ALBERTO BURRI – IL MAESTRO DELLA FORMA
Nella prima metà del Novecento, Paul Klee lo scrisse chiaro e tondo: “La creazione vive già sotto la superficie visibile dell’opera. A ritroso, riescono a vederla tutti gli intellettuali. In avanti nel futuro, però, la vedono solamente gli artisti”.
La carriera di Alberto Burri, nato a Città di Castello nel 1915 e divenuto il più radicale interprete della pittura informale a dispetto della sua laurea in medicina, sembra confermare queste parole profetiche. Per realizzare le sue opere Burri ha utilizzato, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi, le più vili materie quotidiane: dal catrame alla muffa, dai sacchi di juta alla pomice, dal legno al ferro e persino al fuoco. Burri può essere considerato il pittore della materia per antonomasia.
L’IMPORTANZA DELLA FORMA
Eppure, per tutta la sua vita, Burri continuò incessantemente a ripetere che i materiali non fossero di certo l’elemento più importante della sua poetica, e che l’unica cosa ad interessarlo davvero fosse la forma: una volta, in una celebre intervista, disse che “forma e spazio sono le uniche qualità essenziali che contano davvero”.
È per questo, con ogni probabilità, che le sue composizioni rispettano la canonica forma del quadro, restando sempre squisitamente “pittoriche”: esse sono sempre caratterizzate da un’attenzione per i rapporti tonali che è ancor più stupefacente se si pensa che è legata ad un artista che si è espresso esclusivamente con materiali poveri e non artistici. Fu lo stesso Burri a spiegare la sua scelta, affermando di averli scelti “per dimostrare che potevano essere ancora utili. La povertà dei materiali, d’altronde, non è un simbolo, ma un pretesto per dipingere”.
Per molto tempo, solo in pochi furono in grado di comprendere la portata delle sue invenzioni: le sue opere scandalizzarono un’Italia ancora un po’ provinciale e perbenista che era uscita con le ossa rotte dalla guerra, con la neonata Repubblica ancora lontana da quel boom economico che si sarebbe materializzato solo quindici anni dopo. Era ancora l’Italia raccontata da Fellini, De Sica e Pasolini in modo allo stesso tempo realistico e poetico nei loro Ladri di Biciclette, Miracolo a Milano e La Dolce Vita.
Non c’è quindi troppo da meravigliarsi se, in un’Italia artisticamente divisa fra i fautori della pittura figurativa ed i sostenitori dell’astrazione, le opere presentate da Burri alla Quadriennale di Roma del 1955 ed alla Biennale di Venezia del 1958 vennero ritenute un vero e proprio oltraggio. Anche nei casi più moderati, tali lavori fecero molto rumore nel bel mezzo di un universo artistico che avrebbe riscoperto Burri (come spesso è accaduto in questo settore) solo quando altrove, e specificamente in America, l’artista era ritenuto un vero e proprio genio.
Nel 1954, a Roma, l’impatto non fu invece affatto positivo. Quando la Galleria Nazionale di Arte Moderna espose un suo Sacco, scoppiò il finimondo contro l’artista e contro la Direttrice della Galleria, quella Palma Bucarelli che dovette persino difendersi dinanzi alle interpellanze parlamentari presentate contro l’opera di Burri (al termine dell’articolo potrete ammirare il video di una famosa intervista a Palma Bucarelli, in cui la Direttrice parla proprio di questa incresciosa situazione).
Qualcuno si precipitò persino all’Ufficio d’Igiene per sporgere una risibile denuncia, come se quei brandelli di vecchi sacchi, strappati e ricuciti, che avevano contenuto la farina e lo zucchero portati dagli Americani con la Liberazione, potessero dieci anni dopo nascondere qualche subdola epidemia.
LA FORTUNA DI BURRI NEGLI STATI UNITI
Per fortuna dell’artista, le cose andarono in modo molto diverso. Fin dal 1953, anno in cui Burri venne scoperto dal direttore del Museo Guggenheim di New York, James Johnson Sweeney, l’artista italiano fu sempre stimatissimo. Anche negli Stati Uniti, però, le opere di Burri andarono incontro a qualche spiacevole inconveniente, seppur non certo a livello di gradimento artistico: la prima volta che esse arrivarono fra le mani delle Autorità Doganali statunitensi, queste ultime non le tassarono come arte ma bensì, come riportano in modo asettico i documenti dell’epoca, come “vegetable matter”.
A parziale giustificazione dei doganieri americani, c’è da precisare che Burri non si affannò mai particolarmente nello spiegare la sua poetica: nella sua mente, esse erano opere che non si potevano commentare, poiché rifiutavano per loro stessa natura di essere convertite in altre forme espressive. Erano pittura, punto e basta.
Neppure i titoli assegnati erano d’aiuto, perché lo stesso Burri affermava spesso di non voler dare allo spettatore alcun suggerimento di come l’opera potesse essere interpretata: alle sue opere veniva spesso dato il nome del colore (Rosso, Bianco, Nero) e/o del materiale utilizzato (Sacco, Legno, Ferro, Plastica) e/o l’aspetto del quadro o l’intervento effettuato (Cretto, Combustione).
I SEGUACI DI BURRI
In realtà, esattamente come aveva previsto Paul Klee, furono gli artisti i primi a comprendere Burri fino in fondo, arrivando a seguirne le orme in mille modi diversi. Obiettivamente, è difficile trovare un altro artista italiano del Dopoguerra che abbia esercitato un’influenza altrettanto profonda sull’arte internazionale della seconda metà del XX secolo. Burri, con i suoi materiali grezzi che tagliava, cuciva e bruciava ispirò l’arte povera e gli assemblage neodadaisti, mentre con i timbri e le scritte stampate lasciate in bella vista sui suoi Sacchi precorse le invenzioni dei maestri della Pop Art.
Lo straordinario successo artistico di Burri si riflesse inevitabilmente anche sulle sue quotazioni. Nel 1989, quando l’artista era ancora in vita (morirà a Nizza nel 1995), un Sacco del 1952 denominato Umbria Vera fu aggiudicato per 3,5 miliardi di lire: in quegli anni, nessun artista italiano del Dopoguerra poteva vantare valutazioni di queste entità.
UN LIETO FINE DETTATO DALLA SOFFERENZA
Quella di Burri sembra la classica favola artistica a lieto fine, ma fu la sofferenza ad incidere con forza lo spirito dell’artista. La prigionia durante la guerra ebbe infatti un ruolo decisivo nell’elaborazione della sua estetica: è lì, in quelle celle, che sono nate le più ardite sperimentazioni di Burri. Nella degradazione di un campo d’internamento in Texas, infatti, la penuria di materiale artistico lo aveva costretto ad ingegnarsi: molti anni dopo, in un’intervista, Burri raccontò che in quel periodo dipingeva anche 14 ore al giorno, e che per farlo dovette cominciare ad usare come supporto i sacchi che trovava in cucina.
Fu proprio in quel luogo di dolore che Alberto Burri scoprì la nobiltà degli elementi più umili, come il catrame e il dentifricio, grazie ai quali riuscì a portare a compimento tanti suoi quadri anche quando finiva la pittura nera o quella bianca.
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