La moda nell’Antica Roma

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LA MODA NELL’ANTICA ROMA

Affidandoci alle parole di Varrone per trattare la moda nell’Antica Roma, “un tempo la toga era l’abito comune sta per gli uomini che per le donne, dalla mattina alla sera”. Ciò avveniva però quando usi e costumi erano semplici, come lamentava Plinio: “Oggi si vanno a comperare le vesti in Cina, a cercare le perle negli abissi del mar Rosso e per di più si è inventato di bucar anche le orecchie: non bastava portare i gioielli al collo o fra le mani, dovevano essere conficcati anche nel corpo”.

Plinio scrive circa due millenni orsono, ma le sue parole appaiono di grande attualità. D’altronde l’abbigliamento, le acconciature dei capelli e la moda in generale non sono frutto di futili capricci, ma veri e propri fenomeni sociali, espressioni di una civiltà e di un determinato momento storico e politico. Basti in tal senso paragonare la compostezza della pettinatura di Livia, moglie di Augusto, alle complesse pettinature sfoggiate da Faustina Minore, moglie di Marco Aurelio, per comprendere lo specchio della diversità dei tempi e delle mutate condizioni dell’impero.

L’arte di imbellettarsi ed agghindarsi, già criticata da più parti ai tempi dell’Antica Grecia, non ha miglior fortuna ai tempi dell’Impero Romano: i moralisti vagheggiavano un ritorno all’antica dignità e parsimonia repubblicana contro il dilagare del lusso e della prosperità, apportatrici di corruzione e di licenziosità, e vennero emanati appositi editti censori (peraltro regolarmente disattesi) per limitare l’ostentazione del lusso.

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BARBA E CAPELLI

Il piacere di agghindarsi a dovere, che abbiamo esaminato nell’articolo precedente, non riguardava ovviamente solo le donne.

Fino al III secolo a.C., i Romani portavano capelli lunghi e barbe incolte. In epoca repubblicana, i contatti sempre più stretti con la Grecia favorirono il diffondersi dell’uso di radersi barba e baffi e la moda di portare capelli corti o totalmente rasati: un’acconciatura semplice e pratica, adatta ad ogni età.

Già verso la fine della Repubblica, però, divenne di moda, soprattutto fra i giovani, portare capelli ben acconciati e leggermente arricciati con il calamistrum, dettaglio che dette molto lavoro ai barbieri (tonsores) ed ai loro eleganti saloni di bellezza, che divennero il luogo d’incontro dei giovani patrizi che, secondo Seneca, “passano ore a disquisire sulla posizione di un ricciolo e amano più vedere il disordine nello Stato che nella loro capigliatura”.

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Se, all’inizio dell’Impero, i capelli erano ben acconciati e le barbe rasate, con l’avvento degli imperatori filoellenici (Adriano in primis) riappaiono le barbe lunghe e ricciute, in sintonia con nuove acconciature di capelli arricciati in studiati boccoli. È anche di moda avere i capelli biondi, tanto che ci fu chi si tinse e chi, come l’imperatore Commodo, fu persino solito cospargersi la testa con polveri d’oro.

I TESSUTI – LA LANA

L’abito, nell’Antica Roma, era un vero e proprio status symbol: i vestiti di lana erano di largo uso, mentre lino, seta e cotone erano riservati ai ricchi.

Le migliori stoffe di lana si producevano a Mileto e a Canosa di Puglia, mentre la Gallia Belgica era noto per la produzione di lane grezze e pesanti, adatte ai climi rigidi.

La lana tinta, in effetti, costava assai poco, dai 2 ai 4 assi per una libbra. Secondo Varrone, la tosatura delle pecore doveva avvenire tra il 21 marzo ed il 22 giugno, ovvero tra l’equinozio di primavera ed il solstizio d’estate, e di preferenza con la luna calante.

Dopo la tosatura, la lana veniva lavata dal lanilutor per togliere l’esipo, ovvero l’untume del vello delle pecore, che si eliminava risciacquando più volte la lana in acqua calda e poi aggiungendo sostanze detergenti come l’urina. L’acqua della sciacquatura veniva poi lavorata dalle fabbriche cosmetiche per preparare la lanolina, efficace, secondo Plinio, contro le ulcerazioni della pelle e contro le macchie del viso “se mista all’aspro miele di Corsica”.

Dopo il lavaggio e l’asciugatura, la lana veniva cardata con scardassi di ferro o con spazzole di aculei di porcospino. La lana veniva poi filata con il fuso e tessuta sui telai, sia nelle officine tessili che nelle case private, dove ogni giorno era la padrona, secondo l’antica tradizione, a stabilire la quantità di lana da filare: d’altronde, così come nella Roma dei re la toga di Servio Tullio era stata filata e cucita dalla moglie Tanaquilla, così anche Augusto portava solo abiti confezionati dalle donne della sua famiglia. I filosofi stoici erano infatti soliti ripetere che filare e tessere fossero le incombenze principali di ogni donna, simbolo delle sue virtù e della sua dedizione alla famiglia, tanto che presso la sola raffigurazione del telaio è sufficiente a decantare le virtù della defunta (come nel caso della Stele di Turia).

Già verso la fine dell’età repubblicana, però, questa antichissima tradizione cominciò a decadere, soprattutto nell’alta società, e si iniziarono a preferire gli abiti confezionati nelle officine tessili (textrinae), assai diffuse nelle varie città: si pensi che nella sola Pompei ne sono state scavate ben cinque.

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La tintura della lana poteva avvenire prima o dopo la tessitura nelle officine che tingevano la lana grezza o le stoffe nuove già tessute, mentre gli offectores erano specializzati nel restituire la tinta originaria agli abiti e alle stoffe stinte dall’uso. In una tintoria di Pompei, posta nei pressi del quartiere industriale, sono state trovate ben 150 tazze ancora piene di colori già stemperati.

A volte però venivano tinti direttamente i velli delle pecore, ancor prima della tosatura, tanto che Plinio narrava di intere greggi di pecore tinte di porpora e di scarlatto, come se il lusso le avesse costrette a nascere già così colorate.

I TESSUTI – IL LINO E LA SETA

Il lino veniva prodotto in Egitto fin dalle età più antiche, ed esso veniva importato anche in Italia come merce di pregio. La produzione egiziana comprendeva ogni variante, dal finissimo bisso alle tele grossolane, mentre le famose tele grezze, che venivano utilizzate per confezionare le vele, erano preferibilmente prodotte in Spagna.

Nel frattempo, però, andava diffondendosi un tessuto leggerissimo che, secondo Plinio, faceva sembrare nude le donne. Stiamo ovviamente parlando della seta, che attorno al III secolo a.C. iniziò ad essere importata dalla Cina, sia come filato che come stoffe già tessute. La produzione da esportare in Occidente partiva dalla Siria ed in particolare da Tiro, dove si trovavano numerose ed importanti industrie che, oltre a tessere le sete, provvedevano anche a tingerle con la porpora grazie alla vantaggiosa opportunità di reperire a poco prezzo il mollusco (murex) da cui si estraeva il prezioso colore.

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Per molti secoli i Cinesi custodirono gelosamente il segreto sull’origine di questo nuovo tessuto che stimolava l’interesse degli occidentali, tra cui Aristofane, il quale riteneva che il filato si ricavasse dagli escrementi di un baco durante le metamorfosi dello stesso. Il segreto fu svelato solo ai tempi di Giustiniano, allorquando due monaci portarono in Occidente uova e bozzoli di bachi e notizie sui procedimenti per la produzione del filato.

In breve tempo Giustiniano installò a Costantinopoli allevamenti di bachi per la produzione delle stoffe, sottraendo ai mercati orientali l’egemonia su tale costosissimo prodotto. Il prezzo di un chilo di seta grezza, fissato da un editto del 301 d.C., era di 4000 monete d’oro: una vera fortuna, tanto che perfino l’imperatore Aureliano osò negare alla moglie l’acquisto di un mantello di seta color porpora.

A causa dell’alto costo, la seta pura non era un tessuto molto diffuso: lo dimostrano le cronache del tempo, che narravano di come Caligola portasse la clamide di seta o di come Eliogabalo indossasse solo tuniche di seta, proprio per identificare tali eventi come eccezionali.

L’ABBIGLIAMENTO – LA TOGA

Il capo fondamentale nell’abbigliamento del cittadino romano era la toga. Nelle età più antiche era assai simile alla trabea etrusca: un semplice rettangolo di tessuto che scendeva poco al di sotto del ginocchio e veniva avvolto una sola volta intorno al corpo, mentre il lembo finale, appoggiato su una sola spalla, era trattenuto da una fibula. Essa era rigorosamente di lana bianca, fuorché nei casi di lutto privato.

Col passare del tempo filatura, tessitura e confezionamento vennero eseguiti nelle officine specializzate e nuovi telai, di maggiori dimensioni, consentirono di ottenere stoffe più ampie e più fini. Allora le toghe divennero più morbide e fittamente drappeggiate, con una lunghezza decisamente maggiore, pari a tre volte l’altezza: si parla in tal senso di toga fusa (toga ampia), in contrapposizione alla toga restricta dell’età repubblicana, dal panneggiamento assai ridotto.

Il modo di arrangiare la toga sul corpo, descritto meticolosamente da Quintiliano, era assai complesso. Solitamente il vestiplicus, lo schiavo addetto all’abbigliamento del padrone, aiutava a disporre sapientemente le pieghe per creare l’ampio sinus, che dal braccio sinistro scendeva fino ai piedi, ed un secondo sinus detto balteus, che dalla spalla scendeva fino ad oltre il ginocchio.

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La toga praetexta, bordata da una fascia di porpora, era l’abito riservato a dittatori, sommi magistrati, consoli, pretori, edili e ad alcuni sacerdoti. La indossavano anche i fanciulli fino all’età di 17 anni, quando, in una solenne cerimonia che significava l’avvento della maturità, iniziavano a vestire la toga bianca e senza ornamenti.

La toga picta o palmata, che poteva avere qualsiasi colore e che era ornata di ricami in oro a forma di palma, fu durante tutta l’età repubblicana una prerogativa riservata ai consoli che celebravano un trionfo. Con l’avvento dell’impero, però, l’usanza andò estendendosi anche ai consoli e ai pretori durante la celebrazione dei ludi circensi.

Come biancheria intima da indossare sotto la toga, si usavano solo delle braghe, formate da un’unica striscia di stoffa passata tra le gambe e poi fermata sui fianchi, detta subligaculum. Talvolta si portava anche una camicia di lino, detta tunica interior.

La toga, sia per la complessità che il rito della vestizione prevedeva sia per la scarsa praticità nell’indossarla, decadde dall’uso quotidiano, pur rimanendo l’abito tradizionale degli uomini liberi di un certo rango: con il termine civis togatus si intendeva infatti simboleggiare la dignità dell’individuo, in contrapposizione al tunicatus populus con cui si soleva indicare il popolino.

L’ABBIGLIAMENTO – LA TUNICA

La tunica era un indumento più comune e più pratico, indossato come unica veste dal popolo e solo come sottoveste della toga dagli uomini di rango. Narra Svetonio che Augusto, cagionevole di salute, “non tollerava bene né il caldo né il freddo, e d’inverno si riparava con una grossa toga e quattro tuniche, come le donne”.

Composta da due rettangoli di stoffa di lana o di lino cuciti assieme e con un foro per la testa, la tunica veniva trattenuta in vita da una cintura che ne calibrava la lunghezza: andare in giro discinti, ovvero senza cintura, era considerato contrario alle buone regole.

In origine la tunica non aveva vere e proprie maniche, ma le braccia erano ugualmente coperte dalla ricchezza della stoffa che scendeva in pieghe dalle spalle.

Il latus clavus, la larga banda di porpora posta sul davanti della tunica in senso verticale, costituiva il decoro riservato ai senatori, mentre l’angustus clavus, una doppia fascia ugualmente purpurea ma di minor spessore, era distintiva dell’ordine equestre. Successivamente, tali decorazioni non costituiranno più un segno distintivo del rango sociale, ma potranno essere indossate solo da chi potesse permettersi l’acquisto della costosissima porpora di Tiro.

L’introduzione di nuove mode, inizialmente considerate sconvenienti, portò alla tradizione di indossare tuniche riccamente ornate, anche grazie ai rapporti sempre più frequenti con i mercanti stranieri. Secondo Svetonio, “Caligola usava un abbigliamento che non aveva nulla di romano e nulla di virile. Indossava spesso mantelli ricamati e coperti di gemme sopra tuniche con lunghe maniche, e a volte portava pantofole da donna”.

Col passare del tempo, però, anche tali eccentricità divennero di uso corrente.

L’ABBIGLIAMENTO – IL MANTELLO

Come sopraveste della tunica generalmente si usava la toga, ma nel corso dell’Impero Romano essa fu sostituita dal pallium, formato da un taglio di lana di forma quadrata che veniva appoggiato sulla spalla sinistra e dalla quale scendeva per avvolgere il corpo.

Per ripararsi dal freddo, sopra la toga o la tunica, I Romani erano soliti indossare mantelli con cappuccio, il più noto dei quali era la lacerna, un corto mantello di lana fermato sotto il mento o sulla spalla da una fibbia. Nata inizialmente come rozza copertura, durante l’impero iniziò ad essere confezionata con lane morbide multicolori e fu impreziosita da frange e ricami, tanto da avere larghissima diffusione e divenire una delle sopravesti più usate dal ceto borghese.

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In alternativa si usava la più pratica paenula, priva di fermagli e formata da un taglio di lana di forma circolare, talmente ampio da giungere fino alle ginocchia, fornito di un foro al centro attraverso cui far passare la testa.

Tra i mantelli più celebri, una menzione d’onore spetta alla caracalla, un lungo pastrano con cappuccio importato dai Galli, che diede il soprannome al famoso imperatore Romano, che ne introdusse l’uso soprattutto tra i militari.

L’ABBIGLIAMENTO FEMMINILE

Come biancheria intima, le donne romane indossavano la fascia pectoralis, una sorta di reggiseno che, a detta di Ovidio, “è bene sia imbottito se il seno è troppo piccolo” e le mutandine (subligar) che lasciavano scoperto l’ombelico. Così abbigliate, le donne facevano anche bagni ed esercizi ginnici presso le terme.

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Come sottoveste le donne romane indossavano una tunica intera in lino e come veste vera e propria la stola, con o senza maniche, lunga sino ai piedi e arricchita da molte pieghe.

L’abito poteva essere completato da una cintura in vita, che come diceva Ovidio “sottolineava le rotondità dei fianchi”, e da una seconda fascia posta sotto il seno per evidenziarlo.

Per mostrarsi in pubblico, le matrone indossavano anche la palla, un ampio mantello di stoffa molto leggera da drappeggiare liberamente intorno al corpo e sul capo, o il ricinum, un mantello di tela leggera che copriva spalle e braccia e giungeva fin sui talloni.

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I colori venivano scelti e abbinati con gusto; preferiti erano il bianco e le tinte pastello per le giovani, le tinte neutre ed il rosso porpora per le più anziane. Già nel I secolo a.C., però, il famigerato Ovidio sconsigliava vesti pesanti di lana tinta di porpora e decorate in oro, perché ormai già passate di moda, anche se qualche antiquata matrona continuava ad usarle.

CAPPELLI E ALTRI ACCESSORI

I personaggi di alto rango non usavano cappelli, sebbene potessero all’occorrenza, specialmente durante le cerimonie, coprirsi il capo con un lembo della toga. Solo il popolino usava i copricapi, ed in particolare il pileus, un berretto in pelle o in feltro ben calzato sulla testa; le cronache antiche narrano che anche Nerone usasse il pileus quando, subito dopo il crepuscolo, “andava in incognito in giro per le bettole e vagava nei vari quartieri folleggiando”.

Per coprire il capo durante le funzioni religiose o durante i sacrifici, le donne usavano scialli e ampi fazzoletti, spesso ornati da frange, mentre quando uscivano di casa preferivano lasciar scivolare sulla testa un lembo della palla. Nelle occasioni più eleganti, o forse quando non si sentivano adeguatamente pettinate, erano solite porre sulla testa dei veli trattenuti da diademi o più semplicemente da cerchietti.

L’abbigliamento femminile era completato da altri accessori quali borsette in pelle, in stoffa o anche in paglia, e talvolta da un ombrellino parasole, portato dalla schiava o dall’accompagnatore, e da un ventaglio confezionato con foglie di loto o con penne di pavone.

LE CALZATURE

Un articolo sulla moda nell’Antica Roma non può ovviamente prescindere dalle calzature. Tra le calzature usate indifferentemente sia da uomini che da donne erano i calcei, scarpe chiuse in pelle a forma di corto stivaletto, formate da una tomaia con quattro stringhe, che si avvolgevano al collo del piede e intorno alla gamba.

I più eleganti erano ornati con la lunula, una fibbia a forma di mezzaluna, solitamente in avorio o in argento, in origine riservata al calceus patricius ma in età imperiale ornamento di ogni calzatura elegante. Solo gli alti dignitari avevano il diritto di indossare calzari particolari, come il calceus senatorius di colore nero.

Riservato alle donne, e rimasto in uso in molte parti d’Europa sino al tardo Medioevo, era il calceus repandus, di derivazione orientale e già in uso presso gli Etruschi, con larga punta ricurva in su.

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In casa si usavano i sandali, formati da una suola di cuoio o di sughero, trattenuta da striscette di pelle. D’altronde, calzare in casa le stesse scarpe indossate per la strada era considerato contrario alle buone regole; allo stesso modo, era sconveniente indossare i sandali per uscire di casa o sotto la toga, soprattutto se si era un magistrato. Ciò ovviamente non comportava alcun dileggio nel caso in cui fosse una necessità, come nel caso dell’Imperatore Galba che, a detta di Svetonio, “era costretto a indossare i sandali in pubblico perché aveva i piedi gravemente deformati dall’artrite e non riusciva a sopportare i calcei”.

Poveri, schiavi e contadini portavano zoccoli in legno (sculponea), mentre i soldati indossavano le caligae, sandali formati da strisce di cuoio con suola rinforzata da chiodi appuntiti. Germanico, durante una campagna militare sul Reno, portò con sé il proprio figlioletto vestendolo come un piccolo soldato; dopo aver visto le piccole caligae che calzava, i veterani lo soprannominarono Caligola.

Riservati alle donne erano i socci muliebres, ciabattine senza stringhe da indossare in casa: mentre in Grecia tali calzature domestiche erano usate da entrambi i sessi, nell’Antica Roma esse potevano essere indossate solo da donne ed attori comici. L’uomo in pantofole veniva infatti considerato un effeminato.

2 pensieri su “La moda nell’Antica Roma

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