Il vino nell’Antica Roma

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IL VINO NELL’ANTICA ROMA

Dall’Egitto alla Grecia, dall’Etruria a Roma, il vino ha dominato per millenni sulle tavole del mondo antico, ed anche l’arte figurativa ne trasse ampia ispirazione: per questo motivo, il vino nell’Antica Roma doveva necessariamente essere oggetto di un breve articolo del blog di Rome Guides.

Già nel secondo millennio a.C. il vino era presente sulle pareti delle tombe egizie, che raffiguravano i contadini intenti a raccogliere i grappoli sotto le pergole, mentre i loro compagni saltellavano a piedi nudi nei grandi tini per pigiare l’uva. Altri lavoranti, chini sotto le cannelle, raccoglievano nei recipienti il mosto appena spremuto, mentre le anfore erano pronte ed allineate per riporvi il vino una volta completata la fermentazione.

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Simili raffigurazioni del vino si incontrano un po’ dappertutto nell’ambito dell’archeologia. Il vino è presente nelle scene di banchetto dei bassorilievi assiri, dove si vedono gli schiavi attingerlo con eleganti misurini da grandi crateri, porgendo le coppe ai re o agli eroi, spesso sormontati da tralci di vite o ombrose pergole. Il vino domina la ceramica greca ed ellenistica, sia quella rossa su sfondo nero che quella nera su sfondo rosso, dove nelle scene di simposio è spesso presente Dioniso, che letteralmente trionfa su coppe e crateri dalle forme squisite, circondati da Satiri ebbri e Menadi danzanti. Il vino si esalta sui sarcofagi etruschi, in cui i defunti hanno spesso una coppia in mano per brindare alla vita passata ed all’eternità che estende dinanzi a loro. Il vino domina anche nelle scene di banchetto dipinte a colori vivaci sulle pareti delle tombe etrusche, con i defunti che lo sorseggiano mentre ammirano le danze e gli spettacoli con i quali rallegravano le loro cene.

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Dagli Etruschi il vino giunge a Roma, e diviene il presupposto di tutte quelle abbondanti suppellettili da banchetto che venivano disposte sui tavoli accanto ai letti tricliniari, con coppe, crateri e brocche di ceramica, di bucchero e di bronzo, attorniati da attingitoi di tutti i generi e di tutte le capacità. I massicci dolii romani sono ancora allineati tra le macerie delle villae rusticae che, aggrappate alle falde del Vesuvio, testimoniavano la fertilità e l’attività vinicola della zona, disposte in ordinate file nelle cantine poste accanto agli ambienti in cui si pigiava l’uva, quasi ad attendere quella sciagurata vendemmia del 79 d.C. che non venne mai raccolta.

E basta recarsi nel Thermopolium di Ostia Antica per capire dove andasse a finire gran parte di quel vino, servito agli avventori su panche e tavoli di legno, con i dolii sepolti fino al collo nel terreno, pronti a ricevere il mosto della futura vendemmia per fare quel “vino della casa” che l’oste avrebbe offerto ai propri clienti.

DALLA TERRACOTTA ALL’ORO

Basta recarsi in un qualsiasi museo archeologico italiano per vedere, ospitata nelle teche, tutta la suppellettile tipica della mensa vinaria dell’antichità.

Si va dalle auree coppe micenee ai più modesti recipienti di vetro economico dei Thermopoli pompeiani, dalle caraffe d’argento dei tesori ellenistici alle coppe di cristallo della Villa di Oplontis, dalle brocche di coccio a tre becchi utilizzate nelle osterie alle eleganti ceramiche greche e tarantine. Non mancano però i rozzi recipienti utilizzati dai poveri, caratterizzati da un impasto grossolano e senza un filo di decorazione, che sono però altrettanto importanti per la comprensione di quei mondi oggi scomparsi. Quel che è certo è che, in qualsiasi angolo del globo, l’archeologia è stata in grado di riportare alla luce reperti collegati al vino ed al piacere del suo consumo.

Il vino la fa da padrone anche nell’ambito della letteratura antica. Esso fu di ispirazione a molteplici poeti greci, che lo cantarono ed esaltarono, certamente dopo averlo assaporato.

Ovviamente, non esisteva un unico vino. Archiloco, il guerriero che amava bere in piedi appoggiato alla sua lancia, amava il vino Ismarico, mentre il raffinato buongustaio Archestrato prediligeva il Lesbo invecchiato. C’era chi adorava il Biblino, prodotto in terra fenicia e celebrato per la sua straordinaria fragranza e per il forte profumo che emanava; altri preferivano il Thasio, un vino “generoso” che accresceva il proprio gusto con l’invecchiamento e che, nell’assaporarlo, lasciava nel palato un delizioso sentore di mela, come fece dire allo stesso Dioniso il poeta greco Ermippo.

Quel che è certo è che, nell’antichità, i vini greci (in particolare quello di Chio) erano considerati di gran lunga i migliori, un po’ come oggigiorno lo sono considerati i vini italiani e francesi. Tutti gli altri cercavano di imitarli ma, all’atto pratico, queste imitazioni rimasero sempre e comunque un paio di spanne sotto gli originali.

La spiegazione di questa mancata riuscita è facilmente spiegabile, e trae origine dallo studio delle ricette lasciateci dagli scrittori latini dei trattati di agricoltura, che cercavano di svelare il mistero per produrre in Italia il vino greco. Il segreto sarebbe consistito nell’aggiungere ad un buon mosto una certa quantità di acqua di mare, ossia due anfore di acqua marina ogni venti anfore di mosto, al fine di rendere il vino più dolce e di evitare il mal di testa del giorno dopo (il post-sbronza).

Praticamente, il 10% del vino romano ad imitazione di quello greco era fatto con acqua di mare!

Sebbene ciò possa sembrare incredibile, lo stesso Menippo criticava un famoso vino greco, il Myndio, nel quale la proporzione dell’aggiunta era talmente consistente che gli abitanti di Myndo vennero soprannominati “bevitori di mare”.

IL VINO NELL’ANTICA ROMA

Si potrebbe pensare che i Romani mirassero esclusivamente a copiare la viticoltura greca. In realtà, per i medici dell’Antica Roma erano convinti che l’aggiunta di acqua di mare aumentasse la componente lassativa del vino, stimolando i succhi gastrici ed aiutando la digestione.

Si trattava, ovviamente, solo di una giustificazione, poiché anche i poeti latini apprezzarono e celebrarono il vino, decantandone le doti (e non certamente quelle mediche). Orazio e Marziale furono fra i più fervidi ammiratori del vino, con Orazio che si spinse addirittura ad affermare che “Agli astemi gli dei danno tutti i guai”, facendo del proprio meglio per non essere mai oggetto di tali sciagure divine divenendo un costante ammiratore di Bacco.

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A casa di Orazio, il vino non mancava mai. Egli lodava il Falerno, che era una sorta di re dell’enologia romana, il Caleno, che definiva il vino preferito dalla nobiltà, l’Albano vecchio di nove anni (che era solito offrire alle sue conquiste amorose) e soprattutto il Cecubo, vino dall’altissima gradazione alcolica che veniva prodotto vicino a Fondi e che cresceva nel bel mezzo delle paludi.

Se anche Plinio parteggiava per il Falerno, Marziale mostrava la propria predilezione per il vino prodotto nella tenuta di Domiziano sui Colli Albani: di certo sarà stata anche piaggeria nei confronti del proprio Imperatore, ma sta di fatto che l’Albano, antenato del nostro “vino dei Castelli”, era già stato citato anche da Lucio Giunio Columella nel suo Trattato di Agricoltura De re rustica.

Non occorreva però essere un poeta o uno scrittore per comprovare i benefici effetti dei doni di Bacco. Sulla tomba di Claudio Secondo, liberto della Gens Claudia, si legge infatti il seguente epitaffio: “I bagni, il vino e Venere potranno anche distruggere i nostri corpi, però sono i bagni, il vino e Venere a fare la nostra vita”. Per dirla in parole povere, forse eliminando questi tre piaceri la vita sarebbe anche potuta essere più lunga, ma certamente molto meno allegra.

LA DILUIZIONE DEL VINO

Abbiamo appurato che, fin dall’antichità, i popoli bevvero moltissimo vino.

Nelle epoche più arcaiche, esso veniva consumato puro, ma successivamente questa abitudine venne abbandonata e considerata persino disdicevole, riservandola ai barbari e alle persone dissolute. Secondo una leggendaria tradizione, il primo uomo a praticare l’arte della diluizione del vino sarebbe stato il re di Atene Amfiction, che ne aveva imparato l’arte dallo stesso Dioniso: il nuovo sistema aveva finalmente permesso agli uomini di bere restando dritti sulle proprie gambe, mentre fino a quel momento terminavano le bevute trascinandosi carponi e completamente ubriachi.

Esisteva, al riguardo, un’altra tradizione ben più popolare. Essa narrava che l’usanza di diluire il vino sarebbe nata in un lontano giorno s’estate, quando una compagnia di amici si era recata a cenare in spiaggia. Essi avevano già versato il vino nel grande cratere e avevano cominciato a brindare, quando era sopraggiunto un improvviso temporale, che li obbligò a scappare dalla spiaggia per ripararsi in una grotta poco distante. Quando riapparve il sole, essi tornarono in riva al mare e, nell’assaggiare il vino ormai diluito dall’acqua piovana, lo trovarono molto migliore di prima; da quel momento in poi, secondo la leggenda, nacque la tradizione di berlo sempre diluito.

Quali erano però, tralasciando queste versioni favolistiche, i reali motivi che indussero Greci e Romani ad annacquare i propri vini?

La causa principale deve senza alcun dubbio essere ascritta all’alta gradazione del vino, che poteva raggiungere anche i 17 gradi. La seconda motivazione è che l’unico modo per bere un vino non più perfetto, ossia che “tenda all’aceto”, è proprio quello di aggiungervi acqua. A dimostrazione di ciò, ancora oggi nelle campagne del Sud Italia molti contadini sono soliti annacquare i loro vini, che spesso sono talmente forti da lasciare una traccia rossa nel bicchiere svuotato.

Ovviamente, non tutti i vini erano così forti, al punto da necessitare di una diluizione. Piccoli capolavori enologici come i già decantati Chio e Falerno rappresentavano vini di altissima qualità, e già nell’antichità c’erano palati più raffinati del normale in grado di saper apprezzare una buona annata o un perfetto invecchiamento. Agli occhi degli intenditori, diluire tali nettari rappresentava un vero e proprio delitto; con ogni probabilità, quindi, seppur di nascosto e facendo in modo che la gente non venisse a saperlo, essi li bevevano puri.

Ci fu anche chi non ebbe alcuna paura a sfidare le convenzioni ed a svelare il proprio “vizio”: Orazio ammise non solo di bere vino puro, ma di iniziare ad assaporarlo fin dal primo mattino, cosa che per i nobili Romani erano segno di depravazione.

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Chiarito ciò, la domanda sorge spontanea: quanto vino era lecito bere per non essere considerati degli ubriaconi?

Ai tempi dell’Antica Roma, c’era la certezza che, seppur annacquato, il vino potesse in ogni caso condurre alla pazzia. La mistura più consigliata era tre parti di acqua e una di vino, ed anche in questo caso il suggerimento era di non eccedere. La regola affermava che le persone morigerate bevessero solo tre coppe ben annacquate: una per il brindisi, una per l’amore ed una per il sonno.

A questo punto, una persona saggia avrebbe dovuto terminare e andare a casa. Se invece, mostrando ben poca lungimiranza, fosse rimasto a banchettare, avrebbe fatalmente scoperto che:

  • la quarta coppa apparteneva alla violenza,
  • la quinta coppa era legata al chiasso,
  • la sesta coppa era connessa all’allegria dell’ubriachezza,
  • la settima coppa avrebbe portato alla rissa,
  • l’ottava coppa avrebbe condotto al tribunale,
  • la nona coppa avrebbe causato un attacco di fegato,
  • la decima (ed ultima) coppa avrebbe irrimediabilmente portato alla follia ed alla distruzione del mobilio.

Alla decima coppa arrivarono sicuramente gli abitanti di una casa di Agrigento che, dopo l’evento, venne soprannominata “la Trireme”. Una compagnia di giovani scapestrati, infatti, iniziò a bere talmente smodatamente durante un banchetto che ad un certo punto tutto attorno a loro iniziò ad ondeggiare, senza che essi riuscissero più a reggersi in piedi. Ciò li persuase, nell’ebbrezza dei fumi alcolici, di trovarsi su una trireme colta da una terribile tempesta e, convinti che l’unico modo di impedire il naufragio fosse quello di alleggerire la nave, cominciarono a buttare fuori dalla finestra il mobilio di casa, con la gente accorsa per il chiasso ben felice di portarsi a casa tutto quel ben di Dio.

LE BEVANDE SPECIALI

Il vino poteva senza alcun dubbio giocare dei brutti scherzi, ma esistevano nella Roma antica altre bevande assai diffuse, alcune più economiche e dozzinali, altri decisamente più lussuose e di gran gusto.

Iniziamo dalla posca, una bevanda comunissima fra i contadini ed i soldati Romani, che usavano prepararla per dissetarsi in occasione di grandi sforzi sotto al sole: essa consisteva semplicemente in aceto diluito in acqua. Plutarco ci racconta che anche Catone il Censore, che si accontentava di semplice acqua durante il durissimo lavoro nei campi, chiedeva la posca quando sentisse la necessità non solo di dissetarsi, ma anche di recuperare le forze.

La posca non venne mai, in ogni caso, considerata una bevanda “da cena”. Nelle regioni in cui il vino era di qualità scadente o non era proprio reperibile, come ad esempio nelle zone mediorientali, il suo naturale sostituto era il vino di datteri, che si otteneva mettendo in acqua la polpa di datteri maturi e facendo fermentare il liquido.

Potevano anche essere preparati alcuni tipi di sidro di frutta, come ad esempio quello di pere o di mele cotogne citato da Plinio, sebbene essi venissero considerati più un medicinale che una bevanda vera e propria.

Molto apprezzato dallo stesso Plinio era invece l’idromele, bevanda alcolica che si otteneva mescolando in appropriate proporzioni acqua piovana e miele (due parti di acque e una parte di miele) e lasciando fermentare il tutto. Oggi tali proporzioni sarebbero decisamente sconsigliate, poiché il tenore zuccherino di una simile bevanda sarebbe altissimo.

Sempre col miele si confezionava l’oximele, nel quale ad un buon aceto si aggiungevano miele, sale marino e acqua piovana: anche in questo caso, però, i Romani lo consideravano prima di tutto un medicinale.

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I VINI PER GLI ANTIPASTI

Un discorso a parte deve essere fatto per i vini da consumare con gli antipasti, che erano sempre basati su un altro vino al quale si aggiungevano vari ingredienti, come ad esempio i fiori.

In Lidia, ad esempio, la popolazione addolciva il vino con il miele e vi metteva in infusione i fiori più odorosi, e nell’Antica Roma andavano di gran moda i vini “rosati” o “violaci”, profumati per l’appunto con rose o con viole.

C’era inoltre un aperitivo la cui ricetta aveva parecchi punti di contatto con quella del nostro vermouth: si chiamava “assenzio romano” e lo si produceva con un certo numero di ingredienti, fra cui una buona dose di foglie d’assenzio, lasciate in infusione in un vino molto alcolico.

Il miglior vino da bere all’inizio della cena era però, senza alcun dubbio, il mulsum, un vino mielato talmente tanto associato agli antipasti da aver dato a questi ultimi il nome latino di promulsis. Questo aperitivo si confezionava partendo dal mosto della prima spremitura delle uve del Falerno e del Cecubo, a cui si aggiungeva una certa quantità di miele attico, considerato il migliore in assoluto; quindi, dopo la fermentazione, il liquido veniva filtrato in anfore, che veniva riposte su un soppalco sopra al focolare in modo che fossero esposte al fumo. Trascorso un certo tempo, il contenuto acquisiva un leggero ma caratteristico gusto di fumo, che diventava la peculiarità principale del mulsum.

Il mulsum non era però alla portata di tutte le borse: pur appartenendo ad una storica famiglia romana, Appio Claudio si ritrovò in tali ristrettezze economiche da poter servire il vino mielato alla sua mensa solo dopo che il ricchissimo cognato Lucullo gli donò una cospicua somma di denaro.

Certo, il mulsum poteva anche essere sostituito con qualcosa di meno costoso e raffinato, mescolando sul momento vino e miele. Di certo il risultato non sarebbe stato il medesimo, ma poteva comunque essere una discreta soluzione di ripiego: quel che è certo è che il dosaggio per prepararlo doveva richiedere una notevole abilità, se lo stesso Marziale scrisse che, per renderlo accettabile, “sarebbe servita la mano dello stesso Ganimede, il coppiere degli dei”.

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