ROBERTO LONGHI – IL TEMPO DI CARAVAGGIO (parte 2)
Con l’articolo Roberto Longhi – Il Tempo di Caravaggio (seconda parte) Riprendiamo il nostro percorso all’interno della bella mostra ospitata dai Musei Capitolini e dedicata alla Collezione di Roberto Longhi, intitolata “Il Tempo di Caravaggio“.
Nella prima parte abbiamo esaminato proprio il capolavoro della mostra, ossia il Fanciullo morso da un ramarro, che era ovviamente la maggiore attrattiva dell’esposizione. Adesso ci concentreremo sulle tre sale terminali della mostra, dedicate ai veri e propri Caravaggisti, iniziando ovviamente dalle due città in cui il Merisi lasciò le sue impronte più indelebili: Roma e Napoli, talvolta persino interconnesse fra loro.
—
Se l’articolo del nostro blog vi fosse piaciuto, potreste decidere di partecipare ad una delle visite guidate organizzate dall’Associazione Culturale Rome Guides. Contattateci per creare l’itinerario perfetto per le vostre richieste.
JUSEPE DE RIBERA
Entrando all’interno della Sala 4, la prima cosa che colpisce lo spettatore è la spettacolare visione di cinque tele raffiguranti cinque Apostoli, realizzate attorno al 1612 da un giovanissimo Jusepe di Ribera. Questi capolavori del primo caravaggismo sono stati eseguiti prima del suo trasferimento a Napoli, dove sarebbe diventato uno degli esponenti più importanti della pittura napoletana del Seicento.
La prima formazione di Ribera avviene in Spagna presso la bottega di Francisco Ribalta, ma la sua vera formazione avviene in Italia, dove lo Spagnoletto (come verrà soprannominato Ribera in virtù delle sue origini) si trasferisce per seguire il padre, soldato spagnolo a servizio in Italia. Inizialmente visita il Nord (Cremona, Milano e Parma) dove non si limita ad inseguire le orme di Caravaggio, ma realizza anche copie di opere del Correggio e di Tintoretto. Si trasferisce poi a Roma (per un tempo assai breve) ed infine a Napoli, dove nel 1630 incontrerà Velazquez, evento che determinerà un cambiamento lapalissiano nella sua pittura, trasformando evidentemente il suo tratto ed il suo colore, che diventano più pacati, delicati e dai toni più chiari.
ACQUISTO E ATTRIBUZIONE DELLE OPERE
La serie dei 5 Apostoli entra a far parte della raccolta di Longhi nel 1916: i dipinti appartenevano alla collezione romana dei marchesi Gavotti. In realtà, negli inventari della famiglia non viene mai menzionato il nome dell’autore, e lo stesso Longhi si trovò a formulare ipotesi e congetture per decenni, senza tuttavia arrivare ad un’identificazione certa dell’artista: addirittura, per quasi un decennio, Longhi attribuì le opere ad un maestro d’oltralpe, fra Francia e Fiandre, forse un giovanissimo Valentin de Boulogne. Il quesito, a lungo irrisolto, sembra essere stato sciolto nel 2002 (dopo un importante restauro del 1999, che ha consentito una maggiore leggibilità delle opere), in direzione della paternità a Jusepe Ribera, sicuramente il più caravaggista dei caravaggisti.
Le difficoltà attributive erano acuite dal fatto che non si conoscessero opere del Ribera appartenenti al soggiorno romano, ma erano state fatte notare delle assonanze con la pittura del giovane Velazquez (stessa terra di origine), anche in virtù dell’analisi dei modelli, che sembravano moriscos spagnoli. La storia critica di questi dipinti è davvero emblematica: Longhi li aveva comprati quando ancora poco si sapeva di Caravaggio e pochissimo di Jusepe de Ribera. Le solenni e essenziali figure degli Apostoli, che si appropriano di uno spazio grigio e definito da netti tagli luminosi furono per decenni il rovello delle ricerche di Longhi, che li aveva avvicinati a un altro dipinto enigmatico, il Giudizio di Salomone della Galleria Borghese (visitala con Rome Guides prenotando l’apposito Tour), creando il gruppo di un geniale maestro anonimo. È stato Gianni Papi, quasi venti anni fa, a compiere una delle più importanti scoperte per la storia della pittura seicentesca, identificando il Maestro del Giudizio di Salomone con Ribera e dando consistenza alle testimonianze delle fonti che individuavano nel maestro spagnolo uno dei più potenti interpreti della rivoluzione caravaggesca.
Proprio la somiglianza “spagnola” ha permesso di ricostruire la committenza: le opere vennero realizzate per Pedro Cussida, rappresentante spagnolo presso la Corte Pontificia, passando dapprima in via ereditaria a suo figlio e, alla sua morte nel 1622, alla figlia di quest’ultimo, Laura, di appena un anno. La minore fu quindi messa sotto tutela dello zio Nicola Gavotti, la cui famiglia incamerò tutti i beni della piccola.
LO STILE DELLE OPERE
Nell’inventario apparivano in realtà 12 apostoli, con cornici dorate, di cui questi 5 sono solo una piccola parte. Altri due si trovano oggi a Capodimonte, ed altri due in collezione privata a Milano. Gli altri tre sono al momento sconosciuti. I 5 dipinti si distinguono per la varietà delle pose e per l’individualità di ogni personaggio, che campeggia nello spazio con inaudita potenza e severa monumentalità.
Il Ribera si abbandona ad un verismo esasperato al di là di ogni limite convenzionale col suo pennello intriso di una densa materia cromatica, con un vigore di impasto che ricorda l’accesa policromia delle più crude immagini sacre della pittura spagnola coeva, segno indefettibile della sua mai tradita hispanidad, ignara dei risultati della pittura rinascimentale italiana. Ed ecco rappresentato un infinito campionario di umanità disperata e dolente.
Le figure isolatissime, e proiettate in primo piano avanzatissimo, costituiscono importanti novità iconografiche anche rispetto allo stesso Caravaggio, collocando il Ribera degli anni romani nel ruolo di indiscusso capofila, per esuberanza e talento, fra tutti i seguaci di Caravaggio.
- San Tommaso, lancia del martirio e mano tesa.
- San Bartolomeo, pelle e coltello.
- San Paolo, spada e libro, perchè “La Parola di Dio è viva e più tagliente di una spada a doppio taglio”
- San Filippo, croce di legno (appeso ad un albero)
- San Giuda Taddeo, testa spiccata a colpi di accetta
Si notino gli ampi mantelli, che conferiscono grande spessore alle figure di San Paolo e San Filippo; si noti la minacciosa frontalità del San Bartolomeo, inquietante nella fissità allucinata dello sguardo; una fitta e incalzante successione d’intensi e straordinari ‘ritratti’ di umanità quotidiana, immagini autentiche e immediate, per rappresentare santi e madonne, personificazioni dei sensi o di antichi saggi e filosofi, così come di carnefici e vittime di atroci e interminabili martiri, senza modificarne verità di pelle, di tratti somatici, di reazioni espressive.
MAESTRO DELL’ANNUNCIO AI PASTORI
Uno dei dipinti più rappresentativi del Seicento napoletano è la bella tela raffigurante l’Annuncio ai pastori, opera di un pittore dall’identità ancora incerta (sebbene come spiegherò fra poco, esso sia stato di recente probabilmente identificato con lo spagnolo Juan Do, della cerchia di Jusepe de Ribera), conosciuto proprio come il ‘Maestro dell’Annuncio ai pastori’: egli venne denominato in questo modo a causa del soggetto ricorrente, in modo quasi monotematico, che ne caratterizza la produzione. Ci sono opere di questo misterioso personaggio a Capodimonte, a Birmingham e sul mercato antiquario: sono sempre e soltanto storie di pastori, sorpresi di notte dagli annunci degli angeli, ovvero inginocchiati davanti al giaciglio del Cristo appena nato.
IL PASSO EVANGELICO E L’INFLUENZA DI CARAVAGGIO
Osservando l’opera, ci si riende immediatamente conto di come il pittore riveli palesemente la sua adesione al verbo caravaggesco, sia per l’approccio propriamente compositivo che per le sue scelte contenutistiche.
La composizione segue in effetti con molta fedeltà il passo evangelico di Luca: «C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, ma l’angelo disse loro: “Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi è nato per voi nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”.
Nel buio della notte dunque la scena s’illumina improvvisamente, e nella luce riflessa si distinguono nitidi gli elementi della loro miserabile condizione. La luce non deriva da un fuoco o da una lucerna, ma (sulla base della scia caravaggesca) è la grazia divina che investe i pastori: le vesti lacere e rattoppate, l’improvvisato bivacco per terra e tra i sassi, all’addiaccio tra le pecore, le testimonianze evidenti del loro par-co desco, un pane raffermo e una fiasca di vino, se non proprio di acqua.
L’IDENTITA’ DEL MAESTRO DELL’ANNUNCIO AI PASTORI
Il tentativo di identificazione del Maestro dell’Annuncio ai Pastori ha riempito con costanza gli studi dell’ultimo mezzo secolo. La reiterazione monotematica del soggetto ha fatto pensare a qualche critico che il pittore potesse vantare una conoscenza diretta della vita pastorale.
D’altronde, il soggetto in questione non viene rappresentato assai di frequente nelle chiese e negli edifici sacri: è vero che l’evento viene citato nelle Sacre Scritture, ma esso ha un carattere narrativo e quasi aneddotico. Non è certo tema da pala d’altare, e per questo a molti è parso assai improbabile che esso potesse aver tratto origine da una committenza con destinazione ecclesiastica.
Prediligere un soggetto del genere al punto tale da farne un elemento distintivo della propria produzione ha quindi indotto molti a pensare ad una vicinanza spirituale, quasi politica e solidaristica, con il mondo dei pastori e più in generale delle categorie sociali più disagiate ed oppresse della comunità. Alcuni critici hanno voluto pertanto leggere nell’opera dei chiari riferimenti al vissuto contemporaneo dell’autore, nella Napoli oppressa dall’esoso fiscalismo del potere spagnolo che di lì a pochi anni, nel luglio 1647, esploderà in una rivolta popolare senza precedenti, di cui è nota la tragica conclusione.
L’IDENTIFICAZIONE CON JUAN DO
Alcuni studiosi sono però partiti da una premessa diversa.
Un pittore che fosse così concentrato su un unico soggetto indicava una personalità ben conscia delle potenzialità delle proprie opere: l’artista sapeva di poterle vendere con facilità, ad un pubblico ben circoscritto e definito. A chi potevano piacere queste scene di tanto crudo realismo, tanto da accettare di mettersi in casa, magari nel salone di rappresentanza, queste figure dai piedi sporchi e dai panni laceri e consunti, e le greggi sporche di letame?
L’ipotesi di Juan Do, assistente della cerchie di Jusepe de Ribera, avrebbe una giustificazione concreta, quasi commerciale: quest’ultimo aveva infatti la sua bottega nei pressi di San Gregorio Armeno, luogo prediletto dai facoltosi committenti che si facevano realizzare delle rappresentazioni folcloristiche, teatrali e finanche caricaturali di un volgo dalle variopinte figure – contadini, commercianti, artigiani, pezzenti e naturalmente pastori e animali – per i propri presepi.
BATTISTELLO CARACCIOLO
Battistello Caracciolo, che era quasi coetaneo di Caravaggio e abitava a Santa Maria della Carità, in un quartiere fitto di presenze di pittori, è un caravaggesco “infedele”: alcune fra le sue prove napoletane di massimo impegno, come ad esempio a Palazzo Reale o nella Chiesa di San Martino, sono realizzate ad affresco, mentre come ben si sa Caravaggio (ed assieme a lui Jusepe de Ribera) fu sempre “ideologicamente refrattario” alla pittura murale.
Battistello Caracciolo fu tra i primi seguaci napoletani del Caravaggio, ed è presente in mostra con il suo suggestivo Cristo morto trasportato al sepolcro, di grande impatto emotivo e allo stesso tempo elegante e raffinato nelle anatomie delle figure e nel decorativismo delle preziose stoffe raffigurate.
Nonostante l’opera potrebbe aver avuto il suo precedente più diretto nel cinquecentesco Trasporto di Cristo al sepolcro di Polidoro da Caravaggio, il dipinto di riferimento resta, ovviamente, la Deposizione di Caravaggio, soprattutto per la posa del Cristo. La grande sopresa scatta però nell’osservare il Nicodemo di Battistello Caracciolo, perchè il pittore potrebbe aver adoperato come modello per il suo personaggio lo stesso modello adoperato da caravaggio per il suo San Matteo e l’Angelo.
Si nota inoltre come il dinamismo caratterizzante le opere del Battistello venga in quest’opera (1615) enfatizzato dal taglio ribassato della composizione, notando alcune assonanze con la pittura dei Ribera soprattutto nella rugosa pastosità di alcuni volti, ma che da lui si differenzia per un corposo uso di colori con tonalità bronzee e brune (Longhi lo definirà “il patriarca bronzeo del seicento napoletano”). I toni scuri e i colori terra sono tipici di questa stagione della pittura napoletana: è un caravaggismo con una luce che a fatica si fa strada tra ombre sempre molto addensate.
VALENTIN DE BOULOGNE
Il secondo vero capolavoro presente in mostra, oltre alla tela di Caravaggio, è La Negazione di Pietro (1615-17) di Valentin de Boulogne, il più acclamato dei caravaggeschi francesi.
Valentin del Boulogne non può essere considerato semplicemente un seguace di Caravaggio: egli fu un artista di immensa statura, il più grande dei caravaggisti francesi, in cui si alternano violenza gestuale e tono elegiaco. Alla sua morte a Roma, nel 1632, i registri di Santa Maria del Popolo definirono Valentin “pictor famosus“: egli, nonostante un’esistenza bohémien variamente ricordata nelle biografie, morì all’apice della carriera, nel momento in cui la sua pittura, lontana ormai dall’essere considerata semplicisticamente una rielaborazione del prototipo di Caravaggio, era stimata da alcuni dei maggiori patroni delle arti.
Si pensi, solo per fare un esempio, che proprio a Valentin de Boulogne venne affidata, quale prestigiosa committenza per la Basilica di San Pietro, l’eccezionale tela raffigurante Martirio dei Santi Processo e Martiniano (oggi in bella mostra nella Pinacoteca Vaticana). Nella stessa Basilica, dal 1629 si ergeva sull’altare alla sinistra il Martirio di Sant’Erasmo di Nicolas Poussin, astro della pittura francese classicista e antiquaria, che venne così affiancato alla miglior espressione del caravaggismo d’oltralpe a Roma.
LA NEGAZIONE DI PIETRO
L’episodio evangelico citato viene qui trasformato in una scena di taverna, con un preciso riferimento alla famosa Vocazione di San Matteo di Caravaggio.
Si tratta di una composizione emblematica della ricezione dell’opera di Caravaggio a pochi anni quindi dalla morte del Merisi, quando quella lezione folgorante di gesti repentini e violenti, incombere di ombre e scene quotidiane si imponeva nell’ambiente artistico romano popolato da pittori italiani e stranieri.
Valentin de Boulogne svolge l’episodio articolandolo in sette figure: soldati in armatura, giovani elegantemente abbigliati, la serva che accusa l’apostolo. Tutti i personaggi sono atteggiati in moti diversi, raccolti attorno al magnifico sarcofago istoriato che funge da tavolo, su cui i soldati giocano a dadi, in un gioco di movimenti contrapposti che tanto ricorda i modi e le citazioni da Caravaggio.
Valentin de Boulogne non si limita però a declinare meccanicamente episodi di vita popolare e scene di taverna: il bassorilievo del sarcofago, ad esempio, rappresenta due formelle antiche in terracotta, raggrumate come se fossero una singola opera d’arte, che il Valentin doveva aver visto a Palazzo Farnese (da cui poi finirono al Museo del Louvre).
L’ANALISI STILISTICA DELL’OPERA
Il quadro è realizzato con una pittura calda, in alcuni tratti pastosa ed in altri talmente sottile da mostrare la trama della tela sottostante, eppure sempre densa di colore e sicura nella forma. Ogni singolo personaggio contiene al suo interno un implicito senso del movimento: le pose sembrano voler mutare da un momento all’altro, le espressioni dei volti sono fuggevoli, esprimono un moto appena accennato, e ciò è dovuto, a vedere da vicino e con attenzione, a quella caratteristica vibratile del pennello che riesce a sfumare le linee, usando le ombre, anche le più minute, nella definizione dei dettagli.
Gli sguardi dei personaggi rappresentati bucano le tele, i gesti attraggono l’attenzione dello spettatore, ed ogni dettaglio è studiato per suggerire un vincolo forte tra i soggetti rappresentati e la realtà viva e circostante in cui l’opera campeggia. La volontà di coinvolgere con ogni mezzo è evidente e si fonde magistralmente con il naturalismo ricercato delle composizioni.
La Sala 5 è dedicata all’arte fiamminga, prendendo in considerazione l’influenza Caravaggesca nei territori d’oltralpe, dove essa andò a confluire all’interno del realismo tipicamente nordico, creando in tal senso variegate combinazioni.
GERRIT VAN HONTHORST
Il pittore olandese, nato a Utrecht nel 1592, visitò Roma all’inizio della sua carriera, e fu proprio nella Città Eterna che entrò in contatto con le opere dei grandi maestri italiani, da cui fu particolarmente influenzato, con un occhio speciale diretto verso lo stile di Caravaggio: è da quest’ultimo che Van Honthorst trasse ispirazione per la caratteristica illuminazione usata in parte dei suoi dipinti.
Ritornato nelle Fiandre, divenne uno dei pittori di spicco del suo periodo, dipingendo sia quadri che ritratti, e si specializzò nella cosiddetta pittura a “lume di notte”, con straordinari effetti di luce artificiale, fatto che gli valse a Roma l’epiteto di Gherardo delle Notti, con committenti come Scipione Borghese, Vincenzo Giustiniani (presso cui alloggiò) e il Granduca di Toscana Cosimo II (cosa che spiega come mai ci siano ben cinque tele di Van Honthorst agli Uffizi).
Anche il Frate intento a leggere di Van Honthorst è stata opera dall’attribuzione assai complicata. Esposto nel 1977 con paternità attribuita al francese Bigot, come frammento di una tela più grande con “figure di eremiti in meditazione”, venne attribuito a Gherardo delle Notti solo dal 1990. Il Bigot aveva infatti l’abitudine di deformare le fisionomie e di giocare in maniera virtuosistica con la luce, mentre il nostro pittore è decisamente meno spregiudicato nell’utilizzo delle fonti luminose rispetto al pittore francese.
Si noti l’intimità dello spazio, rischiarato dalla flebile luce della candela, e la calma severità del monaco rappresentato, che potrebbe essere un Cappuccino, considerato che Van Honthorst lavorò nel 1618 nel Convento dei Cappuccini di Albano.
Il suo accostamento alla rivoluzione caravaggesca fu pressoché immediato e i suoi primi dipinti attestano la forza e la crudezza dell’arte di un giovane pittore nordico folgorato dal naturalismo del Merisi. Van Honthorst diventò in poco tempo un grande protagonista e le sue prove ebbero l’onore di occupare altari importanti delle chiese romane e genovesi, successo non così comune per un maestro di forte impronta naturalistica.
MAESTRO DELL’EMMAUS DI PAU
Seppur non raggiunga la perfezione pittorica del San Girolamo dipinto da Caravaggio, oggi esposto alla Galleria Borghese, il San Girolamo del Maestro dell’Emmaus di Pau non sfigura più di tanto nel confronto.
Il Maestro dell’Emmaus di Pau fu una figura di primo piano nel panorama del primo Caravaggismo a Napoli: una caratteristica fondamentale di questo anonimo maestro, precorrendo Ribera, è l’abilità di compiere una profonda introspezione psicologica dei personaggi raffigurati, indagati spietatamente nella debolezza e nel decadimento della carne, al punto da farne uno dei più abili ritrattisti del primo decennio del XVII secolo.
MATHIAS STOMER
La storia di Matthias Stomer è emblematica nella traiettoria che subisce il Caravaggismo. Quando il pittore giunse a Roma, nel 1630, anche l’ultimo dei grandi seguaci di Caravaggio (Bartolomeo Manfredi) era morto da diversi anni (nel 1622) e il gusto, nella città dei Papi, stava ormai decisamente virando in favore del classicismo e dello stile barocco. Più nessuno, se non qualche inguaribile romantico (come Valentin de Boulogne), si sarebbe sognato di continuare (per adoperare l’espressione di Roberto Longhi) a “ingagliardire gli oscuri”.
Stomer, però, si invaghì dei fuochi caravaggeschi ben prima di giungere in Italia, ossia mentre si trovava ancora in patria, tramite l’esperienza dei pittori olandesi retour de Rome, come Dirk Van Baburen e soprattutto Gerrit Van Honthorst. Stomer, che era nato nelle Fiandre intorno al 1600, aveva quindi scoperto la rivoluzione caravaggesca tra Utrecht e Anversa, una decina di anni prima del suo viaggio italiano.
Dopo aver trascorso dieci anni fra Roma e Napoli, Stomer si trasferì attorno al 1640 in Sicilia, dove dissemiòa una serie di opere importanti tra Palermo e Monreale, ottenendo un’ottima fama.
ANNUNCIO DELLA NASCITA DI SANSONE
Mathias Stomer è presente in mostra con due opere, la seconda delle quali rappresenta il terzo maestoso capolavoro di questa esposizione.
Iniziamo però con l’esame della prima tela, Annuncio della nascita di Sansone, che sembra collocarsi nel periodo giovanile per i riflessi rilucenti di matrice fiamminga. Si tratta di un soggetto talmente tanto raro, essendo un episodio dell’Antico Testamento che non ha mai conosciuto particolare diffusione iconografica, che all’inizio si è pensato che potesse raffigurare “Abramo, Agar e l’Angelo” o “Annuncio della Fuga in Egitto”, senza poter trovare però alcuna corrispondenza iconografica.
Non ha mai suscitato dubbi invece l’attribuzione dell’opera allo Stomer: la sua pittura qui è molto luminosa rispetto ai successivi svolgimenti meridionali di stampo notturno. Durante il suo soggiorno romano, il pittore rielabora il Caravaggismo appreso sugli esempi di Gherardo delle Notti e del Baburen, spogliandolo tuttavia di quei tratti più grotteschi che tanto incuriosivano i pittori nordici. Lo studio degli effetti di lume, la cromia calda, i personaggi un po’ rustici ma esprimenti una devozionalità sincera ed una gestualità pausata, si accordano pienamente con il linguaggio del pittore. Spicca soprattutto l’immagine avvizzita dell’anziano personaggio in primo piano, il cui volto si accende sotto il riverbero della luce e che lascia presagire le successive evoluzioni caravaggesche del soggiorno napoletano.
LA GUARIGIONE DI TOBIT
La Guarigione di Tobit, che risale al periodo siciliano (dal 1640 al 1649), racconta ai nostri occhi una storia completamente diversa, autocelebrandosi come assoluto capolavoro della mostra.
Il libro di Tobia (scritto in Egitto o in Siria verso il 200 a.C.), racconta la storia di due famiglie ebree, tra di loro imparentate, che, nonostante l’esilio e la persecuzione, rimangono fedeli alle tradizioni giudaiche. Nella prima famiglia deportata a Ninive, il vecchio Tobit perde la sua fortuna e diventa cieco perché sui suoi occhi cadono escrementi di uccello. Nell’altra famiglia, l’unica figlia di Rachele, Sara, non si può sposare perché lo spirito cattivo Asmodeo ha ucciso già sette pretendenti che via via si sono presentati. Il giovane Tobia, su invito del padre Tobit, parte per riscuotere un credito e cercarsi una moglie tra la gente della sua tribù. Il suo compagno di viaggio, messaggero di Dio, è Raffaele che, in sembianze umane, lo aiuterà a superare i pericoli del viaggio, a vincere Asmodeo, a sposare Sara e a tornare a Ninive.
La tela mostra, con una resa materica degli oggetti e dei panneggi molto accurata, la guarigione dalla cecità di Tobit per mano del figlio mentre, su consiglio di Raffaele, spalma sugli occhi del padre il fiele tolto dal grosso pesce catturato nel Tigri, il cui cuore era servito per vincere il maleficio di Asmodeo su Sara. Assistono alla scena l’arcangelo Raffaele in una raffigurazione solenne e la madre di Tobia, Anna, in fiduciosa preghiera.
Tobit è seduto, con la testa reclinata all’indietro. Le mani sono quelle di chi ha lavorato duramente per tutta la vita, scure e rugose fino al verismo più diretto. Il volto presenta un’espressione di stupore totale ed è illuminato, come avviene spesso nel caravaggismo, da una luce che travalica i limiti del fisico per divenire piena di significato trascendente. Tobit è vivificato dallo spirito di Dio e la sua espressione tradisce la consapevolezza di essere protagonista di un miracolo.
Il figlio Tobia, che dovrebbe essere il protagonista e che invece passa mirabilmente in secondo piano, sta spalmando sugli occhi del padre il fiele estratto dal fegato del pesce.
La madre e moglie Anna stringe le mani in segno di preghiera. Ha il volto teso, duro, un pò arcigno, rappresentando una donna anch’essa lavoratrice e ben in linea con quanto di lei viene detto nella vicenda narrata. Strizzando i suoi rugosi occhi, pare la più incredula di tutti al miracolo, con un’efficacia quasi “pasoliniana”.
Anche il cane fiuta che sta accadendo qualcosa, tra l’eccitato e lo spaventato, partecipando doppiamente alla vicenda: fedele al suo padrone, si agita ai suoi piedi per capire che cosa stia succedendo, inoltre pare in qualche modo essere cosciente che sia in atto una manifestazione di qualcosa di superiore, come spesso avviene per gli animali nella Bibbia.
Tutto è come sospeso, in attesa che si compia il miracolo. L’arcangelo Raffaele, la figura più luminosa della scena, immobile e sicuro, non ha alcun dubbio che si avveri: nulla turba la sua sicurezza, perché conosce la volontà di Dio: a differenza del testo biblico, Stomer lo caratterizza per le sue ali d’angelo.
L’opera di Stomer è meravigliosa per l’imponenza delle figure, per l’intenso naturalismo insieme nordico e napoletano, per le teste fortemente caratterizzate, per i violenti effetti di luce laterale con ombre nette e taglienti, la capacità di cogliere la tragica sospensione del momento cruciale del racconto attraverso la teatralità dei gesti. È un trionfo di rughe, penombre e cicatrici.
DIRK VAN BABUREN
Il dipinto della “Cattura di Cristo con l’episodio di Malco“, che ha un esemplare simile esposto alla Galleria Borghese, fu acquistato da Roberto Longhi nel 1916, assieme ai cinque apostoli di Jusepe de Ribera.
Secondo il vangelo di Giovanni, Pietro avrebbe sguainato la spada in difesa di Cristo, nel Giardino del Getsemani, staccando così l’orecchio destro a Malco, servo del sommo sacerdote Caifa: la scelta della tematica si spiega col fatto che lo stesso Van Baburen venne incaricato di realizzare le tele per San Pietro in Montorio, dal 1617 al 1619. L’attribuzione nasce proprio infatti dalle similitudini con la Deposizione di San Pietro, nella medesima chiesa e con i medesimi modelli.
Van Baburen è dotato di un Caravaggismo talvolta troppo crudo e spietato, caratterizzato da elementi fisici e quasi chirurgici. Appare però ancora evidente il suo tratto nordico, con una marcata attenzione alla caratterizzazione fisionomica delle figure, che rasentano talvolta la caricatura e che rappresenta una delle cifre stilistiche dell’artista.
MATTIA PRETI
Mattia Preti venne definito da Roberto Longhi “il terzo tra i geni pittorici del Seicento italiano”, dopo Caravaggio e Battistello Caracciolo.
Pur essendo nato nel 1613, appena dopo la morte di Caravaggio, Mattia Preti ha un vero e proprio culto che tiene vivo per tutta la sua attività pittorica, anche nel momento in cui Caravaggio era stato messo da più parti nel dimenticatoio. In entrambe le opere esposte in mostra è quindi evidente il fascino che Caravaggio esercitò su Mattia Preti, tanto che quest’ultimo ne seguì pedissequalmente le orme, recandosi da Roma a Napoli fino a La Valletta, dove avrebbe finito i suoi giorni come Cavaliere dell’Ordine di Malta.
Nel 1699, alla fine di un secolo che ha vissuto quasi per intero, Mattia Preti muore, lasciando dietro di sè un’enorme quantità di opere (oltre 500) e una fama che lo porterà ad essere tra i pittori più apprezzati del Seicento.
IL CONCERTO A TRE FIGURE
Nel suo “Concerto a tre figure”, due fanciulli agghindati in tenuta da cavaliere suonano rispettivamente una tiorba (strumento della famiglia dei liuti, detto anche chitarrone) ed un flauto a becco. Quello a destra legge lo spartito collocato sul piano del tavolo, mentre quello di sinistra si rivolge di tre quarti all’osservatore. Al centro una giovane donna tiene un ventaglio decorato con figure di animali esotici. Si tratta evidentemente di tre rampolli dell’aristocrazia, con piume sui cappelli e maniche gonfie, come attestano non solo l’abbigliamento, ma anche l’uso del ventaglio, oggetto importato in Europa dal Giappone nel XV secolo e segno rappresentativo del blasone fino a tutto il 700.
Preti si accosta alle invenzioni caravaggesche in modo del tutto personale, e specificamente con un diverso “gusto per la materia”. Guardate il colorito delle carni leggermente verdognolo (nato dall’abitudine di Preti di adoperare per il colorito della carne tonalità stese in modo troppo sottile, che si smarrivano nelle ripuliture successive, facendo trasparire gli strati preparatori, che Preti realizzava sempre in colorito verde), osservate la calibrata rifrazione luminosa sulle superfici dei corpi e degli oggetti (il giovane in armatura è una figura ricorrente in questo genere di rappresentazioni, evidentemente per il gioco di riflessi della luce sul metallo), la distribuzione quasi contrapposta delle figure, a cui si tende a dare scarsa interazione psicologica, destinata a forzare lo spettatore a sentirsi in una sorta di realtà spiritica e spirituale, soffermandosi sui dettagli e leggendo il dipinto come se si trattasse di una pagina di testo scritto, e non di pittura.
In virtù di questo suo temperamento, propenso ad accogliere tutte le suggestioni (venete, caravaggesche, francesi) piuttosto che ad aderire con sistematicità ad una sola corrente, Preti divenne, anche in ragione dell’altissima qualità dei suoi dipinti, uno degli artisti manifesto del seicento italiano. Ciò lancia Mattia Preti sulla scena artistica romana, ma al tempo stesos lo invoglia ad avvicinarsi anche ad altre personalità artistiche, soprattutto Lanfranco, Guercino, Domenichino e Pietro da Cortona.
SUSANNA E I VECCHIONI
Sono proprio queste suggestioni che permettono di comprendere al meglio la seconda opera di Mattia Preti esposta in mostra, ossia Susanna e i Vecchioni.
Il dipinto illustra l’episodio narrato nel Libro di Daniele della bella e casta Susanna che venne sorpresa durante il bagno da due anziani giudici in visita alla sua casa. I due infiammati di lussuria insidiarono la giovane donna con proposte oscene, ma al suo rifiuto l’accusarono falsamente e pubblicamente di adulterio. Condannata alla lapidazione, Susanna fu salvata dall’intervento del profeta Daniele che riuscì a smascherare i due calunniatori.
Per il carattere educativo e il lieto fine che la caratterizza, la storia della virtuosa Susanna divenne un tema ricorrente nell’iconografia cristiana e nel Cinquecento e soprattutto nel Seicento, fu pretesto per la rappresentazione del nudo femminile. In realtà il soggetto univa il motivo moraleggiante (la virtù che ha la meglio sugli istinti) al piacere di una rappresentazione sensuale, con la scelta sistematica del bagno alla fonte, diventando così un perfetto quadro per le camere nuziali.
Anche in questa tela c’è l’accentuato erotismo del profilo di Susanna, con seno e fianco carnoso scoperti: per questo motivo, il corpo verrà vestito, alla fine del seicento, da un ignoto collezionista, tanto che Federico Zeri si chiederà come mai una donna nell’atto di farsi un bagno fosse completamente vestita. Il problema fu che, quando si provò a togliere la ridipintura, ci si rese conto che se l’intervento non fosse stato estremamente delicato si sarebbe portato via anche il dipinto di Preti: la pulitura fu lentissima, fatta da Mario Modestini al microscopio con una punta di platino, e durò 14 anni, ma alla fine mostrò il nudo in condizioni perfette.
La critica lo definisce un vero e proprio capolavoro, “tra i più bei nudi femminili in una fase in cui essi erano assai rari”, ma la sua Susanna non possiede la verità umana delle donne di Caravaggio. Non è più Caravaggio il modello di Preti in questa tela, ma bensì il Guercino, con il suo naturalismo, il suo barocco tonante e apocalittico, che svicola da Caravaggio per darsi alla pittura emiliana verso una delle sintesi più geniali del seicento italiano.
GIACINTO BRANDI
La mostra chiude in bellezza con due bellissime tele di Giacinto Brandi, altro pittore di buon successo della Roma barocca. Figlio di un decoratore, si trasferisce adolescente a Roma andando a bottega dallo scultore Alessandro Algardi, prima di essere introdotto alla bottega di Giovanni Lanfranco. Diventa uno dei maggiori pittori a Roma nella seconda metà del ‘600, entrando nel 1651 nell’Accademia di San Luca e decorando, fra gli altri, Palazzo Pamphilj a Piazza Navona e San Carlo al Corso, ispirato anch’egli dal Guercino.
Sebbene Brandi trasmetta per tutta la sua carriera l’immagine di pittore introverso e sensibile al denaro, interessato all’arricchimento personale anche a scapito della qualità del suo lavoro, nell’opera del Santo certosino in lacrime (1665), che Longhi aveva ricevuto in dono e teneva davanti al suo letto come memento mori, tira fuori un piccolo capolavoro. Col teschio in mano, indicato dal dito, il santo dialoga con lo spettatore (e quindi con lo stesso Longhi) mentre copiose lacrime gli scendono sul viso. L’opera guarda al San Francesco di Caravaggio, ma è caratterizzata da una maggiore emozionalità tragica, con lacrime che bucano la tela, che ti sembra di poter toccare e di cui vorresti sentirne la consistenza tra le dita e asciugarle.
Le grandi dimensioni della tela di San Sebastiano curato dagli Angeli chiudono in modo spettacolare l’esposizione, con quella che secondo Roberto Longhi è “una delle opere più perfette del barocco italiano”, la cui tavolozza preziosa si accorda con il dinamismo delle figure quasi scultoree.
L’opera, arrivata a Longhi nel 1927, presenta con una grande enfasi sentimentale la scena del soccorso prestato da un gruppo di angeli a San Sebastiano, che ha appena subito il martirio. L’opera, data circa al 1670, doveva essere una pala d’altare di destinazione sconosciuta e, con la sua tavolozza schiarita e preziosa, è ammiratissima da Longhi, che scrisse: “Bisognerebbe immaginarlo fra le grandi palme delle cornici barocche, in bilanciata asimmetria, per godere del tratto sgorgante e fluente, con fluidi colorati che emergono come ruscelli dall’andamento chiaroscurale, liquidi come i colpi di scalpello del Bernini”.