La cosmesi nell’Antica Roma

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LA COSMESI NELL’ANTICA ROMA

La storia della cosmesi nell’antica Roma deve necessariamente partire dall’Antica Grecia. Secondo Senofonte, portavoce di un’etica che a dir la verità oggi potrebbe essere definita maschilista, le donne avrebbero dovuto dedicarsi alla ricerca della “vera bellezza”, ossia quella interiore, “accompagnata da un sano moto domestico”, ossia rivolto alla cura della casa: secondo lo storico greco, ciò avrebbe senz’altro contribuito a far acquistare loro un colorito migliore!

I Romani, durante l’epoca repubblicana, furono eredi di questa visione severamente moralistica, arrivando a considerare come inaccettabile indice di licenziosità la cura del proprio corpo. Come in molti altri settori, anche in questo campo col passare dei secoli la visione mutò radicalmente, tanto che persino Ovidio arrivò a dire: “mentre hai cura di te, fai che il tuo amante ti pensi a letto addormentata e sola. Chiudi e sbarra la porta della tua stanza, per non mostrare l’opera ancora rozza ed imperfetta”.

Ovidio scendeva però anche nei dettagli più intimi, con un lessico non certo considerabile di forbita eleganza: “d’olezzo acre di capro non putisca mai la vostra ascella, di ispidi peli pungenti non sia mai dotata la vostra gamba, e che non riduciate i vostri denti neri per pigrizia, quando basta sciacquarsi la bocca ogni mattina”.

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L’ARTE DELLA COSMESI

Pur di apparire belle e desiderabili, quindi, le donne della Roma Imperiale si sottoponevano a pratiche letteralmente massacranti.

Gambe e ascelle si depilavano con una sorta di ceretta (psilothrum) a base di pece greca disciolta in olio, spesso addizionata con resine e profumi; l’opera veniva quindi rifinita con una sorta di pinzette (volsellae). Per l’igiene della bocca veniva invece usata una polvere a base di salnitro e bicarbonato di sodio. Le persone di classe più modesta perfezionavano il tutto sciacquandosi i denti con l’urina, mentre le più eleganti posizionavano sotto la lingua una foglia di malobatro, pianta esotica dall’essenza delicata adoperata spesso come base per raffinati profumi.

Certo, non tutti erano favorevoli a questi abbellimenti, e le malelingue erano sempre in agguato, come ad esempio Giovenale, che infieriva contro la vanità delle donne con frasi come questa: “perché mai una donna dovrebbe preoccuparsi di apparire bella nella propria casa? I profumi e gli unguenti si preparano per le adultere”. Le donne romane però non la diedero vinta ai propri detrattori e continuarono a truccarsi con modalità talmente tanto variegate da indurre il famoso medico Galeno ad interrogarsi sulla distinzione fra buona e cattiva cosmesi, vale a dire fra la cosmetica intesa come cura e pulizia del corpo e quella intesa come arte della contraffazione (il trucco, per l’appunto).

Alle donne Romane, però, tutti questi sofismi scientifici non interessavano. Le conquiste militari ed i commerci con popoli sempre più lontani facevano affluire a Roma una gran quantità di meraviglie, facilmente acquistabili nelle botteghe presso il Velabro: unguenti, profumi, sostanze aromatiche e vegetali, tinture per capelli. C’era anche la possibilità di acquistare dei capelli veri: neri e spessi se provenienti dall’India, biondi e sottili se provenienti dalla Germania.

Prima di procedere al trucco vero e proprio, però, le matrone più esigenti ricorrevano alle maschere di bellezza a base vegetale, i cui ingredienti vennero più volti citati da Ovidio: miele, orzo e lenticchie, con l’aggiunta di essenze di rosa o mirra e, per i casi eccezionali, anche composti organici come escrementi di uccelli (nello specifico, alcioni o martin pescatori). Le maschere erano suggerite anche da Galeno e Plinio, che consigliavano di adoperare materie prime animali provenienti da bovini, ovini, equini e cervidi: a seconda dei casi, si raccomandava di adoperare la placenta, il midollo, il sego, il latte e persino lo sterco.

Bisognava però essere molto attenti, poiché medicina, erboristeria, cosmetica e astrologia erano intimamente connesse: l’urina di asino, ad esempio, era considerata efficace solo se adoperata nel periodo della Costellazione del Cane!

UNA PELLE SPLENDENTE

Cerchiamo di esaminare ora le procedure da seguire per ottenere un trucco perfetto.

Si stendeva innanzitutto il fondotinta, usando uno strato di biacca mescolata a miele e oli grassi: la biacca più rinomata proveniva da Rodi e si vendeva in pastiglie o piccole tavolette. Chi desiderasse un colorito meno pallido poteva aggiungere alla biacca un moderato colorante, come la terra rossa di Selina o la feccia del vino, ossia il residuo depositato dopo la fermentazione: in questo secondo caso, per camuffarne l’odore, si poteva aggiungere l’iris di Illiria, che veniva usato anche come deodorante ascellare.

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A quel punto, per far risplendere la pelle, la si spolverizzava con dei lustrini grigio-azzurri, ottenuti dalla triturazione dell’ematite. Il contorno delle ciglia era sottolineato con un tocco di nero fumo, mentre sulle palpebre si passava l’ombretto, solitamente verde se ottenuto dalla malachite e azzurro se derivante dall’azzurrite.

Si stendeva quindi con un pennello un tocco di colorante sulle gote, le quali potevano essere anche ulteriormente abbellite con l’apposizione di un piccolo finto neo.

LE ACCONCIATURE NELL’ANTICA ROMA

“La maggior parte delle attività femminili si consuma nell’acconciare i capelli. Alcune donne, infatti, grazie a sostanze in grado di accendere le chiome del rosso del sole a mezzogiorno, cambiano colore ai capelli come fanno con le lane. Quante invece si appagano della loro chioma nera consumano il patrimonio dei mariti per poter effondere dai capelli quasi tutti i profumi d’Arabia. Strumenti in ferro, riscaldati dolcemente a fiamma bassa, costringono i capelli ad arricciarsi in boccoli”.

Ecco come le fonti antiche descrivono l’attività preferita dalle donne Romane, consistente nel tingersi i capelli non solo per nascondere i segni dell’avanzare dell’età, ma per il gusto di modificarne il colore. Le tinte più usate erano il biondo, il nero ed il rosso nelle più svariate tonalità, ma da utilizzare secondo ben precise consuetudini: il giallo carota ed il blu, ad esempio, erano i colori tipici delle cortigiane: flava coma (testa bionda) era infatti sinonimo di donna poco seria.

Per colorare i capelli di un biondo molto chiaro era necessario utilizzare tinture importate dalla Germania, come la spuma cattica o la batava. Dall’Egitto e dal Medio Oriente si importava invece l’hennè, un vegetale le cui foglie polverizzate ed opportunamente impastate servivano per colorare di rosso i capelli.

I riccioli si eseguivano col calamistrum, una canna di ferro cava riscaldata preventivamente sul fuoco, dentro la quale ne veniva infilata una seconda, su cui erano state avvolte le ciocche da arricciare.

Ovviamente, il continuo e ripetuto uso di tinture e arricciatori rendeva i capelli sempre più fragili, comportandone spesso la caduta. Anche in questo caso, però, Ovidio suggerisce la soluzione perfetta: la parrucca. “Ora la Germania ti manderà capigliature di schiave e tu sarai tranquilla per il dono di un popolo su cui celebrammo un trionfo”. Quella delle parrucche divenne una vera e propria moda, tanto che persino alcuni busti di marmo esposti nei musei presentano vere e proprie parrucche, sfilabili e all’occorrenza sostituibili: esempio eccezionale è quello conservato nella Sala degli Imperatori presso il Palazzo Nuovo dei Musei Capitolini (visitabile prenotando il Tour Musei e Gallerie di Rome Guides).

Lo strumento indispensabile era naturalmente il pettine, ad una o a doppia fila di denti contrapposti, a volte provvisto di astuccio: fatti con i materiali più vari, molti pettini recavano sull’impugnatura il nome della proprietaria. I pettini, assieme a spazzole, specchi, unguentari, piccoli contenitori per ciprie e fondotinta ed altri oggetti indispensabili per la cosmesi venivano riposti in scrigni e cofanetti, evoluzione romana delle famose ciste etrusche: alcuni di questi contenitori sono assolutamente grandiosi, come ad esempio lo Scrigno di Proiecta, ritrovato nell’ambito del celebre Tesoro dell’Esquilino ed oggi conservato al British Museum.

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LE PETTINATURE FAMOSE

L’acconciatura dei capelli richiedeva una notevole dose di abilità da parte delle ancelle, tanto erano complesse ed intricate molte pettinature: in qualche caso, poi, il desiderio di emulazione poteva portare anche a risultati discutibili, con conseguenze spiacevoli per le povere schiave.

Tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero, le pettinature erano relativamente semplici. L’acconciatura maggiormente diffusa era quella “a melone”, di derivazione greca: si creava una scriminatura centrale, con riccioli sulla fronte e sul collo ed una chiusura posteriore con crocchia o coda di cavallo.

A partire dalla fine della Repubblica si impose l’acconciatura soprannominata “alla Ottavia”, caratterizzata da un “nodo” frontale, punto di partenza per una serie di trecce che andavano a congiungersi in una crocchia. Essa venne così denominata perché fu la pettinatura preferita da Ottavia e Livia, rispettivamente sorella e moglie dell’Imperatore Ottaviano Augusto.

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Col passare degli anni, questa acconciatura subì una serie di varianti fino a giungere al tipo adottato in età giulio-claudia, in cui una scriminatura centrale divideva la massa dei capelli in due morbide bande arricchite da ricci e boccoli, con la crocchia sostituita da un piatto nodo lungo il collo. Andarono spesso acconciate in questo modo Agrippina Maggiore, moglie di Germanico, e Messalina, terza (e sciagurata) moglie di Claudio.

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Il tipo di pettinatura più diffuso (e forse più apprezzato) nell’Impero Romano è quello denominato “alla Giulia di Tito”, in cui veniva disposto intorno alla testa un alto toupet frontale di riccioli, che andava a formare un simbolico diadema: diffusissima dall’epoca di Nerone a quella di Traiano, questa pettinatura raggiungeva spesso notevoli dimensioni fino a costituire l’evoluzione più artificiosa nell’ambito delle pettinature romane.

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Un evidente revival delle forme classiche si ebbe con l’Imperatore Adriano. L’Imperatrice Vibia Sabina adottò un’acconciatura assai semplice, appena impreziosita da un elegante cerchietto, ben diverso dai massicci diademi di mezzo secolo prima.

Da questo momento non si registrarono consistenti cambiamenti fino a Giulia Mamea, madre di Alessandro Severo, che nel III secolo inaugurò la cosiddetta “pettinatura a elmo”, obiettivamente assai poco femminile e molto meno appariscente delle precedenti.

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I CONSIGLI DI PLINIO IL VECCHIO

Concludiamo questo articolo citando alcuni dei consigli “cosmetici” forniti da Plinio il Vecchio all’interno delle sue opere.

CONTRO LE RUGHE: “si ritiene che il latte d’asina elimini le rughe della pelle del viso e la renda morbida e bianca. Fu Poppea, la moglie dell’Imperatore Nerone, a inaugurare questa moda, facendone uso anche per il bagno, tanto da portarsi in viaggio intere mandrie di asine”.

CONTRO L’ACNE: “gli sfoghi di acne ed i brufoli sul viso si eliminano spalmandovi burro, meglio se mescolato con biacca”.

CONTRO LE RUGHE SUL COLLO: “l’astragalo di una giovenca bianca, fatto bollire per 40 giorni e 40 notti fino a che non sia ridotto in gelatina, e poi spalmato con un panno”.

CONTRO LE MACCHIE DEL VISO: “fiele di toro e di asino, temperato in acqua, evitando di esporsi al sole e al vento dopo che la pelle si sia distaccata”.

PER CURARE I LIVIDI: “polmone di ariete o di pecora tagliato in membrane sottili e applicato caldo assieme a sterco di piccione”.

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