IPERREALISTI – OLTRE IL VELO DEL REALE
Tra le grandi mostre che mi pento di non essere andato ad ammirare, ce n’è una che da molti sarebbe stata considerata minore, e che invece fu la più grande esposizione temporanea mai svoltasi in Italia sugli Iperrealisti. La cornice fu quella dell’elegantissimo Chiostro del Bramante, e l’anno il 2003.
Si trattava di oltre cento dipinti provenienti da collezioni americane ed europee, in grado di tracciare il filo dei principali pittori iperrealisti americani dagli anni Settanta all’inizio del XXI secolo.
Per questi protagonisti, da Cottingham a Blackwell, da Bechtle a Kleeman, gli inizi non furono dei più semplici: essi vennero immediatamente bollati come “non artisti”, in grado solo di sfruttare la scia della Pop Art a distanza di dieci anni da essa, senza tuttavia aggiungere o togliere nulla alle caratteristiche di quest’ultima. Vennero definiti dei semplici dilettanti, incapaci di esprimere giudizi critici, ignobilmente distaccati dal contesto sociale. In poche parole, essi vennero emarginati prima ancora di poterne valutare l’essenza stessa delle opere.
La loro tecnica, ossia la proiezione di diapositive sulle tele con fedele ricostruzione di ogni minimo particolare del fotogramma, era agli occhi del pubblico un indizio lapalissiano del fatto che essi non sapessero nemmeno disegnare. Ciò nonostante, le loro opere piacevano moltissimo alla middle class americana e, dopo qualche mostra collettiva (la prima fu nel 1970 a Stockton, in California), si ritrovarono a far parte di un nuovo movimento pittorico, senza averlo deciso e probabilmente senza nemmeno rendersene conto: furono i photorealists, gli iperrealisti.
LA POLEMICA E LA POETICA
L’Europa aprì le porte a questo nuovo movimento a partire dal 1972, ma le ante del portone si richiusero immediatamente con gran fragore: la guerra in Vietnam, da più parti contestata, aveva reso assai ostico il terreno per qualsiasi prodotto americano, e l’opinione pubblica (nello specifico quella tedesca e francese) si scagliò ferocemente contro quegli artisti così rappresentativi del mondo di plastica d’oltreoceano, che erano portatori di negativi valori capitalistici e che non possedevano alcuna conoscenza estetica.
In patria, dunque, le opere dei photorealists iniziavano a diventare un business, mentre in Europa divennero il bersaglio di una vera e propria battaglia culturale, con il critico francese Daniel Abadie che definì questi lavori come “vere banalità, con totale assenza di conseguenze filosofiche, politiche, morali o sentimentali”.
In Italia, per lungo tempo, gli iperrealisti semplicemente non si videro: la loro era una non-esistenza. Sul suolo italico dominava l’informale, con conseguente l’abbattimento della forma: un’arte proveniente dalla fotografia e tesa a ricreare la realtà tale e quale a come fosse non solo non suscitò alcun interesse, ma venne liquidata con un cenno perentorio. Giulio Carlo Argan fornì una stroncatura senza appello, che mise a tacere anche i (pochi) apprezzamenti sereni come quello di Corrado Maltese.
A nulla valevano, in contrapposizione, le opinioni dei diretti interessati. Gli iperrealisti erano profondamente affascinati dall’immensa gamma di possibilità offerta dal trasferire una fotografia su una tela: era possibile inserire difatti miriadi di informazioni minute, impossibili da catturare dal semplice occhio umano, selezionando, ingigantendo e facendo svanire qualsiasi aspetto da questo universo parallelo.
Per gli iperrealisti, l’arte non era dunque una ripetizione, ma una vera e propria dissezione chirurgica. Ecco quindi che l’immagine veniva ricostruita come più vera del vero, esaltando ciò che rientrava e mortificando o sopprimendo ciò che non rientrava nel progetto complessivo dell’artista.
Dopo la trasposizione su tela, il segno grafico sottratto alla fotografia andava però poi reso maggiormente profondo e tridimensionale, per evitare un totale appiattimento dell’opera: ed ecco la necessità di una fortissima consapevolezza volumetrica nella mente dell’artista.
I MAESTRI IPERREALISTI
Studiando le opere dei primi Iperrealisti, pare evidente come pittura e fotografia abbiano avuto una connessione sempre più stretta. In tal senso, il primo nome da esaminare è quello di Robert Cottingham, il cui soggetto principe è la segnaletica urbana: scritte al neon, numeri a vernice, insegne pubblicitarie, veri e propri dettagli rubati all’archeologia industriale delle periferie. In ogni sua opera, ombre e luce naturale svaniscono, lasciando il campo ad una staticità sconcertante, ad una fissità quasi ipnotica delle immagini.
Basta confrontarlo con Richard Estes per comprendere come le idee iperrealiste siano variegate. Nei suoi panorami osservati dall’alto, Estes inchioda sulla tela le città (da quelle americane a Parigi, da Londra a Roma, da Tokyo a Hiroshima), raffigurandole nella loro agghiacciante ed iperluccicante immobilità. Nei suoi dipinti, di straordinaria efficacia, il nostro mondo metropolitano, che nelle giornate frenetiche appare come un formicaio in continuo movimento, diventa invece immobile, staticamente paralizzato nella ripetizione ossessiva dei propri feticci.
Il movimento iperrealista mostra quindi svariati punti di coesione, ma anche numerosi momenti di divergenza. Per troppo tempo considerato una sorta di regressione, questo “figlio asettico e apolitico della Pop Art” ha in realtà minato i canoni della modernità, attraverso il ruolo provocatore della copia che conduce ad un’analisi assai sfaccettata sul valore dell’oggetto nella società consumistica.
LE FOTO DI ANDREAS GURSKY
L’evoluzione dell’arte iperrealista, anche grazie alle nuove tecnologie informatiche, non poteva che sfociare direttamente nella fotografia, eliminando il supporto intermedio della tela. Come scrisse Garry Winogrand, grande interprete della fotografia di strada americana, “la fotografia non è ciò che è stato fotografato, ma è qualcos’altro, una nuova realtà”.
Il tedesco Andreas Gursky, oggi 66 anni, ha portato il suddetto concetto alle estreme conseguenze, arrivando ad essere considerato il più importante artista al mondo per le foto iperrealistiche di grande formato. Le sue foto sono destinate a rappresentare un universo che, a dispetto della raffigurazione fotografica diretta, non esiste, rappresentando un’affascinante invenzione frutto del suo genio creativo.
Dal 1993, Gursky rielabora tutte le proprie foto al computer, riunendo scatti diversi in un’unica composizione e creando in questo modo una sorte di specchio virtuale dei luoghi in cui viviamo. È un mondo mediatico, che conquista l’occhio dello spettatore. All’interno delle sue monumentali e coloratissime composizioni traboccanti di dettagli, ogni singolo soggetto svanisce e corre veloce verso l’astrazione.
Non importa se si tratta di un concerto o di un supermercato, della sala di un ristorante o della veduta dall’esterno del Parlamento tedesco: le sue opere sono frutto di un’oggettività assolutamente impersonale, al cui interno si confrontano il realismo documentario e la manipolazione digitale, l’osservazione naturale della realtà ed il rigore concettuale, in un perfetto mix di ideali e scetticismo.
“Penso che la foto, ancor meglio della pittura, permetta di entrare sotto la pelle della realtà” spiegò una volta lo stesso Gursky. In questa realtà iperrealista, però, l’individuo non c’è: nelle sue foto, l’uomo è escluso, totalmente assente o parte di una massa più o meno informe, dominante e totalitaria.
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Grazie per le bellissime pillole di cultura giornaliste che sono sempre spunto di riflessioni.
Grazie, informazioni utili che redondo maggiore chiarezza su questa tecnica pittorica che da anni io ho abbracciato.