Le strade nell’Antica Roma (1/3)

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LE STRADE NELL’ANTICA ROMA

Nell’elogio di Appio Claudio, collocato sotto la statua che Augusto aveva fatto erigere nel suo Foro insieme a quelle degli uomini illustri della storia di Roma, poche righe menzionavano le principali benemerenze del personaggio: “Egli conquistò molte città ai Sanniti, distrusse l’esercito dei Sabini e degli Etruschi, rifiutò la pace col re Pirro”. Tra tali elogi, c’era anche una frase particolarmente significativa: “durante la Censura, costruì la via Appia”: ciò indica come, per i Romani, l’apertura di una strada avesse la stessa rilevanza di vittoriose imprese militari e di importanti iniziative politiche, tanto da risultare degna di essere ricordata ai posteri.

Non a caso, del resto, quello delle costruzioni stradali era un compito riservato durante la Repubblica agli alti magistrati e persino agli stessi Imperatori durante l’impero, mentre la consuetudine di attribuire ad ogni nuova strada il nome di colui che l’aveva aperta serviva a sottolineare un merito indiscusso ed a perpetuarne nel tempo il ricordo. Ce lo conferma un brano di Diodoro Siculo il quale, sempre a proposito di Appio Claudio, scriveva: “Pavimentò poi con solide pietre la maggior parte della via Appia alla quale dette il suo nome e che andava da Roma a Capua per una lunghezza di più di mille stadi. Poiché dovette fare scavi in luoghi elevati e livellare valli e gole, spese l’intero reddito dello Stato. Ma, essendosi preoccupato soltanto del pubblico interesse, ha lasciato a commemorarlo un monumento imperituro”.

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Il concetto di “monumento”, intenso nel senso di testimonianza e di ricordo, è oggi estensibile all’intero complesso delle strade costruite dai Romani, che nel loro insieme costituiscono appunto il più importante e duraturo “monumento della romanità”: al tempo di Diocleziano, questo lavoro colossale era composto da 372 strade, per una lunghezza complessiva di 53000 miglia (pari a circa 80000 chilometri). Fu un capolavoro straordinario non solo a livello di tecnica, ma anche di lungimiranza e concretezza, di capacità organizzativa e di efficienza amministrativa.

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IL SISTEMA STRADALE

I Romani non furono certamente i primi a costruire grandi strade. Ce ne erano di ottime nell’Egitto dei Faraoni e nella Persia degli Achemenidi; lo stesso Alessandro Magno ne trovò di assai pregevoli in India. Quello che fecero i Romani, al di là delle novità tecniche e organizzative, fu di realizzare un vero e proprio “sistema stradale”, capillare ed organico, che con le sue trame riuscì ad abbracciare ogni lembo del vasto Impero avvolgendolo in un’immensa e fittissima rete.

UN UTILIZZO VARIEGATO

A differenza poi di gran parte delle scelte precedenti, le strade romane non furono riservate allo spostamento degli eserciti o allo sviluppo dei traffici commerciali, ma furono create con lo scopo di essere letteralmente pubbliche, ossia aperte a tutti, senza esclusioni o privilegi, libere da pedaggi, al servizio delle città e delle campagne. In tal senso, è fin troppo facile ricordare i tanti editti che ripetutamente ne ribadirono il loro libero uso e che ne vietavano l’occupazione abusiva e la limitazione del pubblico uso.

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È chiaro che, almeno all’inizio della civiltà romana, le grandi strade furono costruite principalmente per assolvere a funzioni strategiche, cioè per facilitare l’accessibilità ed il controllo dei territori progressivamente conquistati e sottomessi, nonchè per collegare rapidamente Roma con le sue colonie. Altrettanto ovviamente, non mancarono le strade costruite per esigenze strettamente militari, al fine di preparare una spedizione o una campagna, come quelle costruite dai soldati in Gallia con Agrippa, in Dalmazia con Tiberio, sul Reno sotto Claudio e in Dacia con Traiano.  

Fin dall’epoca repubblicana, però, sorsero importanti eccezioni: si pensi da un lato alla costruzione della Via Flaminia, aperta nel 220 a.C. da Gaio Flaminio in concomitanza con iniziative di politica agraria per la distribuzione di terre nell’agro piceno, e dall’altro alla promulgazione nel 125 a.C. della legge da parte del Tribuno della Plebe Caio Sempronio Gracco, avente lo scopo di facilitare le comunicazioni con i territori lontani dalla Capitale pure legati alle assegnazioni ai contadini.

Anche le strade militari, però, modificavano la propria funzione una volta conquistato il territorio, divenendo al tempo stesso strumento di penetrazione commerciale, supporto all’occupazione e alla valorizzazione delle terre, premessa alla nascita di centri abitati o condizione del loro sviluppo, fattore di arricchimento e di prosperità. Esse svolsero un ruolo determinante per la «romanizzazione» di territori anche lontani, per la diffusione del latino come lingua comune e per l’unificazione materiale, spirituale e culturale del vasto mondo romano; lungo le strade, infatti, assieme ai soldati e ai mercanti, circolavano uomini e donne di ogni condizione e ceto sociale, ma anche idee, influenze artistiche, dottrine filosofiche e religiose e nuove mode.

Proprio per questo, Plinio scriveva: “La potenza di Roma ha dato unità al mondo. Tutti debbono riconoscere i servigi che essa ha reso agli uomini facilitando le relazioni ed i rapporti e consentendo loro di usufruire in comune dei benefici della pace. C’è qualcosa di più meraviglioso che assistere a questo scambio perenne tra le diverse parti del mondo?”.

VIE DI TERRA E VIE DI ACQUA

Questo bel pensiero filosofico si basava non solo su una rete stradale capillare ed efficiente, ma anche su una sua perfetta integrazione in un sistema di comunicazioni più elaborato, che comprendeva anche le vie del mare e dei fiumi e che funzionava in modo perfetto grazie al raccordo fra itinerari terrestri e rotte marittime. Si pensi che, per chiunque temesse il mare o in caso di stagione invernale, persino le comunicazioni tra Roma e l’Egitto erano assicurate in gran parte per via di terra, con le sole eccezioni delle insostituibili brevi traversate del Canale d’Otranto e dell’Egeo.

LA MANUTENZIONE DELLE STRADE

Sulla base di quanto appena precisato, potrebbe apparire persino superfluo sottolineare come, in considerazione delle loro finalità e per le loro stesse caratteristiche, la costruzione, la manutenzione e la gestione delle strade e delle infrastrutture ad esse connesse abbiano sempre costituito un settore di massima responsabilità e di notevole impegno della pubblica amministrazione.

In Età Repubblicana, la costruzione delle strade fu affidata di norma ai Consoli e ai Pretori, cioè a quei magistrati che esercitavano lo ius publicandi, ossia la facoltà di espropriare terreni e possedimenti privati per uso pubblico. Solo in casi eccezionali, e verosimilmente quando tutto il terreno necessario era già di proprietà demaniale (solum publicum), la realizzazione di una strada poteva essere affidata ai censori, come fu per la via Appia che, nel suo primo tratto da Roma a Formia, fu creata su territori interamente appartenenti al demanio.

Una volta costruita, la strada passava all’amministrazione degli Edili; con il progressivo sviluppo esponenziale della rete viaria, però, divenne necessario affidare la cura delle strade a degli appositi funzionari (curatores viarum), come testimoniato ad esempio dall’iscrizione incisa nel 62 a.C. sul Ponte Fabricio a Roma, che menziona proprio il curator viarum Lucius Fabricius.

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In Età Imperiale, furono direttamente gli imperatori a provvedere alla costruzione delle strade, le quali continuarono poi ad essere affidate ai curatores dopo che Augusto ebbe istituzionalizzato l’ufficio della cura viarum, la cui direzione assunse egli stesso nell’anno 20 a.C. L’incarico, conferito di norma ad ex magistrati, aveva durata variabile (da un minimo di un anno fino a dieci) e le competenze erano limitate ad una sola strada o a gruppi di strade, come si deduce dagli appellativi che nelle iscrizioni accompagnano il nome (Curator Appiae, Curator Flaminiae, ecc.).

Le strade di minore importanza nei diversi territori dell’impero erano invece poste sotto la cura dei Governatori delle Province.

NORMATIVA E FINANZIAMENTI

Per quel che riguarda gli aspetti più propriamente amministrativi e legislativi, le informazioni giunte sino a noi sono parziali e frammentarie: anche della già citata legge viaria di Caio Gracco è giunta a noi soltanto la doppia citazione di Plutarco e di Appiano.

Lo stesso si può affermare a riguardo della componente finanziaria, a proposito della quale si sa che durante la Repubblica i costi per la costruzione e la manutenzione delle strade gravavano sull’erario e che i fondi necessari dovevano essere attinti dal fisco, ossia dalla dotazione dello stesso magistrato che ne assumeva l’iniziativa. Peraltro sembra evidente che, per le opere più importanti, probabilmente il magistrato incaricato usufruisse di speciali “aperture di credito” da parte del Senato.

In Età Imperiale, accanto agli interventi diretti del fisco imperiale, si ricorreva frequentemente ai contributi privati, soprattutto di associazioni e corporazioni locali. Specie nel caso di opere di manutenzione e di miglioria, si diffuse presto la consuetudine (che divenne progressivamente una sorta di regola praeter legem) di esigere tali contributi, anche rilevanti e spesso sotto forma di prestazioni di lavoro, ai proprietari dei fondi interessati al passaggio delle strade.

LA CLASSIFICAZIONE DELLE STRADE

In Età Imperiale, i Romani avevano stilato una vera e propria classificazione delle strade, utile soprattutto dal punto di vista giuridico: le leggi dovevano quindi riguardare anche il tema della viabilità, definendo modi di utilizzazione e norme di comportamento.

La classificazione contemplava:

  • le Viae Militares, di permanente interesse strategico;
  • le Viae Publicae (dette anche Praetoriae o Consulares), ossia le normali strade di grande comunicazione;
  • le Viae Vicinales, strade di interesse locale o di raccordo tra le vie pubbliche;
  • le Viae Privatae, prevalentemente d’accesso a terreni di proprietà privata (in questo caso dette anche Viae Rusticae) e quindi d’uso riservato a coloro che le avevano fatte costruire a proprie spese.

Esisteva anche un’ulteriore classificazione delle strade romane, basata sulle caratteristiche tecniche e in particolare sul tipo della pavimentazione, ma parleremo di ciò in un prossimo articolo del nostro blog.

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LA TECNICA COSTRUTTIVA DELLE STRADE

Contrariamente a quello che ci si aspetterebbe, vista l’importanza dell’argomento, non abbiamo notizie dell’esistenza, nella letteratura tecnica dei Romani, di alcun trattato d’ingegneria stradale, né di qualche lunga e circostanziata descrizione di un’opera viaria. Questo ci priva della possibilità di conoscere per via diretta non soltanto i molteplici aspetti particolari della tecnica delle costruzioni stradali ma anche il complesso sistema con cui gli ingegneri romani affrontavano l’arduo compito di costruire strade, sperimentato e perfezionato nel corso di svariati secoli di pratica attuazione.

Più concretamente, la carenza di fonti ufficiali ci obbliga a ricostruire le modalità con cui i Romani procedevano nelle varie operazioni sul terreno, dai rilevamenti preliminari alla delineazione del tracciato, dalla costruzione delle massicciate alla pavimentazione. Oltre a ciò, è necessario elaborare i meccanismi inerenti l’organizzazione del lavoro, gli strumenti e i mezzi tecnici, le suddivisioni delle competenze e delle specializzazioni.

L’unica eccezione nel grande silenzio delle fonti antiche è costituita da un brano di un’opera poetica composta nel I secolo d.C. da Papinio Stazio, che in sedici versi descrive sinteticamente i lavori per la costruzione della Via Domitiana, commissionata dall’Imperatore Domiziano nei pressi di Pozzuoli. A quei lavori il poeta dovette assistere personalmente, tanta è la cura con la quale ne riferisce i particolari: la delineazione dei solchi di delimitazione della carreggiata, lo scasso del terreno, il getto delle fondazioni e la posa in opera del selciato, fino ad esaltare il lavoro di boscaioli e taglialegna, cavapietre e carpentieri.

Si tratta però pur sempre di poesia, con tutti i limiti inerenti al suo genere. Si deve perciò concludere che la maggior parte delle nostre conoscenze relative all’ingegneria stradale romana deriva dallo studio delle testimonianze materiali che sono giunte fino a noi (fortunatamente, in numero copioso), che ha permesso di stilare una serie di costanti e caratteristiche generali, a dispetto dell’evidente grande diversità delle situazioni.

LE CARATTERISTICHE DELLE STRADE ROMANE

Le peculiarità specifiche e qualificanti delle strade romane possono essere più o meno appariscenti.  Restando nell’ambito della viabilità maggiore, le principali possono essere indicate nella linea retta, nel percorso rilevato e nella permanenza in quota.

LA LINEA RETTA

La caratteristica della linea retta derivava dalla priorità assoluta data al raggiungimento più rapido possibile del luogo di arrivo. Ciò impediva le deviazioni per il collegamento dei centri abitati intermedi, costringendo quindi alla frequente costruzione di strade laterali o di raccordo, che tendenzialmente si dipartivano da quelle principali ad angolo retto. La tendenza al rettifilo portava pure alla necessità di superare molti ostacoli naturali e di affrontare pendenze molto forti, che potevano arrivare fino al venti per cento e che potevano essere superate colo grazie al traffico di veicoli di peso e velocità piuttosto limitati.

IL PERCORSO RILEVATO

Quanto al percorso rilevato (cioè ad un livello artificialmente superiore a quello del terreno circostante), esso era dettato da motivi di sicurezza, sia nei confronti di pericoli provenienti dagli uomini sia nei confronti di pericoli determinati da fenomeni naturali. Su strade rilevate era infatti più facile controllare con buona visibilità un territorio abbastanza ampio ed evitare imboscate e attacchi di sorpresa, anche soltanto di predoni e di briganti. D’altra parte era ugualmente più facile (anche ai fini della normale manutenzione) evitare o almeno limitare i danni in caso d’inondazioni o di grandi piogge (o nevicate) potendo l’acqua, in quei casi, più agevolmente defluire ai lati della carreggiata.

LA PERMANENZA IN QUOTA

Sempre ad esigenze principalmente di sicurezza rispondeva l’altra caratteristica della permanenza in quota, consistente nell’evitare il più possibile i fondivalle e le infossature, se necessario anche con il ricorso a lunghe deviazioni o a bruschi cambiamenti di direzione.

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LA RISOLUZIONE DEI PROBLEMI

È evidente che, per rispettare tali caratteristiche, i costruttori Romani dovettero affrontare diversi problemi, superandoli con la realizzazione di vere e proprie opere di ingegno, che spesso erano di notevole mole e di grande componente artistica, come terrapieni, ponti e gallerie. Di base, però, a queste opere si ricorreva solo quando era assolutamente necessario o quando la loro realizzazione avrebbe potuto consentire un più razionale e rapido sviluppo dell’intero progetto, magari con il superamento di un ostacolo difficilmente aggirabile.

I Romani erano infatti estremamente pratici, ed anche nella costruzione delle strade facevano di tutto per evitare i problemi: essi preferivano far passare le loro strade per luoghi ameni e pittoreschi, su terreni solidi e pianeggianti, a quote altimetriche raggiungibili senza grandi fatiche, con frequenti possibilità d’incontrare pozzi e sorgenti di buona acqua e luoghi di ristoro. Di fronte ad eventuali zone impervie e terreni difficili, però, non si perdevano d’animo e domavano gli ostacoli con interventi e lavori talvolta persino mastodontici.

I MATERIALI DELLE STRADE ROMANE

Quanto alla vera e propria tecnica costruttiva, essa era fondata sul presupposto che la strada dovesse durare molto a lungo, almeno un secolo, con una manutenzione ordinaria ridotta al minimo e senza bisogno di particolari interventi di riparazione e di ripristino. Una speciale cura era perciò rivolta, prima di ogni altro dettaglio, alle fondamenta che venivano scrupolosamente adeguate alla natura del terreno. Ridotte all’indispensabile quando il terreno era solido e resistente, esse erano eseguite con eccezionale robustezza quando invece si era di fronte ad un suolo fragile e infido, come nel caso dei terreni argillosi o paludosi; in tal senso, si adottavano soluzioni diverse, adattate di volta in volta alla singola tipologia e basate sulle esperienze precedenti.

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I TRE ELEMENTI ESSENZIALI

Pur nella grande varietà delle soluzioni, in ogni strada romana possono essere rintracciati tre elementi tecnici fondamentali: una massicciata di base, un nucleo intermedio elastico e un rivestimento esterno. Per la loro esecuzione si procedeva, entro la “trincea” appositamente scavata nel terreno, con successive stratificazioni di opere, che descriviamo in modo schematico.

La massicciata era uno strato profondo dai 30 ai 60 centimetri e denominato statumen, formato da grosse scaglie di pietra dura ed eventualmente sormontato da un altro strato (rudus o ruderatio) di circa 30 centimetri, costituito da pietre più piccole e tenuto compatto con calce e pozzolana. Il nucleo intermedio (nucleus) era uno strato fatto di sabbia e pietrisco (oppure ghiaia o frammenti di coccio e calcinacci), livellato con apposita battitura e passaggio di pesanti rulli.

Per quanto riguarda il rivestimento esterno, chiamato dorsus summum o summa crusta, che è quello più caratteristico ed universalmente noto, era realizzato con l’impiego di grossi basoli poligonali di pietra (silicea o calcarea, a seconda delle disponibilità del luogo), affondati in un letto di sabbia e ben connessi tra loro, anche con l’ausilio di pietre più piccole inserite come raccordo nelle fessure più larghe.

Le strade che ricevevano questo tipo di pavimentazione erano chiamate Viae Lapidibus Stratae, cioè “pavimentate con pietre”.

Un tipo di pavimentazione più semplice e probabilmente più diffuso era quello ottenuto con l’inghiaiamento della carreggiata: in questo caso le strade prendevano il nome di Viae Glarea Stratae, ossia “pavimentate con ghiaia”.

Accanto a queste strade, c’erano anche quelle che non avevano massicciata e la cui carreggiata era lasciata al fondo naturale di terra: esse si chiamavano pertanto Viae Terraneae.

C’erano infine dei casi particolari, in cui l’intero apparato stradale veniva adattato a situazioni di terreno eccezionali: si pensi, ad esempio, ad un tratto stradale a Rochester, in Inghilterra, dove il consueto apparato era sostenuto da una palificata di tronchi di quercia conficcati nel terreno paludoso.

DALLE CURVE AI MARCIAPIEDI

Qualunque fosse il tipo di pavimentazione, la carreggiata delle strade romane era normalmente curvata ad arco, con il punto più elevato al centro e pendenze verso i due lati: ciò impediva il ristagno dell’acqua piovana e facilitava il deflusso verso i fossi di scolo aperti lateralmente ad una certa distanza.

La stessa carreggiata veniva delimitata su entrambi i lati da un bordo (umbo) di pietre conficcate verticalmente nel terreno e sporgenti superiormente, ed era spesso fiancheggiata da marciapiedi (crepidines), larghi circa 60 centimetri e spesso lastricati.

Non era infine raro il caso che, ai lati delle strade carrabili, corressero delle piste laterali in terra battuta riservate ai cavalieri, ai pedoni e agli animali.

Quanto alla larghezza delle strade, in linea generale si può dire che essa rispondeva alla necessità di consentire il passaggio contemporaneo o il sorpasso di due veicoli. In realtà le misure variavano spesso, anche all’interno della stessa strada, sempre nel rispetto delle antichissime Leggi delle Dodici Tavole (V secolo a.C.) che fissavano un minimo di 8 piedi (poco meno di due metri e mezzo) per i rettifili e di 16 piedi per le curve.

LA PROGETTAZIONE DELLE STRADE

Alla progettazione di una strada e quindi alla direzione dei lavori per la sua realizzazione provvedeva un ingegnere specializzato (architectus), generalmente appartenente al genio militare, assistito da vari tecnici come geometri, agrimensori e livellatori (gromatici, agrimensores, libratores).

Tutti questi lavoratori disponevano di supporti cartografici (mappe e rilievi topografici) assai approssimativi e di strumenti piuttosto elementari per calcolare ad esempio la livellazione per determinare visuali rettilinee ed orizzontali.

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I più importanti tra questi strumenti erano:

  • la groma, un antico squadro agrimensorio d’origine greca, formato da due bracci uguali imperniati a croce su un’asta da infiggere nel terreno e muniti alle quattro estremità di fili a piombo;
  • la diottra, inventata da uno scienziato alessandrino di nome Frone e formata da una sbarra orizzontale montata su un supporto ad asse verticale, eventualmente girevole, con due piastre alle estremità, una delle quali munita di un forellino per l’occhio e l’altra di una finestrella quadrata con una croce di sottili fili per il traguardo;
  • il corobate, un tipo di livello ad acqua (libra aquaria) descritto da Vitruvio e costruito su una doppia squadra a triangolo rettangolo con due fili a piombo appesi al vertice dei due angoli retti e munito sulla faccia superiore di un canaletto per l’acqua.

Alla pochezza dei mezzi e degli strumenti dovevano dunque supplire l’esperienza e la grande abilità professionale dei lavoratori, che consentivano di tracciare strade rigorosamente dritte per decine di chilometri.

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Quanto alla manodopera, essa era normalmente fornita dall’esercito, nei cui ranghi si trovavano in abbondanza uomini esperti nelle diverse branche: molto spesso, del resto, le strade costruite dai soldati non erano altro che gli itinerari già percorsi dai medesimi militari in periodo di guerra. La stessa via Appia, ad esempio, seguì almeno in parte l’itinerario che le legioni di ritorno dalla Prima Guerra Sannitica avevano percorso per rientrare a Roma, circa trent’anni prima, attraverso il paese degli Aurunci.

Sebbene talvolta si potesse utilizzare anche manodopera civile, l’impegnare i soldati nella costruzione di strade era stato, da sempre, anche un modo per tenerli proficuamente occupati durante i periodi di pace e negli intervalli delle operazioni militari. Ce lo testimoniano svariate fonti letterarie, fra le quali anche Tito Livio che esplicitamente riferisce che il console Flaminio “per non lasciare i soldati inattivi, fece loro costruire una strada da Arezzo a Bologna”.

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