La scuola nell’Antica Roma

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LA SCUOLA NELL’ANTICA ROMA

Iniziamo questo articolo con una premessa: considerata i mutamenti sociali all’interno di una civiltà come quella Romana, che ha attraversato più di un millennio tra continui scossoni, è impossibile delineare in un semplice articolo come funzionasse la scuola nell’Antica Roma. Potremo fornire una serie di indicazioni di massima, che sarebbero variate a seconda dell’organizzazione sociale, del censo delle famiglie e delle Province di riferimento.

Nel mondo etrusco ed italico, l’istruzione era senza alcun dubbio un privilegio destinato alla classe aristocratica e sacerdotale, avendo la scrittura una sorta di alone di sacralità. In effetti, i materiali ed i supporti erano più o meno gli stessi che sarebbero stati adoperati, secoli dopo, anche dai Romani: si scriveva su tavolette di cera, pelli di animale, papiri e rotoli di tela, e si adoperavano analoghi corredi scrittori, composti da calamaio, stilo e spesso un vasetto con funzione di abecedario.

In realtà come facilmente intuibile recandosi a visitare il Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano (potreste ad esempio visitarlo prenotando il Tour Musei e Gallerie organizzato dall’Associazione Rome Guides), nella sezione più prettamente epigrafica, gran parte della documentazione scritta preromana o connessa alla Roma più arcaica è costituita da materiali piuttosto eterogenei: se la maggior parte di essa sembrano rivestire carattere funerario o di ex voto, esistono comunque dediche di contenuto politico, tavolette alfabetiche, insegne commerciali, piccoli doni con incisioni.

Si aggiunga a ciò che, se i materiali più raffinati e costosi (come ad esempio, i rotoli di papiro, da considerarsi alla stregua dei nostri libri, mentre le tavolette di cera potrebbero essere assimilate ai nostri taccuini) venivano spesso adoperati da scribi professionali, è stata ritrovata un’enorme quantità di documenti scritti comprensivi di una gran quantità di grossolani errori ortografici, dettaglio che ha fatto pensare che essi siano stati creati da persone con estrazione sociale decisamente più modesta: si pensi ai graffiti murali, ritrovati a Roma o a Pompei, alle lettere di innamorati, alle cosiddette defixiones (tavolette con formule magiche e maledizioni).

Se l’articolo del nostro blog vi fosse piaciuto, potreste decidere di partecipare ad una delle visite guidate organizzate dall’Associazione Culturale Rome Guides. Contattateci per creare l’itinerario perfetto per le vostre richieste. 

IL RITROVAMENTO DI VINDOLANDA

Le tavolette di cera, assimilabili come detto ad una sorta di quaderno dell’epoca, meritano una breve trattazione a parte, poiché esse non venivano utilizzate solo in ambito scolastico, ma anche per gli atti pubblici e la corrispondenza privata. Si pensi che, nel 1973 a Vindolanda (nel Regno Unito, agli estremi confini settentrionali dell’impero romano), fu ritrovato un vero e proprio archivio di queste tavolette, legato alla presenza di una folta guarnigione nel II secolo d.C.: tale ritrovamento ha fornito un significativo contributo per comprendere l’evoluzione della scrittura ai tempi dell’antica Roma, poiché in precedenza si riteneva che il grado di alfabetizzazione dei legionari (soprattutto nelle province di confine) fosse piuttosto modesto, mentre tra i reperti ritrovati risultarono sia missive di ufficiali superiori che di umili reclute.

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Anche se il ritrovamento di Vindolanda fece parecchio clamore, il fatto che i legionari stanziati in Britannia sapessero scrivere non significa che tutti i soldati, ed in generale tutti gli abitanti dell’Impero, avessero la stessa padronanza da loro dimostrata.

Nel caso in cui qualcuno fosse in grado di leggere e scrivere, ma non si sentisse sufficientemente competente da poter redigere un atto formale o un documento particolarmente tecnico come terminologia, era sempre possibile rivolgersi ad uno scrivano pubblico, un vero e proprio libero professionista denominato notarius, che di solito offriva i propri servigi nelle pubbliche piazze, assicurando anche un linguaggio forbito, una corretta terminologia ed una apprezzabile calligrafia.

L’EDUCAZIONE IN FAMIGLIA

Sin dalle origini, i Romani riconobbero una grande importanza all’educazione dei giovani, attribuendo alla famiglia un ruolo fondamentale nel processo formativo. L’educazione romana era basata su una serie di precetti morali, civili e religiosi, che in epoca arcaica prendevano in realtà spunto da quella saggezza popolare che è tipica delle società contadine.

Anche se concretamente era la madre a prendersi cura a tempo pieno dei propri figli (coadiuvata da una nutrice se le condizioni familiari lo permettevano), il vero e proprio educatore all’interno della famiglia era il padre: era lui che insegnava al figlio, dall’età di sei o sette anni, i primi rudimento dell’istruzione, ossia la lettura, la scrittura e le elementari operazioni aritmetiche. Quello di impartire le lezioni personalmente ai propri figli non era solo un onere, ma anche un onore, dei quali i Romani andarono sempre molto fieri: anche quando i patrizi iniziarono a rivolgersi, per l’educazione dei propri figli, ai Praeceptores Domestici, spesso provenienti dalla Grecia, essi continuarono comunque a partecipare di persona alle lezioni, spesso “mettendo bocca” sugli insegnamenti impartiti.

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Si pensi, in tal senso, al celebre censore Marco Porcio Catone, che fu sempre un ostinato nemico della civiltà ellenica, in nome di una romanità basata su un regime di vita semplice ed austero, fondato sulle antiche consuetudini. Non potendo tollerare che la sua prole venisse influenzata da precettori greci, scrisse di suo pugno l’opera Libri ad Marcum filium, un vero e proprio manuale dedicato a vari argomenti, dalla medicina all’arte militare, dall’agricoltura all’oratoria. Catone incarnava quell’opposizione antigreca, assai diffusa nel II secolo a.C. come sentimento nazionalista: per sua sfortuna, però, la cultura ellenizzante, data la sua matrice fortemente intellettuale, fu accolta favorevolmente sia dall’aristocrazia più progressista che dalla plebe, prendendo progressivamente piede a Roma.

Gli insegnamenti impartiti dal padre costituivano per i figli una vera e propria filosofia di vita, riassunta nell’espressione latina “praecepta paterna”: si trattava di un vero e proprio bagaglio culturale, etico e morale, che veniva trasmesso alla propria discendenza, che fin da piccola era solita accompagnare il genitore nelle cerimonie ufficiali e nelle manifestazioni pubbliche (come si vede perfettamente nel rilievo processionale dell’Ara Pacis). 

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LA SCUOLA DELL’OBBLIGO NELL’ANTICA ROMA

Perché a Roma, durante la Repubblica, non venne istituita una “scuola dell’obbligo”?

Le motivazioni di questa scelta erano essenzialmente politiche e sociali. La cultura era considerata sotto certi aspetti pericolosa, poiché veicolava il pensiero greco, ritenuto socialmente sovversivo; in tal senso, l’istruzione di massa non era uno dei parametri essenziali per la classe aristocratica al potere.

Un precettore privato era però un lusso che solo le famiglie più benestanti potevano permettersi. Per soddisfare la residua domanda di istruzione, i genitori meno abbienti iniziarono a cercare dei maestri che facessero lezioni di gruppo ai propri figli. Per comprendere chi furono i primi maestri dell’Antica Roma, dobbiamo rifarci a Plutarco, secondo il quale il ad aprire una “scuola elementare” a pagamento, nel III secolo a.C., fu Spurio, libero del console Carvilio, mentre per la “scuola media” il primato spetterebbe al celebre scrittore Livio Andronico. Una curiosità: secondo alcuni esperti, a Spurio spetterebbe l’introduzione nell’alfabeto latino della lettera G (che prima di allora veniva rappresentata con la lettera C).

Una politica a favore dell’istruzione pubblica cominciò ad essere elaborata solo con l’avvento dell’Impero Romano. Iniziarono a sorgere vere e proprie scuole, sovvenzionate da personaggi di alto rango e dalla municipalità, prendendo al contempo provvedimenti che migliorassero le condizioni degli alunni e favorissero il reclutamento di docenti più adeguati al proprio compito. In questi istituti, i professori più famosi erano assai contesi dalle singole autorità locali affinchè prestassero servizio in questa o quella scuola.

LE PUNIZIONI SCOLASTICHE

Alcuni bambini si recavano a scuola da soli, ma le famiglie più benestanti (che pur non potendosi permettere un precettore privato volevano comunque distinguersi), per svolgere una serie di compiti accessori, ricorrevano ai servizi di due personaggi ben specifici: la nutrix e il paedagosus. Quest’ultimo, in particolare, doveva accompagnare il bambino a scuola, assistere alle lezioni, riportarlo a casa ed aiutarlo nello svolgimento dei compiti. Nelle famiglie più abbienti, potevano esserci più pedagoghi per un unico bambino.

Il compito più importante del paedagosus, però, era di vegliare sul ragazzo, per verificare che il maestro non lo punisse troppo severamente. Le punizioni facevano infatti parte del programma educativo, anche considerato che molto spesso i precettori impartivano nozioni di scarso interesse, in ambienti spesso inadatti, senza le dotazioni necessarie e senza godere spesso di alcuna considerazione da parte degli studenti: in tal senso, l’unico modo efficace per attirare l’attenzione degli alunni, costringendoli allo studio, era quello di ricorrere alle punizioni corporali.

Lo strumento più comune a disposizione dei precettori era la ferula, una sorta di canna provvista di nodi di legno. Per infliggere punizioni più gravi si usava la scutica, simile ad una frusta fatta con strisce di cuoio. All’ultimo livello di questa sorta di sadismo mascherato, c’era la virga, un vero e proprio scudiscio formato da un fascio di striscioline di cuoio.

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Lo scolaro da punire veniva prima di tutto denudato, in modo da aggiungere l’umiliazione al dolore; a quel punto veniva poggiato sulle spalle di un compagno. Mentre un altro ne teneva ferme le gambe, e a quel punto veniva frustato. Questi castighi rimasero impressi nella mente di parecchi scrittori antichi, sia pagani che cristiani: il poeta Orazio ritrasse il suo maestro Orbilio Pupillo come un precettore isterico che tirava schiaffoni per un nonnulla, mentre persino Sant’Agostino scrisse di essere stato umiliato e percosso per la sua incapacità di imparare il greco.

GLI INSEGNANTI

Essere un insegnante, nell’Antica Roma, non equivaleva certo a poter vantare un rango di grande prestigio.

I primi precettori furono poeti ed eruditi provenienti dalla Magna Grecia, spesso giunti a Roma come prigionieri di guerra: si pensi, in tal senso, al già citato Livio Andronico o a Ennio. A dir la verità, per un intellettuale che obiettivamente aveva ben pochi modi alternativi per campare, l’insegnamento si rivelò spesso un sistema dignitoso per sopravvivere, tanto che anche in seguito molti dei più celebri scrittori antichi guadagnarono fama e denaro riciclandosi come insegnanti privati, come ad esempio Polibio, Verrio Flacco, Quintiliano ed il famoso Seneca.

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Obiettivamente, quella di maestro non era certo una professione ambita: in epoca repubblicana, la maggior parte dei precettori erano schiavi, liberti o uomini liberi che non avevano trovato altro modo per sbarcare il lunario. La professione poi era tutt’altro che redditizia: Giovenale racconta che lo stipendio annuale di un maestro era equivalente alla somma di denaro vinta in un sol giorno da un auriga che vincesse una corsa al circo. Esistevano ovviamente le eccezioni a tale regola: Verrio Flacco, che fu precettore dei nipoti di Augusto Caio e Lucio Cesare, e Quintiliano, che ricoprì lo stesso ruolo per i nipoti dell’Imperatore Domiziano, erano retribuiti con l’assai cospicuo compenso di 100.000 sesterzi all’anno (quando un “normale” maestro ne riceveva fra i 400 e i 600).

Tra l’altro, la retribuzione non era obbligatoria, ben potendo consistere in semplici sporte alimentari: solo dopo l’emanazione dell’editto De pretiis nel 301 d.C. da parte dell’Imperatore Diocleziano, essa divenne obbligatoria, consistendo in 50 denari al mese per ciascun alunno. La cifra era comunque assai bassa: occorreva infatti avere una classe di almeno trenta alunni per poter accumulare una somma pari allo stipendio di normale artigiano.

L’editto di Diocleziano è il primo in cui vengono elencate, anche terminologicamente, le differenti professioni di maestro: ci sono infatti il magister institutor litterarum (un vero e proprio maestro elementare generico), il calculator (maestro di aritmetica), il notarius (maestro di stenografia), il librarius (maestro di calligrafia), il grammaticus (maestro di lingua e grammatica greca), l’orator (maestro di retorica), l’architectus magister (maestro di architettura) il ceromatita (maestro di educazione fisica), oltre al generale ed indistinto precettore, definito ancora paedagosus.

LA METODOLOGIA DI INSEGNAMENTO

Ai tempi dell’antica Roma, la scuola era basata sull’apprendimento mnemonico: non si mirava ad approfondire i contenuti, ma si preferiva costringere gli alunni all’immagazzinamento di nozioni. Cicerone, per esempio, considerava la memoria come il fondamento di ogni tipo di conoscenza. L’obiettiva difficoltà di avere sempre a portata di mano sia i testi che il materiale per scrivere faceva sì che quanti più dettagli e nozioni un individuo riusciva a ricordare, tanto più sarebbe stato avvantaggiato nel suo successo personale.

La difficoltà principale, per i maestri, era che il programma scolastico non variava a seconda dell’età degli alunni. Nella stragrande maggioranza dei casi, il maestro doveva occuparsi nello stesso momento di bambini molto piccoli e di giovani adolescenti, di assoluti principianti e di studenti già esperti, di alunni con capacità assai basilari ed altri con doti più spiccate. Per questo motivo, era spesso costretto a suddividere i suoi studenti in gruppi (classes) ai quali faceva lezioni differenziate.

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La prima cosa che veniva insegnata era la scrittura: il maestro tracciava le lettere sulle tavolette di legno ricoperte di cera e, con l’aiuto di una serie di linee guida, le faceva copiare ai propri studenti, fino a quando essi non fossero stati in grado di procedere autonomamente.

A quel punto, si andava avanti con la lettura, che inizialmente presentava per gli alunni notevoli difficoltà, poiché la scrittura dell’antica Roma era continua, senza spaziature e senza i segni di interpunzione. Era necessario procedere per gradi, dapprima con la scrittura in stampatello, poi con quella in corsivo, fino al punto in cui lo studente diveniva abbastanza abile da riconoscere la fine di una parola e l’inizio della successiva. Al fine di favorire una lettura così complessa, ogni lezione era preceduta da una praelectio, ossia una chiacchierata preliminare alla lettura che permettesse allo studente di conoscere, a grandi linee, l’oggetto del testo da leggere. Di solito, in particolare per gli alunni più giovani ed inesperti, si sceglievano testi composti da frasi molto brevi e semplici da identificare, come ad esempio le favole di Esopo (che ben ricorderanno gli studenti moderni del primo anno del Ginnasio, alle prese con la temibile lingua greca).

DOVE SI TENEVANO LE LEZIONI?

Nell’antica Roma non c’erano scuole nel vero senso della parola, ossia edifici appositamente costruiti per l’insegnamento. Le lezioni si svolgevano di solito all’aperto, spesso sotto i portici dei Fori. In caso di maltempo, era possibile rifugiarsi nel retrobottega di un negozio (taberna) oppure in un soppalco o una veranda (pergula): a Pompei, ad esempio, è stata individuata la scuola del maestro Potito, con una piccola aula provvisoria che poteva ospitare una dozzina di alunni.

Durante le lezioni, gli alunni si sedevano attorno al maestro su piccole panche di legno, senza avere alcun posto predeterminato, tenendo le tavolette cerate sulle ginocchia. Il maestro stava invece seduta su una sedia munita di spalliera e braccioli (cathedra), collocata su una pedana rialzata (pulpitum), mentre poggiava lateralmente i rotoli di papiro con i testi da leggere in classe.

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Sulle tavolette cerate, gli studenti scrivevano con la punta di uno stilus, che poteva essere fatto di osso, metallo (bronzo o ferro) o avorio, con l’altra estremità fatta a forma di spatola per cancellare gli eventuali errori. Sui papiri o sulle pergamene, invece, si scriveva con una sorta di cannuccia chiamata calamus, che veniva intinta in un calamaio fatto di terracotta o metallo.

L’ARTE ORATORIA

Nell’Antica Roma, la maturazione culturale veniva raggiunta solo dopo aver compiuto un ciclo completo di studi ad indirizzo esclusivamente umanistico. Gli studi scientifici, infatti, riguardavano solo una ristretta cerchia di “specialisti”, come i medici e gli architetti, che per quanto apprezzati non venivano considerati come appartenenti alla ristretta cerchia degli intellettuali.

Questo insegnamento era affidato ad un docente specializzato, chiamato rethor oppure orator, che nella gerarchia professionale occupava un posto ben più elevato rispetto ai comuni maestri delle scuole primarie e secondarie. L’arte dell’oratoria, infatti, era una qualità indispensabile nella vita sociale e politica dell’uomo romano, tanto che portò ben presto alla moda della recitatio, ossia della lettura pubblica: l’oratore Asinio Pollione fu il primo a tenere conferenze dinanzi ad una platea di invitati, dando così inizio ad una moda che si diffuse ancor di più durante l’Impero, rendendo l’organizzazione di conferenze un requisito determinate per la popolarità di un autore.

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Le regole stilistico di un perfetto oratore sono state elencate e citate da grandi protagonisti del settore, come Cicerone e Quintiliano, che erano assai prodighi di consigli su come dimostrare un’argomentazione e sulle modalità di costruzione di un discorso solenne. Per raggiungere il massimo livello, era necessario essere dotati di ottima memoria, di buona inventiva (vis oratoria) e di perfetta capacità di esposizione dell’argomento con uno stile elegante e forbito (elocutio).

LE DONNE DI CULTURA

Come dimostrato da svariati rilievi funerari, raffiguranti donne adulte assorte nella lettura e bambine sui banchi di scuola, è possibile affermare che le fanciulle non venisse escluse sempre e comunque dal mondo dell’istruzione, anche se ovviamente la società tendeva a riservare loro un ruolo secondario.

La scuola elementare, ad esempio, era mista e le bambine potevano frequentarla fino al compimento degli undici o dodici anni. A quell’età, in realtà, mentre i maschi tendevano a proseguire gli studi, le ragazze venivano avviate a matrimoni precoci, anche senza tenere in considerazione la loro volontà.

Ciò nonostante, alcune donne risentirono dell’atmosfera intellettuale della famiglia in cui si trovavano: si pensi a Cornelia, la madre dei Gracchi, che aveva ereditato dal padre Scipione l’Africano un grande amore per la letteratura, oppure a Ortensia, che aveva straordinarie capacità di eloquenza.

In qualche caso, poi, era lo stesso marito che provvedeva a perfezionare la cultura della propria sposa, non considerando la cultura in nessun modo in contrasto con la femminilità e devozione della propria moglie: Cornelia ad esempio, quinta moglie di Pompeo, era versata nella letteratura, nella musica e nella filosofia, partecipando persino ad alcune dispute dialettiche.

In ogni caso, le donne di cultura elevata dovevano essere molto ambite, considerato che i poeti le definivano doctae puellae.

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Un pensiero su “La scuola nell’Antica Roma

  1. Isabella Russo dice:

    Ritengo che la spiegazione sia lineare e di semplice apprendimento. Anche le immagini sono istruttive e molto interessanti.

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