La minaccia dei barbari nell’Impero Romano (5/8)

La minaccia dei barbari nell'Impero Romano, La minaccia dei barbari nell’Impero Romano (5/8), Rome Guides

LA MINACCIA DEI BARBARI NELL’IMPERO ROMANO (5/8)

Come già anticipato nei tre precedenti articoli, questa serie di otto articoli del Blog ha lo scopo di dettagliare, in modo completo seppur non esaustivo, le principali informazioni inerenti struttura, composizione, amministrazione, gestione, punti di forza e di debolezza dell’esercito nell’Impero Romano, che in questo specifico articolo si concentra sulla minaccia dei Barbari nell’Impero Romano, che possono essere definiti senza dubbio una delle principali concause della sua caduta.

Si tratterà di una schematizzazione relativamente semplificata (esistono intere enciclopedie focalizzate sulla materia), che però confidiamo possa essere utile per comprendere le caratteristiche salienti dell’esercito romano, sia dal punto di vista prettamente organizzativo che militare. Al termine di questo lavoro verrà inserito un glossario che consentirà di richiamare alla mente alcuni dei termini adoperati nel corso degli articoli, che diventeranno progressivamente sempre più familiari.   

LA MINACCIA DEI BARBARI NELL’IMPERO ROMANO

La minaccia data dalla presenza delle popolazioni barbariche fu, almeno all’inizio dell’Impero Romano, assai meno grave di quella legata ai Parti, esaminata nell’articolo precedente.

A fronteggiare le incursioni dei piccoli gruppi di predatori che sporadicamente violavano le frontiere a scopo di razzia bastavano, senza bisogno di ulteriori aggiustamenti militari, i reparti ausiliari, truppe agili e veloci perfette per contrastare nemici privi di armatura difensiva e di una specifica preparazione militare.

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Le legioni entravano in campo solo nel caso di operazioni più complesse, ad alta intensità, come ad esempio nel caso delle spedizioni condotte contro i Britanni o i Daci. In quest’ultimo caso, nello specifico, basta esaminare alcuni fregi ed alcune metope del Tropaeum Traiani (il monumento trionfale eretto a Adamklissi, in Romania) per notare come i legionari fossero tornati ad indossare la più leggera Lorica Hamata e come essi adoperassero tattiche assai diverse rispetto a quelle che verranno in seguito eseguite con i Parti, ossia concedendo più spazio alle tecniche di combattimento individuale e meno alla formazione tattica.

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All’inizio dell’Impero, fatti salvi casi estremamente sporadici, il legionario medio si rivelava immensamente superiore a qualsiasi guerriero barbarico non solo per l’armamento in dotazione, ma anche in virtù del suo addestramento e della sua straordinaria capacità di manovra. Nel caso in cui i Barbari avessero deciso di attaccare in grandi masse compatte, l’esercito romano poteva comunque chiudersi nella falange, in cui ogni soldato si ritrovava coperto dai commilitoni adiacenti e sorretto nell’azioni dai ranghi alle proprie spalle.

In ogni caso, anche in questa situazione di “guscio protettivo”, ogni legionario sapeva bene di avere a propria disposizione uno specifico spazio di manovra, per potersi servire in modo congruo delle proprie armi, pari (secondo lo storico Vegezio) a tre piedi, ossia poco meno di un metro.

A livello di schieramenti possibili, è Arriano a descriverci in modo chiarissimo quello maggiormente adoperato contro le popolazioni barbariche. Il reparto si disponeva su una profondità di otto file, con gli uomini delle prime quattro armati di pilum (ancora il modello “leggero”) e con quelli delle seconde quattro armati di lancia. Talvolta andava a chiudere il gruppo una nona fila, interamente composta da arcieri (come accadde, ad esempio, per fronteggiare gli Alani).

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I SEGNALI ACUSTICI NELL’ESERCITO ROMANO

Per muoversi a dovere nell’ambito di un’organizzazione militare così rigorosa, ogni legionario doveva sapere modificare rapidamente il proprio assetto ad un semplice ed inconfondibile segnale, impartito dai commilitoni per mezzo dei corni (cornicines) e delle trombe (tubicines).

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In particolari circostanze, infatti, la buona riuscita di una manovra e persino la salvezza stessa dell’esercito poteva dipendere dalla capacità di manovrare rapidamente. Si pensi, ad esempio, alla tattica del cuneo, spesso adoperata dalle tribù barbariche: si trattava di una formazione a trapezio, le cui ultime file schieravano un numero di unità maggiore rispetto alle prime file, per ovviare alla quale era necessario raddoppiare rapidamente la profondità dei ranghi (in caso di tattica difensiva, per reggere l’urto) oppure allargarsi rapidamente sui fianchi (in caso di tattica offensiva, per aggredire i fianchi indifesi del nemico).

Studiando le strategie adoperate dai generali Romani negli scontri del I secolo d.C., per esempio da Giulio Civile contro i Batavi nel 70 d.C. o da Agricola contro i Pitti nell’84 d.C., è possibile comprendere come di solito l’esercito potesse essere posizionato su un’unica fila o su due file. Nel primo caso, le legioni occupavano il centro, affiancate dapprima dalle truppe ausiliarie e quindi dalla cavalleria, che aveva il compito di proteggere i fianchi della formazione. Nel secondo caso, le truppe ausiliarie formavano l’avanguardia, con le legioni a costituire la riserva.

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In entrambi i casi, le macchine da guerra più pesanti e meno mavrabili, ossia gli onagri, venivano piazzate al riparo dietro le linee dei fanti, mentre quelle più manovrabili come le carroballistae venivano disposte sulle ali. In entrambi i casi, il fuoco di queste artiglierie poteva avere effetti davvero devastanti, in grado di scompaginare qualsiasi schieramento.

CLIMA E AMBIENTE OSTILI

Il primo grande svantaggio che il tipico soldato romano si trovò ad affrontare nelle sue spedizioni contro i Barbari fu il cosiddetto “condizionamento ambientale”.

Per quanto flessibile e relativamente leggera, il soldato romano era almeno parzialmente impedito e rallentato dal peso dell’armatura, che creava un disagio minimo sul roccioso basolato delle strade consolari, ma che gravava su spalle e gambe quando si trattava di camminare su un terreno acquitrinoso, nel clima umido o piovoso della Germania o della Britannia, con una stabilità precaria, i piedi a scivolare nel fango e le caviglie ad affondare nella melma.

Una simile situazione ambientale rendeva estremamente difficile avanzare o arretrare mantenendo la consueta velocità di manovra, ed anche la compattezza della formazione ne risentiva di riflesso, poichè risultava decisamente ostico vibrare i colpi mantenendo un faticoso equilibrio su tale terreno disagevole.

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Problematiche simili, seppur non identiche, si verificavano per i terreni contrassegnati da faglie e dirupi, o per quelli disseminati di fitte foreste, che non rappresentavano certo l’habitat ideale del legionario romano. 

I Barbari (fossero essi Germani, Britanni o Daci) erano ben più avvezzi a simili condizioni ambientali e, forti anche del mancato impedimento dato dall’assenza dell’armatura, erano assai abili a sfruttare al massimo i vantaggi offerti loro dal territorio nel quale si muovevano, anche attraverso strategie decisamente riffinate: si pensi alla tattica di Arminio, il quale nel 15 d.C. fece deviare tutti i ruscelli che scorrevano sulle alture direttamente verso la piana in cui erano accampati i legionari romani, allo scopo di allagare il loro accampamento.

Non per altro, lo storico Tacito scriveva che molto spesso i generali vittoriosi in guerra venivano lodati non solo per le loro vittorie militari, ma anche “per aver saputo superare, oltre al valore dei nemici, anche le difficoltà imposte dal terreno”.

LO SCONTRO FRA ROMANI E BARBARI

Preceduto di solito dalla Adlocutio del comandante, lo scontro di apriva al suono dei corni e delle trombe, che segnalavano ai soldati la manovra da compiere.

Quando presenti, erano le macchine da guerra ad aprire il fuoco, grazie alla loro maggiore portata: i proiettili non servivano esclusivamente a scompaginare il nemico, ma anche a preparare e a coprire l’avanzata dei fanti verso una posizione fortificata o per costringere il nemico ad allontanarsi da una specifica posizione.

In assenza delle artiglierie, i primi ad ingaggiare battaglia erano gli auxilia, che tempestavano i Barbari di giavellotti, frecce, ghiande plumbee e pietre, al fine di rallentarne lo slancio.

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Una volta che il nemico fosse ormai prossimo, allora i legionari lanciavano un forte grido ed entravano in gioco scagliando il proprio pilum, mentre anche tutte le altre truppe ausiliarie scagliavano all’unisono un’ultima scarica, la cui distanza ormai ridottissima conferiva effetti tendenzialmente micidiali per il nemico.

Di fronte al presumibile sbandamento del nemico, i legionari levavano alto il clamor, il propiziatorio grido di guerra che lasciava presagire la vittoria: a quel punto, gli ufficiali impartivano il comando “Ad Gladium“, ed i soldati romani impgnavano le spade attaccando il nemico corpo a corpo.

Nonostante quindi le truppe dell’Impero Romano affrontassero spesso Barbari di taglia superiore, più agili e avvezzi al terreno, esse potevano contare su un miglior armamento, sull’abitudine ad una ferrea disciplina e su un costante addestramento muscolare che perfezionava la resistenza e l’abilità schermistica dei singoli soldati. Così, dopo un duello fatto di finte e parate, di stoccate ripetute e di colpi portati anche con lo scudo allo scopo di squilibrare il nemico, il legionario finiva per avere quasi sempre la meglio sul suo antagonista Barbaro.

LA VITTORIA DEI ROMANI E LA FUGA DEI BARBARI

Lo schematico resoconto descritto nel paragrafo precedente prescinde dall’intervento della cavalleria romana.

I cavalieri romani seguivano tattiche diverse a seconda del proprio armamento: gli uni tempestavano il nemico con una pioggia di dardi, gli altri lo attaccavano da cortissima distanza con la lancia, in ordine sparso o in ranghi serrati.

Soto la pressione dei soldati Romani, con la fanteria da un lato e la cavalleria dall’altro, i Barbari cominciavano spesso a perdere terreno assai rapidamente, ottenendo scarsa difesa dai loro piccoli scudi, ormai affaticati dal peso delle loro grandi spade ed asce, debilitati dallo sforzo ed in gravoso debito di energie e vigore. bastava quindi un evento imprevisto (ma ovviamente deciso strategicamente dai generali Romani), come un attacco su un fianco o alle spalle, per metterli in fuga.

A questo punto, iniziava l’inseguimento, che a dispetto dell’espressione era una fase tutt’altro che esente da rischi. Esso veniva infatti condotto dai Romani con estrema prudenza, allo scopo di evitare di cadere in tranelli ed agguati; quale ulteriore aggiunta per schivare i pericoli, ai soldati impegnati a braccare il nemico veniva anche severamente proibito di fermarsi a raccogliere il bottino, al fine di non sovraccaricarsi ed ingombrarsi con le spoglie. Molti generali preferivano addirittura affidare la caccia dei nemici sbandati solo a poche coorti, tenendo di riserva il resto delle loro truppe ed inviando manipoli di soldati a frugare le macchie boschive una ad una.

Ai Barbari, esausti per la battaglia, per lo più appiedati e spesso inseguiti da truppe leggere a cavallo, restavano ben poche vie di scampo. Alcuni di coloro che cercavano di sfruttare i corsi d’acqua per salvarsi a nuoto, troppo debilitati dalle ferite subite nello scontro, venivano travolti delle impetuose correnti; altri cercavano di arrampicarsi fra le fronde degli alberi, divenendo però, una volta scoperti, facile bersaglio per gli arcieri.

Terminato il combattimento, si estendeva dinanzi agli occhi dei superstiti il campo di battaglia in tutta la sua desolazione. I Romanni ammassavano allora i prigionieri per condurli via ed erigevano dei piccoli trofei con le armi dei vinti, dedicandoli a Giove, a Marte e all’Imperatore di Roma.

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Col passare degli anni e delle battaglie, i Barbari presero coscienza della propria inferiorità. Solo la sporadica insipienza dei generali Romani poteva esporre le legioni al pericolo della disfatta; se ben comandate, esse erano obiettivamente invincibili. Intuito ciò, i Barbari compresero la necessità di affidarsi a tattiche di guerriglia, soprattutto fra le natie foreste, che erano terreno assai ostico per i soldati romani. Ed anche quando, come avvenne ad esempio nel 167 d.C., i Germani riuscirono ad organizzare una vastissima coalizione, l’esercito di Roma si considerò pronto a replicare a qualsiasi attacco, per quanto poderoso esso potesse essere.

LA PACE PROVVISORIA AI CONFINI DELL’IMPERO

Il vento, però, stava cambiando.

Durante la presa di Seleucia, infatti, una terribile pestilenza diffusasi fra i ranghi decimò le truppe Romane: di tale morbo rimase probabilmente vittima lo stesso Imperatore Marco Aurelio. Nonostante la perdita di buona parte dei propri insostituibili veterani, l’esercito romano sarebbe stato in grado di riprendere vigorosamente l’iniziativa, poichè le tribù barbariche appaiono sull’orlo della più completa disfatta ed ormai rassegnate a condizioni di pace durissime.

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Quel che sparigliò le carte sul tavolo fu un doppio fattore, in entrambi i casi non impossibile da prevedere esaminando con maggiore sagacia le informazioni  disponibili all’epoca.

Il primo aspetto fu la salita al potere di Commodo, che si rivelò irrimediabilmente non all’altezza di suo padre e dei di lui predecessori: il carattere del giovane era ben noto agli aristocratici Romani, che avrebbero dovuto vedere in lui un pericolo per un Impero assai ben abituato alla saggezza dei cosiddetti “Imperatori Filosofi”.

L’impatto maggiore lo ebbe, però, lo spostamento di alcune popolazioni asiatiche (prima fra tutte, gli Unni) che causarono un cataclisma demografico destinato a durare per secoli. Tale pressione doveva necessariamente essere prevista dai più lungimiranti amministratori imperiali, considerato il fatto che l’assalto simultaneo del 167 d.C. (con i Marcomanni in Boemia, i Quadi in Moravia e gli Ermunduri in Turingia) si scatenò in modo così violento proprio perchè tali tribù si ritrovarono pressate alle spalle da altre genti, pericolose tanto quanto le legioni romane, come avrebbe imparato ben presto lo stesso glorioso Impero Romano.

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