Il gioco nella Antica Roma

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IL GIOCO NELLA ANTICA ROMA

Esaminare il gioco nella Antica Roma richiede di partire dagli albori della società romana. Fin dall’epoca più arcaica, il gioco ed in generale l’attività ludica si rivelarono come momenti essenziali per l’aggregazione sociale, svolgendo una funzione essenziale all’interno della comunità, privata e pubblica che fosse.

Da un lato gli Etruschi e dall’altro i Greci concessero al gioco un’elevata considerazione sociale, valutandolo letteralmente essenziale all’interno di una corretta organizzazione della comunità. Per quanto concerne i Romani, basti pensare al celebre brocardo “panem et circenses”, che in appena tre parole esalta l’importanza del divertimento e del tempo libero per ogni singolo strato della popolazione. Ovviamente, nel pieno rispetto delle tradizioni ed abitudini romane, fu necessario definire i regolamenti dei giochi a livello tecnico, regolamentarne la disciplina, elaborare una normativa che permettesse di valorizzarne l’importanza, come testimoniato da numerose evidenze storiche e archeologiche.

Ancor oggi, il concetto stesso di gioco deriva dal latino: la parola “gioco” nasce infatti da due diverse espressioni latine, di significato simile ma non identico. Da un lato c’è la parola “iocus” (che potremmo tradurre come burla o scherzo) e dall’altro c’è la parola “ludus” (traducibile da un lato come svago o passatempo, ma dall’altro anche scuola).Già solo questo dovrebbe fare capire quanto il gioco nella antica Roma fosse un’attività multiforme e densa di sfaccettature.

In questo articolo del Blog di Rome Guides, distingueremo i giochi infantili da quelli degli adulti, senza peraltro soffermarci sui giochi ginnici e sportivi, come quelli che prevedevano l’uso della palla: quello che ci interesserà sarà esaminare i più comuni e diffusi giochi d’azzardo e da tavolo, i primi contrassegnati dal fattore fortuna ed i secondi da una maggiore competenza tattica.

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I GIOCHI INFANTILI – LE BAMBOLE

Considerando quanto fosse diffusa nell’antica Roma la mortalità infantile, con quasi la metà dei fanciulli che non superava l’età di dieci anni, le decorazioni pittoriche e scultoree delle tombe e i corredi funerari recuperati al loro interno ci raccontano con grande dovizia di particolari quali fossero i giochi maggiormente praticati dai bambini.

Nella stragrande maggioranza dei casi, i giocattoli erano assai economici, costruiti con materiali poveri e spesso a imitazione delle azioni e dei comportamenti degli adulti. Ci sono però almeno due musei di Roma, ossia Centrale Montemartini ed il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, che presentano due clamorose eccezioni: esaminando infatti il corredo funerario della Mummia di Grottarossa e di Crepereia Tryphaena, possiamo ammirare nelle vetrinette due veri e propri gioielli ludici, ossia due mirabili bambole snodabili. In particolare quella conservata presso la Centrale Montemartini, ritrovata con grande stupore durante la costruzione del famigerato “Palazzaccio”, apparve fin da subito non come un comune giocattolo ma come una vera e propria opera d’arte, interamente in avorio, con il viso scolpito in modo delicatissimo e le snodate giunture per braccia e gambe.

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I GIOCHI INFANTILI – LE NOCI

Per le famiglie che facessero del risparmio una ragione di vita, il gioco più economico da regalare ai propri figli erano delle comunissime noci. I bambini erano soliti utilizzarle come vere e proprie biglie, con cui dilettarsi all’aperto o al chiuso, e ci giocavano così spesso nella prima infanzia che ben presto spuntò fuori, nella lingua latina, l’espressione “relinquere nuces”, ossia abbandonare il gioco delle noci, che stava ad indicare il passaggio dalla fase dell’infanzia a quella della pubertà. Oltre che economici giocattoli, le noci venivano spesso regalate ai propri figli come veri e propri portafortuna: i Romani erano soliti tirarle contro i novelli sposi al momento della cerimonia, poiché esse simboleggiavano la fortuna e ricchezza che sarebbe dovuta ricadere sulla coppia.

È grazie allo scrittore Ovidio che conosciamo almeno sette tipi di giochi aventi le noci come materiale ludico. Nel più famoso di essi, chiamato Nuces Castellatae, era necessario comporre sul terreno un triangolo con tre noci, per poi farne cadere delicatamente e con estrema precisione una quarta, che doveva riuscire a restare in equilibrio sulle tre poste sul terreno, formando così una piccola piramide a forma di castello. A questo punto, l’avversario doveva mettersi a pochi passi di distanza e scagliare la propria noce contro il castello appena costruito: nel caso in cui il colpo fosse andato a segno, egli avrebbe conquistato tutte e quattro le noci, mentre in caso contrario avrebbe perso il proprio “proiettile”.

Le noci potevano essere adoperate anche in un secondo modo, facendole cioè rotolare su un’asse di legno inclinata: ogni giocatore lasciava scivolare la propria noce sulla tavola, puntando a colpire una delle noci dell’avversario. Nel caso in cui ci fosse stato il tocco (un po’ come nel gioco delle bocce), il giocatore poteva afferrarle entrambe; in caso contrario, avrebbe dovuta lasciare a terra anche la propria noce, concedendo il turno al proprio avversario.

Un terzo gioco avente le noci come materiale era il cosiddetto Gioco dell’Orca: si lanciava una noce da una certa distanza, cercando di farla ricadere attraverso il collo di un’anfora. Si trattava, per così dire, di una sorta di pallacanestro semplificata.

I GIOCHI INFANTILI – GLI ASTRAGALI

Se le noci rappresentavano giocattoli estremamente a buon mercato, non molto più costosi erano gli astragali, piccole ossa appartenenti al tarso di pecore e agnelli. Seppur in un certo senso assimilabili ai dadi, questi ultimi rappresentavano un intrattenimento ludico per adulti, mentre gli astragali sono spesso stati ritrovati all’interno dei corredi delle sepolture infantili e talvolta sono stati persino raffigurati sulle stele funerarie appartenenti a bambini e fanciulli.

Inizialmente, gli astragali venivano adoperati come oggetti legati alle arcane divinazioni. Ai tempi dell’Antica Grecia, essi era intrisi di un profondo significato sacrale: Omero racconta che, secondo lui, Achille uccise il figlio di Anfidamante per una violenta discussione connessa all’uso degli astragali, e secondo Plutarco un giovane di nome Alcibiade, che da adulto diventerà un poderoso generale, si sdraiò in mezzo alla strada per salvare i suoi astragali, sparpagliati sul selciato, dalle ruote lignee di un carro che li stavano per calpestare e frantumare. Successivamente, quando gli astragali persero in parte il proprio carattere religioso e divinatorio, divennero oggetti legati all’attività ludica e, in particolari situazioni, anche al gioco d’azzardo.

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Gli astragali erano ossicini di forma stretta e lunga, aventi quattro facce invece di sei come un comune dado: la facciata liscia (“planum”) valeva 1 punto ed era contrapposta a quella ruvida (“tortuosum”) che valeva 6 punti, mentre la facciata concava (“pronum”) valeva 4 punti ed era opposta a quella convessa (“supinum”) che ne valeva 3. Come potete facilmente intuire, le facciate degli astragali erano disposte in modo tale che le due facce contrapposte dessero sempre come risultato 7.

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Nella maggior parte dei casi, però, i punti non andavano sommati o sottratti, ma combinati fra loro per ottenere una specifica sequenza: se si fosse stati molto fortunati, infatti, si sarebbe ottenuto il “colpo di Afrodite”, costituito da quattro facce diverse, mentre se la sfortuna avesse deciso di lasciare il segno gli astragali avrebbero mostrato il funesto “colpo del Cane”, ossia la combinazione peggiore in assoluto, contrassegnata da quattro facciate lisce.

Gli astragali si prestavano bene ad una grande varietà di giochi. Si potevano utilizzare per il corrispettivo del nostro Pari e Dispari, in cui un giocatore estraeva da un sacchetto un determinato numero di ossicini e l’avversario doveva indovinare se il numero estratto fosse pari o dispari. Gli astragali potevano essere adoperati per il Gioco del Cerchio, in cui i giocatori tiravano i propri ossicini all’interno di un cerchio disegnato sul terreno, cercando di colpire quelli degli avversari facendoli saltare fuori dal perimetro di gioco. Infine, c’era il Gioco del Cinque, che si vede anche in un famoso affresco ritrovato a Pompei, consistente nello scagliare in aria cinque astragali per poi cercare di riafferrarli solo col dorso della propria mano, cercando di non farli cadere a terra.

IL CONCETTO DI AZZARDO

Il termine azzardo deriverebbe dalla locuzione araba az-zahr, traducibile con la parola “dado”: se ci pensate, in effetti, i più antichi giochi d’azzardo si basavano propri sui dadi, da lanciare per prevedere quale combinazione di numeri sarebbe uscita.

Lo scopo stesso del concetto di azzardo era quello di scommettere denaro o beni sull’esito di un evento futuro, più o meno probabile: si trattava di una sorta di sfida fra l’intelletto umano e la sua capacità di prevedere il futuro ed il caos e la casualità del fato. Il concetto stesso di azzardo, quindi, comportava che un giocatore non avesse alcuna certezza probabilistica sulla propria vincita: molti personaggi celebri andarono completamente in rovina proprio a causa del gioco d’azzardo, come il grande filosofo greco Socrate, che secondo le cronache finì letteralmente sul lastrico.

Considerata la potenziale pericolosità sociale del fenomeno, nell’Antica Roma fin dagli albori della Repubblica si cercò di regolarizzare il gioco d’azzardo, emanando ad esempio la Lex Alearia, che puniva chiunque giocasse ai dadi o alla morra con un’ammenda pari al quadruplo della posta in gioco: la legge affermava anche che i debiti di gioco non erano effettivamente esigibili, e che pertanto il creditore non avrebbe potuto perseguire giuridicamente il creditore per ottenere la somma a lui spettante.

La Lex Alearia, però, non riuscì in alcun modo a porre un freno alla spaventosa diffusione del gioco d’’azzardo, all’interno di tutte le classi sociali di Roma: a voler dare credito alle illazioni dei suoi detrattori (e non solo…), persino l’Imperatore Augusto soffriva di una vera e propria forma di ludopatia, con una sfrenata passione per il gioco dei dadi, che gli fece perdere ingenti somme di denaro e persino due navi durante il suo glorioso impero.

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Eppure, contrariamente a quanto appena affermato, esisteva nel calendario romano uno specifico momento dell’anno in cui il gioco d’azzardo diventava non solo ammesso lecito, ma persino incentivato: si tratta della settimana fra il 17 e il 23 Dicembre, in cui si festeggiavano le celebrazioni dei Saturnalia, considerate ancora oggi una via di mezzo fra le nostre festività di Natale e Carnevale (pensate che gli antichi Romani, durante questa festività, si scambiavano piccoli doni simbolici, detti strenne, termine adoperato ancor oggi proprio con riferimento al Natale). La festa dei Saturnalia rappresentava una sorta di rito di passaggio fra il vecchio ed il nuovo anno, e veniva celebrata con festosi banchetti contraddistinti da un clamoroso ribaltamento dei ruoli: per una settimana, gli schiavi acquisivano per appena sette giorni potere e libertà, mentre in tutta Roma si organizzavano spettacoli teatrali e musicali, e dovunque si poteva giocare d’azzardo in forma lecita e senza pericolo.

LE VARIE TIPOLOGIE DI GIOCO D’AZZARDO

Tra tutti i vari giochi d’azzardo praticati a Roma, uno dei più diffusi si chiamava Navia et Capita, ed era il corrispettivo del nostro Testa o Croce. Per giocare, bastava una semplice moneta: la denominazione nasceva dalla decorazione di una moneta di epoca repubblicana, che aveva su una faccia il profilo della testa della Dea Roma (o forse di Giano) e dall’altro la raffigurazione della prua di una nave armata di rostro.

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Nel caso in cui i giocatori non avessero in tasca nemmeno una moneta, ma avessero una mano dotata di tutte e cinque le dita, avrebbero potuto sfidarsi ad una gara di Micatio, l’antenato della odierna morra. Anche questo gioco era assai comune nell’Antica Roma, e consisteva nel gridare ad alta voce un numero variabile fra due e dieci, cercando di indovinare la somma dei numeri che venivano mostrati con le dita dai due giocatori, che tendevano simultaneamente il braccio mostrando un numero di dita a scelta (valore fra 1 e 5). Chi indovinava la somma totale conquistava il punto, mentre nel caso in cui entrambi avessero indovinato, nessuno avrebbe totalizzato punti e sarebbe stato necessario proseguire il gioco.  

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Il gioco d’azzardo in assoluto più diffuso nell’Antica Roma prevedeva però l’uso dei dadi. Plinio racconta che essi sarebbero stati inventati addirittura dal dio egizio Thoth, al contrario di Erodoto che li considerava Poco una creazione del mitologico popolo dei Lidi: indipendentemente da chi avesse avuto l’idea, l’unica cosa certa è che i dadi si diffusero con una velocità incredibile, rappresentando da un lato il passatempo ludico preferito dai Romani e dall’altro una forma un po’ dozzinale di strumento divinatorio, grazie alla lettura dei lanci effettuati tramite una speciale tecnica chiamata “cleromanzia”.

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I dadi, che come quelli odierni avevano sei facce i cui numeri contrapposti dovevano sempre dare una somma pari a sette, potevano essere fatti d’osso, di legno, di terracotta, di piombo, di bronzo, di quarzo e persino di argento o oro.

Il gioco dei dadi era denominato alea (pensate alla frase “alea iacta est, passata alla storia poiché connessa alla memoria di Giulio Cesare) e veniva praticato letteralmente dappertutto, nelle locande più infide e nelle terme più lussuose, in mezzo al fango per la strada e nelle maestose sale dei palazzi imperiali, e persino in camera da letto come dilettevole preludio erotico all’atto sessuale vero e proprio.

Le regole del gioco erano davvero semplicissime: bastava lanciare tre dadi e sommare i risultati ottenuti. Come per gli astragali, anche in questo caso erano previste combinazioni particolarmente faste o nefaste, tra cui i già citati “colpo di Afrodite” o “colpo del Cane”, rispettivamente consistenti in un triplo sei o un triplo uno. Il gioco d’azzardo è sempre stato connesso al tentativo di ottenere un ingiusto vantaggio, e bari e manipolatori erano all’ordine del giorno: l’Imperatore Caligola adoperava spesso dei dadi truccati con dei contrappesi all’interno per vincere le sue partite. Il suo successore, lo zio Claudio, fu di certo più onesto di lui ma non meno appassionato: pensate che fece costruire sul proprio carro da viaggio una tavola di legno con i bordi rialzati, per poter giocare durante i viaggi evitando che i dadi rotolassero fuori dal carro stesso.

Non serviva però inserire per forza dei pesi nei dadi per ottenere il risultato voluto: molti giocatori erano infatti diventati così scaltri da aver perfezionato al massimo la propria tecnica di lancio, risultando in grado di far cadere i dadi sulla facciata voluta. Per aggirare questo astuto stratagemma, i Romani inventarono una sorta di piccola torretta, spesso decorata con lettere utilizzate per addizionali giochi di parole, che obbligavano i dadi gettati al suo interno a seguire un percorso casuale prima di fuoriuscire sulla plancia di gioco, rendendo pressoché impossibile effettuare un lancio “programmato”.

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LE TABULAE LUSORIAE

Sui pavimenti ed i gradini di svariati monumenti dell’Antica Roma, come ad esempio sui gradoni di accesso della Basilica Iulia nel Foro Romano, è ancor oggi possibile scovare dei veri e propri tabelloni appartenenti ad antichi giochi da tavolo, che erano passatempo assai diffuso sia fra i fanciulli che fra gli adulti.

Il nome latino di queste plance da gioco è Tabulae Lusoriae: questi tabelloni, solitamente realizzati il legno e spesso richiudibili su se stessi, potevano essere lavorati in modo assai semplice oppure riccamente decorati, con pregiati intarsi in avorio e pietre preziose. Alcune Tabulae Lusoriae avevano la forma di una vera e propria scacchiera, come ad esempio quella portata in trionfo da Pompeo Magno, che era lunga più di un metro ed interamente realizzata mediante l’intarsia di due diverse pietre preziose, una chiara e una scura.

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Si conoscono almeno otto giochi da tavolo diffusi all’epoca dell’Antica Roma. Il più diffuso di essi si chiamava Ludus latrunculorum e può essere considerato un antenato indiretto della dama e degli scacchi. Per comprendere le regole, è necessario rifarsi ad una serie di passi scritti da Marziale e Ovidio: sulla base di queste indicazioni, è possibile affermare che si giocasse su una scacchiera divisa da linee orizzontali e verticali, su cui i giocatori collocavano sedici pedine di diverso colore, dette milites. Queste pedine potevano muoversi di un qualsiasi numero di caselle in orizzontale e in verticale, esattamente come accade con la torre nel gioco degli scacchi. Una pedina risultava catturata quando veniva circondata da due pedine nemiche, in orizzontale o in verticale. Come facilmente desumibile, i l giocatore che riusciva a mangiare più pezzi dell’avversario vinceva la partita.

Meno strategico e più aleatorio era il Ludus duodecim scriptorum, che si giocava su una tabula più grande, con dodici pedine per giocatore. Le pedine però non potevano essere mosse liberamente, ma per farlo occorreva lanciare i dadi: se la propria pedina capitava su una casella occupata da una pedina avversaria, quest’ultima sarebbe dovuta tornare al punto di partenza, con una regola assai simile a quella di n gioco moderno intitolato “Non ti arrabbiare!”.

LE CARTE DA GIOCO

Sembrerebbe inverosimile parlare di carte da gioco nell’ambito di un articolo sull’Antica Roma. Secondo la versione più tradizionale, infatti, le carte da gioco sarebbero originarie della Cina, diffondendosi in Europa soltanto parecchi secoli dopo la caduta dell’Impero Romano.

Eppure, qualcuno non la pensa così: esiste infatti una teoria (a dir la verità, considerata un po’ bislacca e a dir poco fantasiosa) che affermerebbe che i semi delle carte da gioco italiane deriverebbero in realtà da dei piccoli lingotti diffusi nell’Antica Roma chiamati aes signatum, realizzati in rame o bronzo, di forma rettangolare e del peso di circa di un chilogrammo.

Il gioco nella Antica Roma, Il gioco nella Antica Roma, Rome GuidesI seguaci di questa tesi la motivano chiarendo come su tali lingotti fossero incise varie figure, fra cui un sole, una spada, un bastone ed una coppa, ossia i segni delle odierne carte da gioco. Tra l’altro, sempre sulla base di questa teoria, la parola Assi, ossia quattro delle carte da gioco del mazzo, deriverebbe proprio dal toponimo latino aes, o forse dalla parola asse, moneta di modesto valore utilizzata ai tempi dell’Antica Roma.

Il problema, per i fautori di questa teoria, è che è assai difficile da verificare, poiché questi lingotti sono pressochè introvabili: al mondo ne esistono infatti pochissimi esemplari, uno dei quali (raffigurante un tridente decorato da nastri e festoni) si trova oggi conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.

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