ai circoli degli adepti di scienze segrete: la magia, l’occultismo e l’alchimia. Anche solo basandoci sull’analisi dei quadri possiamo dedurre che probabilmente egli praticava il doppio mestiere di artista e di alchimista, giudizio che probabilmente ha consentito all’artista di ricevere l’invito fatto da parte del Re d’Inghilterra, Carlo I, egli stesso adepto di scienze segrete (poi rifiutato, per la fortuna di Orazio Gentileschi).
Molti degli acquirenti del pittore, legati tra loro da rapporti di parentela ed amicizia, sono in qualche modo legati alla cultura magica; posseggono infatti testi messi all’indice, volumi di astrologia, divinazione, alchimia, scritti inerenti all’interpretazione dei sogni. Inoltre, bisogna anche ricordare che l’interesse nei confronti del mondo esoterico era particolarmente vivo alla corte inglese, non a caso il padre di Carlo I, Giacomo I, era stato autore di un trattato dal titolo Daemonologie in form of a dialogue.
ALLEGORIA DELLA VANITA’
Una donna si pettina mentre un uomo le regge lo specchio, mentre un’ampolla metallica sul fondo riflette (indizio del passato) la nuca e le spalle.
Il quadro ha avuto parecchie interpretazioni per la presenza contemporanea di alcuni simboli (Vanità, Prudenza) e solo recentemente si è cercata una sintesi degli argomenti leggendo nel quadro un esplicito riferimento alla pratica alchemica, alla sintesi fra maschio e femmina, fra fuoco e acqua, fra prudenza e vanità la cui unione «è tipica del processo e della ricerca filosofica che conducono all’attuazione della res mistica».
DOMENICO FETTI
L’ultima opera che esamineremo nella Sala 3, e che concluderà la prima parte di questa analisi della Mostra, è la “Maddalena Penitente” realizzata dall’artista romano Domenico Fetti (1589-1623), che in realtà svolse quasi tutta la sua carriera a Mantova, come pittore di corte dei Gonzaga, trascorrendo poi gli ultimi anni di vita a Venezia dove contribuì alla svolta della pittura locale tardorinascimentale verso nuovi esiti barocchi.
La sua fama è legata soprattutto alla pittura devozionale che tanto successo ebbe presso i collezionisti dell’epoca da indurre il pittore a replicare i soggetti in più versioni.
Il dipinto, realizzato attorno al 1620, mostra una Maddalena dai tratti soffusi di dolce tristezza, che poggia il capo su una mano, fortemente ispirata alla Maddalena di Correggio, certamente conosciuta da Fetti, ma che in generale recupera il gesto fondamentale dell’allegoria della melancolia, divulgato da una celeberrima incisione di Durer. Lo stesso Fetti, d’altronde, farà esplodere questo concetto nella bellissima Maddalena Doria, oggi esposta alla Galleria Doria Pamphilj.
Il teschio evidenzia, come sempre, l’importanza del memento mori, un oggetto di meditazione tipico dell’iconografia della Maddalena o del San Girolamo: il monito sulla transitorietà della vita ed in generale di ogni cosa mortale concorre a connotare la malinconia come “tristitia”, non intesa come tristezza in senso letterale, ma “nella sua locuzione evangelica, come la tristezza secondo Dio, citata da San Paolo, che produce pentimento e salvezza”.