GLI ESERCITI NEMICI DELL’IMPERO ROMANO (4/8)
Come già anticipato nei tre precedenti articoli, questa serie di otto articoli del Blog ha lo scopo di dettagliare, in modo completo seppur non esaustivo, le principali informazioni inerenti struttura, composizione, amministrazione, gestione, punti di forza e di debolezza dell’esercito nell’Impero Romano, che in questo specifico articolo si concentra sulla composizione dei più temibili eserciti nemici dell’Impero Romano, specificamente i Parti.
Si tratterà di una schematizzazione relativamente semplificata (esistono intere enciclopedie focalizzate sulla materia), che però confidiamo possa essere utile per comprendere le caratteristiche salienti dell’esercito romano, sia dal punto di vista prettamente organizzativo che militare. Al termine di questo lavoro verrà inserito un glossario che consentirà di richiamare alla mente alcuni dei termini adoperati nel corso degli articoli, che diventeranno progressivamente sempre più familiari.
GLI ESERCITI NEMICI DELL’IMPERO ROMANO
Durante i primi secoli dell’Impero, Roma non ebbe praticamente alcun nemico in grado di impensierirla: tale affermazione è valida anche per i Parti, che pure nella già citata battaglia di Carrhae del 53 a.C. avevano mostrato un’apparente e indiscutibile superiorità tattica.
Sul campo di battaglia, infatti, le truppe di Crasso erano state dapprima logorate e poi annientate senza riuscire praticamente a venire mai in contatto con il nemico, senza cioè ottenere quel combattimento ravvicinato in corpo a corpo che avrebbe esaltato l’eccellenza militare delle legioni romane.
I Parti erano riusciti ad ottnere questo risultato clamoroso tramite l’intersercazione di quattro fattori:
1 – La velocità degli arcieri a cavallo
2 – La potenza di tiro e la gittata degli archi partici
3 – La forza d’urto dei cavalieri corazzati
4 – La superiore mobilità dello schieramento Partico
Espressione di uno Stato per così dire “feudale”, l’esercito Partico si componeva quasi esclusivamente di cavalieri pesanti, suddivisi in lancieri catafratti (con ranghi composti in particolare da memebri della nobiltà) e Ippotoxotai, ossia arcieri a cavallo, che erano di solito nobili di rango inferiore o famigli che adoperavano per la guerra ciò che spesso usavano nella vita di tutti i giorni, ossia il cavallo e l’arco.
In questo quadro, la fanteria Partica contava poco o nulla. Essa, composta da montanari e contadini male armati e peggio addestrati, era raramente impiegata, disprezzata dai suoi stessi signori, che ben ne conoscevano la scarsissima resistenza e utilità. Si pensi che, nell’ultima battaglia della loro storia (a Nihawand contro gli Arabi, nel 642 d.C.), i successori Sasanidi dei Parti furono costretti a incatenare i fanti l’uno all’altro, per impedire che durante lo scontro scappassero a gambe levate.
Anche la conoscenza dell’esercito dei Parti deve molto alla documentazione archeologica: le spade e gli elmi conservati al British Museum, gli impressionanti graffiti murali di Dura, le stele del Louvre, i grandi rilievi rupestri di Firusabad e i lussuosi piatti d’argento sbalzati che raffigurano i re Persiani mentre cacciano cervi e leoni rappresentano elementi essenziali per la corretta ricostruzione del costume militare dei Parti.
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I CAVALLI ARMATI
Il corpo di cavalleria dell’esercito dei Parti, sia i catafratti che gli arcieri, era originario dell’Asia Centrale. Per quanto riguarda i primi, la descrizione più completa in assoluto ci viene fornita dalle Etiopiche di Eliodoro.
Secondo il grande storico e romanziere greco, il cavaliere aveva il viso coperto da un elmo a maschera e indossava una corazza formata da bandelle rettangolari in bronzo o in ferro alte una spanna, tenute assieme da un complesso sistema di lacci. Simili ad una veste di squame metalliche, esse fasciavano il corpo dei cavalieri senza impedirne i movimenti: l’armatura era provvista di maniche e copriva ogni cavaliere dal collo al ginocchio, fasciando separatamente ciascuna gamba per permettere al cavaliere di allargare le gambe per stare in sella. Ovviamente, come avverrà anche con i cavalieri feudali durante il Medioevo, il cavaliere era incapace di montare autonomamente sul proprio destriero, e doveva quindi essere issato al di sopra di esso.
La cosa ancor più incredibile, all’epoca, era che un’armatura analoga copriva completamente anche il cavallo sulla fronte e sui fianchi, lasciandone libero solo il ventre per non disturbarlo in caso di andatura al galoppo. Eliodoro affermò che “quando muove contro il nemico, par di vedere una statua equestre lavorata a martello che si sia messa in movimento, in uno spettacolo impressionante“.
L’armamento offensivo è costituto da una lunga lancia, detta kontos, e da una sciabola, o in alternativa una mazza.
Le differenze nel tipo di protezione (a lamine, a scaglie o in maglia metallica) e nel tipo di materiale prescelto (ferro, bronzo, pelle) hanno fatto pensare alla compresenza di diversi corpi corazzati, ma in realtà esse rispecchiano semplicemente le possibilità economiche e persino i gusti dei singoli committenti.
Quanto appena descritto si può ammirare in modo chiarissimo sul cosiddetto Graffito di Dura Europos, dove si intravedono cavalieri corazzati con indosso un’armatura di scaglie metalliche, rinforzata da lamine verticali in corrispondenza dell’addome, mentre le braccia sono coperte da anelli metallici (molto simili ad alcune corazze del XIV secolo).
Gli arcieri a cavallo erano invece armati con l’arco composito, così denominato quando nella costituzione del fusto si usano materiali diversi. Quello nato nelle steppe dell’Asia Centrale era un arco formato da un nucleo interno in legno, rivestito per quasi tutta la sua lunghezza con materie animali, dotate di caratteristiche opposte fra loro. La parte esterna, ad esempio, era rivestita di tendini animali, assai resistenti alla trazione, mentre nella parte interna si disponevano lamine di corno, assai resistenti alla compressione.
L’arco che ne scaturiva, tenuto insieme da tendini e lacche, era difficilissimo da tendere, ma era dotato di una straordinaria potenza.
SOTTO IL TIRO DEGLI ARCIERI PARTI
Questi cavalieri delle steppe, avvezzi per lo più a misurarsi contro truppe omologhe, si scontravano talvolta anche con truppe appiedate, che però nulla avevano a che fare con la rigorosa organizzazione militare romana.
Spesso, gli avversari che si trovavano a fronteggiare non erano neppure eserciti veri e propri, ma semplici folle eterogenee di uomini male armati o bande di schiavi ribelli. Contro simili nemici, numerosi ma assai male addestrati e poco armati, bastava spesso una semplice carica per favorire la dispersione o la resa.
In casi più elaborati, si cercava di concentrare il nemico in grandi masse compatte, per favorire dapprima il tiro degli arcieri (così da non far andare perso nemmeno un singolo dardo, sparando nel mucchio) e quindi l’attacco dei cavalieri corazzati. Con la forza dirompente delle loro cariche, infatti, i cavalieri penetravano a fondo nei ranghi avversari e, una volta smarrito o spezzato il kontos, potevano comunque sventagliare la sciabola o la mazza massacrando senza rischi i nemici indifesi di fronte a tale potenza.
Il perfetto connubio di tali forze è evidentissimo: gli arcieri fungono da cani da pastore, raggrumando i nemici in un unico punto con le loro piogge di dardi, e favoriscono così l’attacco irresistibile delle cavallerie corazzate.
I DIFETTI DELL’ESERCITO PARTICO
L’esercito Partico sembra essere una sorta di orologio svizzero. mobile e potente al tempo stesso: una macchina da guerra perfetta.
In realtà, i suoi pregi rappresentavano anche i suoi difetti.
Le singole componenti dei Parti, infatti, non erano in grado di operare come corpi autonomi senza pregiudicare in modo grave la loro efficienza. La cavalleria corazzata era una sorta di carro armato ante litteram: irrefrenabile una volta al galoppo, ma assai lenta a mettersi in moto. Essa aveva letteralmente un’unica strategia, ossia la carica in ranghi serrati, con i cavalieri posti fianco a fianco, allo scopo di aumentare al massimo l’efficacia del colpo di ariete. Nel caso in cui però fosse necessaria una qualsivoglia manovra o evoluzione differente, essa sarebbe impossibile a causa della massa e del peso di uomini e cavalli.
In aggiunta a ciò, nell’attesa di effettuare la carica, il reparto si rivelava assai vulnerabile. Se attaccati da molto vicino, o addirittura se aggirati, i catafratti si trovavano in enorme difficoltà: per questo motivo si avvalevano degli arcieri, rapidi e inafferrabili, che effettuavano continue perlustrazioni a cavallo per evitare le imboscate, ma che a loro volta rischiavano di essere devastati nel caso in cui si fossero trovati da soli nel mezzo di uno scontro.
Queste debolezze vennero fuori nel confronto con la fanteria romana, perfettamente armata e organizzata. Da Sparta in poi, come fece notare lo stesso Senofonte, l’uso di disporre i fanti in ranghi serrati e di opporre al nemico un muro compatto di lance e scudi aveva fatto ritenere obsoleta la tattica della carica diretta dei cavalieri, che non avendo le staffe rischiavano di perdere l’equilibrio in seguito alla collisione, tanto più che dovevano assorbire con la spalla l’impatto violento del loro kontos contro gli scudi nemici.
LA BATTAGLIA DI CARRHAE
In che modo i Parti furono in grado di ovviare a queste loro intrinseche debolezze?
Intanto, i catafratti adottarono una serie di accorgimenti al fine di ottenere una maggiore stabilità a cavallo. La sella venne spesso provvista di grandi arcioni sporgenti, che favorivano la stretta delle cosce, e sul fianco destro del cavallo veniva appesa una grande faretra, che stringeva sulla gamba del cavaliere spingendola ancor di più contro la sella.
Ci voleva però un lampo di genio strategico per venire a capo delle legioni romane. Così avvenne nella mente di Surena, leader dell’esercito dei Parti a Carrhae, che ebbe un’intuizione degna dei più grandi condottieri militari della storia. Si trattò di una scelta che non solo risolse la battaglia, ma che condizionò anche negli anni a venire l’opinione pubblica romana, grazie allo scalpore suscitato dal disastro.
Osservando dall’alto la compatta formazione dei legionari romani, accorpatisi al fine di resistere alla carica della cavalleria Partica, Surena comprese istantaneamente come quella formazione fosse assai diversa rispetto a quella che il suo esercito era abituato ad affrontare nelle steppe asiatiche: una carica contro quel massiccio quadrato di soldati non avrebbe sortito alcun esito, ed anzi la mischia sarebbe stata certamente fatale ai suoi cavalieri corazzati.
Osservando dall’alto il pilum in dotazione ai legionari romani, Surena calcolò mentalmente che tale arma sarebbe stata totalmente inutile contro il proprio esercito. Il giavellotto romano, che come già spiegato nei precedenti articoli era stato alleggerito all’epoca di Mario e di Cesare, si era rivelato prezioso contro le popolazioni italiche ed i barbari europei, ma non aveva capacità di penetrazione sufficiente contro le corazze della cavalleria Partica e non possedeva sufficiente gittata per rivaleggiare con i poderosi tiri degli arcieri.
L’altra analisi elaborata da Surena riguardò l’armatura dei legionari. La Lorica Hamata, che rivestiva ormai da tempo i soldati repubblicana, si sarebbe mostrata inefficace nel fermare le frecce degli ippotoxotai. La Battaglia di Carrhae fu quindi un momento fondamentale nel contrasto storico-militare fra corazza e proiettile: il bellissimo video sottostante, seppur in lingua inglese, fa capire perfettamente quale fu la portata di questa tremenda disfatta.
LA TESTUGGINE ROMANA
La Battaglia di Carrhae e la strategia di Surena evidenziò, per la prima volta in modo decisivo, una componente di debolezza intrinseca nell’esercito romano: la fanteria romana non aveva adeguata protezione contro la mobilità, la potenza di tiro e la forza d’urto superiori delle cavallerie nemiche.
Contro simili avversari, l’esercito Romano della fine della Repubblica e dell’inizio dell’Impero aveva scarse contromisure e limitate possibilità di azione. I moderni manuali di tattica, in una situazione simile, consiglierebbero uno schieramento quanto più aperto possibile, per dilapidare la forza degli assalitori, sia a livello di carica che di tiro.
I Romani, invece, scelsero la tattica esattamente contrapposta: la testudo, ossia la testuggine, un quadrato difensivo estremamente compatto in grado di svolgere contemporaneamente il doppio compito di reggere alle cariche e di riparare i fanti dalle frecce dietro ad un muro compatto di scudi. In questo assetto, con i legionari sul perimetro e gli ausiliari all’interno, la formazione si protegge dai tiri a parabola.
La testuggine, però, era una tattica che poneva parecchi limiti.
Il primo limite, ovviamente, era che essa non era sempre attuabile.
Il secondo limite era che tale schieramento annullava all’istante il miglior pregio dell’esercito romano, ossia la sua capacità di manovra.
Pertanto, la testuggine era una soluzione che poteva portare risultati, ma essi dipendevano anche da situazioni contingenti e da errori del nemico. Essa assomigliava, per fare una metafora calcistica, al più classico catenaccio all’italiana: si lascia l’iniziativa all’avversario, limitandosi ad un atteggiamento di difesa passiva, nell’attesa che in qualche momento, da qualche parte, si apra un varco di opportunità.
LA RIFORMA DELL’ARMAMENTO DELL’ESERCITO ROMANO
Lo sbigottimento in seguito alla sconfitta di Carrhae ebbe paradossalmente conseguenze positive per Roma, desiderosa di reagire e di recuperare lo svantaggio militare.
La lacuna più grave fra i Parti ed i Romani, ossia gli attacchi dalla lunga distanza, venne almeno parzialmente colmata fin dalla Battaglia di Gindaro del 38 a.C., grazie alla scelta di aggregare alle legioni nutrite schiere di frombolieri, la cui arma (a detta dello storico Dione Cassio) aveva più o meno la stessa gittata dell’arco composito dei Parti ed era in grado di danneggiare persino le corazze dei catafratti.
Sulla scacchiera del campo di battaglia, adesso, i due schieramenti dovevano mettere in conto il principio reciproco del dare/avere: per poter scagliare i propri dardi con la certezza di nuocere, gli ippotoxotai dovevano rendersi a loro volta vulnerabili, accettando di pagare un potenziale tributgo in vite umane.
All’inizio del II secolo d.C., come abbiamo già spiegato negli articoli precedenti, l’ideale perimetro di rispetto attorno alle legioni si allargò ancora, non solo con l’ingresso fra gli ausiliari degli arcieri Cretesi, ma soprattutto con l’avvento delle carroballistae, capaci di colpire con effetti letali ad una distanza almeno quadrupla rispetto all’arco composito.
Risolto il primo problema, sorse la questione di come proteggere al meglio la fanteria, problematica che venne risolta con il drastico miglioramento dell’armamento che abbiamo approfondito nei precedenti articoli.
Con le sue lame a proteggere il busto, la Lorica Segmentata annullava l’effetto delle frecce partiche, che erano invece fatali con la Lorica Hamata. Quanto al pilum pesante, esso si rivelò un’arma assai preziosa contro la cavalleria dei catafratti, poichè la presenza del nuovo elemento sferico esaltava la forza di penetrazione della punta: contro un attacco a ranghi serrati, una pioggia dei nuovi giavellotti romani doveva provocare effetti terribili, talmente gravosi da arrivare ad arrestare la carica.
L’effetto era persino superiore se il pilum colpiva la cavalcatura: cadendo, l’animale trascinava infatti con sè anche coloro che lo seguivano, incapaci di superare l’ostacolo imprevisto.
Esisteva però una terribile limitazione a questa micidiale arma offensiva. Per provocare il massimo danno possibile, il legionario doveva attendere che il nemico fosse a non più di 20 metri. Stiamo parlando di un catafratto in piena carica, cosa che permette di elogiare senza remore il sangue freddo dei componenti dell’esercito Romano.
LA DISFATTA DEI PARTI
Stavolta furono i Parti a restare sbigottiti, constatando come i loro catafratti non fossero più un’arma invincibile. Divenuta inutile perchè troppo vulnerabile ed al tempo stesso troppo preziosa per poter essere sacrificata impunemente, la cavalleria corazzata sembrò scomparire dai campi di battaglia per quasi un secolo.
Tale scomparsa comportò gravi disagi anche per gli ippotoxotai poichè, come già ricordato nei paragrafi precedenti, l’estrema efficacia dell’esercito Partico dipendeva in larga misura dall’azione combinata dei suoi reparti: pertanto, nella nuova evoluzione tattica, anche i formidabili arcieri finirono per trovarsi grandemente in difficoltà.
Venendo impiegata con estrema prudenza una delle due cavallerie, anche l’altra si trovò dunque alle prese con opzioni tattiche assai limitate, soprattutto se costretta ad affrontare formazioni ormai dotate di arcieri, frombolieri e macchine da guerra. Sfruttando la grande rapidità delle proprie cavalcature, ai Parti non rimase che una singola tattica di combattimento: la guerriglia, con agguati fugaci e frecce scagliate durante la fuga, azione che i Romani consideravano assai disonorevole e che battezzarono con il nomignolo offensivo “freccia del Parto“.
LA VITTORIA DI DURA EUROPOS
Dopo una serie di relativamente blande scaramucce, nel 167 d.C. scoppiò fra Romani e Parti una grande battaglia, presso Dura Europos (antica città della Mesopotamia, oggi in Siria).
Le fonti concordano pressochè all’unanimità: per i Parti, questa battaglia fu un’autentica disfatta. Le legioni penetravano a fondo nel territorio ed insediavano le città, mentre l’esercito Partico evitava sistematicamente lo scontro, conscio della propria condizione di inferiorità.
Ai Parti, come detto, restava solo la tattica delle scorribande, che permisero loro di ottenere modesti successi contro colonne isolate o lasciate di retroguardia: tali vittorie, per nulla significative nell’ambito della guerra, erano comunque assai spesso il frutto dell’inettitudine di specifici comandanti romani. Quel che è chiaro è che i Parti non erano assolutamente in grado di affrontare una battaglia a campo aperto: nell’unica occasione in cui accettarono lo scontro, nella speranza di sconfiggere l’esercito di Lucio Vero, essi incapparono in una spaventosa disfatta.
La situazione era talmente sbilanciata a favore dei Romani che, quando Settimio Severo, trenta anni dopo, scatenò la sua offensiva contro i Parti, la sua spedizione parte più un’esercitazione militare che una vera e propria campagna. La prima spedizione non incontrò alcuna resistenza, mentre la seconda fu in grado di partire da Brindisi e catturare la capitale Ctesifonte in meno di sei mesi. Tutto ciò è visibile nella decorazione, piuttosto rovinata, dell’Arco di Settimio Severo, ammirabile nel corso del Tour della Roma Imperiale di Rome Guides.
La facile campagna Partica di Settimio Severo si concluse quindi non solo con la vittoria, ma con la creazione stabile della Provincia della Mesopotamia.
I Romani confermavano la loro pressochè assoluta invincibilità: cosa mai avrebbero potuto fare gli eserciti nemici dell’Impero Romano?