LA CRISI MILITARE DEL TARDO IMPERO ROMANO (6/8)
Come già anticipato nei precedenti articoli, questa serie di otto articoli del Blog ha lo scopo di dettagliare, in modo completo seppur non esaustivo, le principali informazioni inerenti struttura, composizione, amministrazione, gestione, punti di forza e di debolezza dell’esercito nell’Impero Romano, che in questo specifico articolo analizza le ragioni della crisi militare del Tardo Impero Romano, che colpì dapprima la società romana nel suo complesso e quindi nello specifico l’esercito e la sua struttura.
Si tratterà di una schematizzazione relativamente semplificata (esistono intere enciclopedie focalizzate sulla materia), che però speriamo possa essere utile al fine di comprendere le caratteristiche salienti dell’esercito romano, sia dal punto di vista organizzativo che militare. Al termine di questo lavoro verrà inserito un glossario che consentirà di richiamare alla mente alcuni dei termini adoperati nel corso degli articoli.
LA CRISI MILITARE DEL TARDO IMPERO ROMANO
Fin dai primi anni del III secolo d.C. cominciò, all’interno ed all’esterno dell’Impero Romano, una crisi di portata mondiale. Le grandi migrazioni iniziate all’epoca di Marco Aurelio spinsero verso il limes del medio e basso Danubio tribù sempre diverse, provenienti dagli sconfinati territori baltici e sarmatici: i Vandali, i Sarmati, i Goti, gli Alani, solo per citarne alcuni. Contemporaneamente, le tribù germaniche si riunirono nelle due grandi federazioni dei Franchi e degli Alamanni, che iniziarono a premere sul Reno. Infine, iniziò a risorgere l’aggressivo nazionalismo iranico, che portò i Sasanidi (dinastia che si era ormai sostituita ai Parti) ad attaccare le province romane della Siria e della Mesopotamia.
Simultaneamente a questi fattori esterni, l’Impero iniziò a mutare anche dall’interno, a causa della profonda trasformazione in atto all’interno dell’esercito romano. Ci si rese inesorabilmente conto di come, di fronte a pressioni contemporanee lungo le principali frontiere, le difese frontaliere concepite da Adriano si rivelassero ormai totalmente inefficienti.
Di fronte a forze nemiche preponderanti e rese particolarmente aggressive dalla soddisfazione dei bisogni primari, la presenza di valli e fortificazioni non rappresentava più un ostacolo preventivo all’avanzata dei barbari, ma al massimo un semplice intralcio: scegliendo il punto in cui attaccare a raggruppandosi in forze in quel luogo, ottenendo una superiorità locale spesso assai consistente, le tribù nemiche si rivelarono sempre più spesso in grado di sfondare le difese perimetrali dell’Impero.
La tattica militare doveva necessariamente mutare prospettiva: anche nel caso in cui le tribù fossero state in grado di sfondare i valli, le loro orde migranti (composte da donne, bambini, greggi e vettovaglie) avrebbero avuto scarsissima manovrabilità, potendo quindi essere intercettate e distrutte da nuove forze difensive di moderna creazione, con basi di partenza non sul limes ma all’interno delle singole Province, in grado di intervenire in forze grazie al necessario sacrificio di una modesta porzione della guarnigione di frontiera.
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LA RIVINCITA DELL’ORIENTE
Mentre le tribù barbariche premevano sui confini, causando una profonda modifica tattica nell’esercito romano, anche dal punto di vista politico l’Impero si trovò ad affrontare una crisi pesantissima, scaturita dall’opposizione netta fra la parte Occidentale e la parte Orientale dell’Impero stesso, che squilibrò progressivamente le forze in gioco.
Mentre nella parte Occidentale le borghesie restavano sempre fedeli a Roma, in Oriente molte delle antiche culture indigene continuarono indisturbate a custodire le proprie tradizioni politiche, culturali e religiose. Se in alcuni punti, come ad esempio nel caso della fazione giudaica, lo scontro si rivelò spesso decisamente esplicito e violento, in altri territori i contrasti furono più striscianti ma non certo meno insidiosi, mostrando come in alcune Province la romanizzazione delle popolazioni fosse stata soltanto superficiale.
L’Oriente iniziò ad ottenere una sorta di inconscia rivincita, che ebbe il suo primo fremito dal punto di vista commerciale, con gli abilissimi mercanti levantini a gestire il traffico delle merci dall’Estremo Oriente (principalmente India, Cina e Penisola Arabica) attraverso un enorme numero di scambi.
Questa esplosione commerciale finì per indebitare gravemente, e in qualche caso persino per prostrare economicamente, l’Occidente Romano. Ciò che però maggiormente lacerò l’Occidente fu che, assieme alle merci, arrivarono anche idee, valori e concetti alieni, che mutarono sempre più gli ideali del popolo, che vide progressivamente i propri componenti trasformarsi da cittadini a sudditi.
Tra nuovi culti basati sulla trascendenza e sulla vita eterna, in cui trovano riscatto le masse dei diseredati, ed un potere che viene concepito sempre più non come controllato dalla cittadinanza, ma come derivante direttamente dalla divinità, gli stessi Imperatori videro sollecitate le proprie più segrete ambizioni. L’Impero Romano ne risultò irrimediabilmente snaturato, alterato a fondo nella propria essenza vitale: l’orgoglio civico ed il senso del dovere iniziarono ad affievolirsi, ed anche il formidabile strumento militare con cui l’Impero aveva costruito la propria supremazia mondiale si trasformò di pari passo con la società, con conseguenze disastrose.
L’INDEBOLIMENTO DELLA FANTERIA ROMANA
La decadenza delle strutture cittadine dell’Impero e lo sviluppo di un nuovo concetto di vita andò a riflettersi immediatamente nella diminuita importanza della fanteria, certamente l’aspetto principale della crisi militare del Tardo Impero Romano.
A dispetto dell’ausilio fornito dalla cavalleria e dall’artiglieria di guerra, fu sempre la fanteria a garantire i principali successi militari dell’esercito Romano: se ben guidata e sufficientemente addestrata, la fanteria romana poteva dimostrarsi superiore a qualsiasi forza a cavallo, come dimostrò la Legione dei Primani che a Strasburgo nel 357 d.C. raddrizzò praticamente da sola le sorti di una sconfitta quasi certa a causa dell’attacco dei temibili catafratti. Nella prima metà del IV secolo d.C. risultano dai documenti almeno otto punizioni inferte dai Generali romani ai propri cavalieri, rei di viltà di fronte al nemico, in cui si dovette ricorrere alla retrogradazione al rango di fanti e persino all’antica e crudele prassi della decimazione.
Perché allora la fanteria romana, ossia le truppe di rango più basso e costrette a fatiche maggiori, iniziò a perdere efficacia?
La prima spiegazione deve essere ricercata nella repentina interruzione delle migliorie tecniche dell’armamento individuale che, per secoli, non aveva mai cessato di evolversi in un costante perfezionamento. L’impiego delle corazze, ad esempio, divenne sempre più rarefatto: la lorica segmentata viene ancor oggi attestata figurativamente per l’ultima volta sui fregi dell’Arco di Settimio Severo. Questa fu l’ovvia conseguenza dell’inserimento, fra i ranghi dell’esercito, di sempre più folti contingenti barbarici, da sempre restii a servirsi di armature.
Si aggiunga a ciò il progressivo rilassamento delle truppe a livello disciplinare, che caratterizzò questa fase di crisi profonda: lo storico Vegezio scrisse che, nel IV secolo, molti soldati erano così muscolarmente rammolliti da non reggere più su di sé il peso delle armature. Ormai, solo gli alti ufficiali della fanteria ed i reparti corazzati di cavalleria adoperavano le corazze di maglia o di scaglie metalliche.
Lo stesso discorso può essere fatto anche per gli elmi, ormai appannaggio quasi esclusivo dei cavalieri o di alcuni reparti di mercenari provenienti dalle zone del Danubio, mentre i fanti tendevano a portare ormai semplici copricapi di cuoio, simili agli antichi berretti frigi.
E se, sempre tenendo conto delle informazioni forniteci da Vegezio, dall’epoca di Diocleziano il gladio cedette il posto alla più larga spatha, anche il pilum (che per secoli aveva rappresentato, con i suoi progressivi miglioramenti, una delle armi preferite delle truppe romane) venne sostituito da giavellotti più corti, più sbilanciati ed assai meno efficaci come gittata e coefficiente di penetrazione.
L’INFLUENZA ORIENTALE SULL’ESERCITO
Quel che appare chiaro, da questa semplificata analisi degli eventi, è che il rapporto fra fanteria e cavalleria si ribaltò completamente, in quanto a prestigio e funzionalità, in favore di quest’ultima.
Da un lato, infatti, i reparti di fanteria mostravano capacità combattive sempre più ridotte, dall’altro si veniva a sviluppare una esigua élite di unità a cavallo ancora dotate di adeguato armamento.
Il decadimento della disciplina militare, l’addestramento sempre meno perfezionato, il continuo regresso delle caratteristiche culturali delle truppe causarono progressivamente un imbarbarimento dell’esercito e produssero un irreversibile declino del loro livello tecnico ed organizzativo. Ormai, la memoria degli antichi fasti e delle specifiche competenze militari veniva affidata a dei veri e propri corpi speciali, aggregati ai singoli eserciti imperiali.
Adoperando le parole dello storico Polibio, che scrisse che “ogni esercito è l’emanazione dello Stato che lo esprime”, è possibile affermare che l’esercito di Roma, a partire dal III secolo d.C., si andò sempre più “orientalezzando”.
Fu l’Imperatore Alessandro Severo, a partire dal 223 d.C., ad avviare la trasformazione dell’esercito romano, inserendo al suo interno nutriti contingenti orientali: gli arcieri Osroeni, i cavalieri Mauri e persino alcuni disertori Partici.
La trasformazione proseguì nel 238 d.C. con Gordiano III, che inserì all’interno delle truppe vere e proprie formazioni composte da Goti e Germani. Queste nuove truppe non vennero semplicemente integrate a quelle già esistenti, ma vennero inserite con numeri di tale consistenza da far tracollare quasi istantaneamente il fronte romano, poco disciplinato e male armato, di fronte alla cavalleria persiana. Lo stesso imperatore Gordiano III sperimentò l’inadeguatezza del proprio esercito, perdendo la vita nel 244 d.C. durante la battaglia di Pirisabora, ricordata con estrema chiarezza nelle grandi iscrizioni rupestri raffiguranti le imprese del sovrano Sasanide Shahpur I.
LE NUOVE FORMAZIONI MILITARI
Con l’Imperatore Licinio Gallieno, nella seconda metà del III secolo d.C., le unità di cavalleria aumentarono di importanza e di numero: accanto ai cosiddetti Equites Mauri, già inglobati da Alessandro Severo, nacquero le formazioni degli Equites Dalmati e degli Equites Scutarii, provenienti dall’Illiria. Venne anche fondato un vero e proprio comando strategico unificato delle forze di cavalleria, con sede a Milano, per sottolineare l’accresciuta importanza di questa arma in seno alle forze imperiali.
Per quanto concerne la fanteria, gli Imperatori Licinio Gallieno e Filippo l’Arabo crearono numerose Vexillationes, ossia veri e propri eserciti mobili stanziati in Macedonia, in Pannonia e a Sirmium: questi distaccamenti anticiparono concettualmente il ruolo dei Comitatenses istituiti da Costantino.
La novità più interessante fu la creazione, sempre da parte di Licinio Gallieno, del corpo dei Protetcores: si trattava di alti ufficiali (pretoriani di alto grado, prefetti di legione, legionari di comprovata esperienza) che avevano non solo il compito di proteggere l’Imperatore, ma anche e soprattutto il ruolo di consiglieri decisionali, arrivando a formare una sorta di “Stato Maggiore” dell’esercito romano.
Alla fine del III secolo d.C., con l’Imperatore Diocleziano, gli effettivi delle forze armate imperiali vennero pressochè raddoppiate, ma sancendo la netta suddivisione fra unità amministrative e soldati di professione, in quella che ormai stava diventando una divisione definitiva fra carriere civili e carriere militari. Diocleziano, ossessionato dalla propria incolumità personale, venne sempre seguito da una specifica legione da lui stesso istituita, la Legio Ioviana, santificata a Giove, la divinità protettrice di Diocleziano stesso.
Con le scelte assai similari del suo collega Massimiano e dei loro successori, Costanzo Cloro e Galerio, che crearono reparti analoghi (Herculiani, Solenses e Martenses), nacque così la tradizione di comporre una forza ridotta e sceltissima al servizio diretto dell’Imperatore, che potesse supplire alle carenze mostrate dalle truppe ordinarie e che caratterizzarono la crisi militare del tardo Impero Romano.