LE STRADE NELL’ANTICA ROMA – LE INFRASTRUTTURE
Per comprendere a dovere, seppure in pochi paragrafi, la composizione delle infrastrutture stradali della Roma Antica, è necessario esaminare le singole componenti accessorie dell’asse viario romano, talmente importanti da poter essere considerate come un imprescindibile corollario alla già citata perfetta capacità ingegneristica dei Romani.
I PONTI
Tra le opere d’arte costruite dagli ingegneri stradali romani, per superare i molti ostacoli naturali o per rendere comunque migliore e più efficiente la realizzazione dei tracciati viari, i ponti vanno certamente annoverati al primo posto.
Elementi essenziali di ogni strada, essi ne costituiscono ancora oggi una parte cospicua della documentazione in nostro possesso, essendo infatti innumerevoli i ponti superstiti, nonostante le gravi perdite verificatesi nel corso dei secoli; alcuni di essi sono ancora in grado di servire al traffico (anche pesante) dei nostri giorni. Non senza ragione quindi, e consapevole della validità dell’opera compiuta, l’architetto Gaius Iulius Lacer (uno dei pochi di cui ci sia stato tramandato il nome) poteva ringraziare gli Dei dell’aiuto ricevuto nella costruzione del suo ponte “che durerà nei secoli”, come si legge nell’epigrafe collocata in un sacello su un lato del grandioso Ponte di Alcantara, costruito sul fiume Tago al tempo di Traiano.
In origine, e per lungo tempo, i ponti vennero costruiti interamente in legno. Successivamente, furono costruiti con passerelle di legno gettate su pilastri di pietra. Già a partire dal II secolo a.C., però, gli ingegneri romani cominciarono a realizzarli interamente in muratura: si pensi ad esempio a Ponte Milvio, costruito nel 109 a.C. dal console Marco Emilio Scauro in sostituzione di un precedente manufatto di legno sul quale già passava da più di un secolo la via Flaminia.
Il tipo di ponte in muratura con il quale i Romani si dimostrarono maestri insuperati in questo genere di costruzioni per tutta l’antichità era quello realizzato con una o più arcate gettate su pilastri: considerata la particolare difficoltà di eseguire le opere in acqua, le arcate venivano costruite per quanto possibile al di fuori dell’alveo del fiume oppure si erigevano nei punti più favorevoli, senza tenere conto di distanze regolari tra le arcate (che pertanto non sempre risultavano uguali tra loro). In alcuni casi si preferiva costruire un’unica arcata maggiore, corrispondente alla parte centrale e più difficile dell’alveo (che veniva cosi superata con una sola apertura), ed una serie di arcate minori laterali.
I pilastri (spesso assai massicci, per resistere alla pressione dell’acqua in caso di piena) erano per lo più costruiti con la tecnica dell’opus quadratum, ossia con blocchi parallelepipedi di pietra, oppure direttamente in calcestruzzo con paramento laterizio. Quanto agli archi, che rappresentavano il punto più delicato di tutta l’opera, la tecnica di costruzione era quella usuale della giustapposizione di conci lapidei radiali, sagomati in forma di cuneo e perfettamente combacianti tra di loro, posti in opera sopra un’armatura di legno (centina) che riproduceva la curvatura.
I ponti erano costruiti, di norma, su un asse rettilineo e perpendicolare alla corrente del fiume: pertanto, dovendosi realizzare molto spesso archi di notevole altezza per metterli al riparo delle piene, la carreggiata della strada doveva assumere sul ponte una certa inclinazione, determinando quella caratteristica disposizione “a schiena d’asino” ancor oggi visibile, con pendenza e contropendenza in corrispondenza delle testate.
Per quel che concerne le proporzioni, la larghezza di un ponte era commisurata a quella della strada che vi passava, alla sua importanza ed alle dimensioni del traffico previsto: in genere venivano evitate carreggiate troppo ampie e, anche se ci sono esempi che compresi i marciapiedi arrivano ad una larghezza di circa dieci metri, la misura media tra le opposte spallette si aggirava sui quattro o cinque metri.
La lunghezza, invece, era ovviamente in relazione all’alveo da superare e si otteneva moltiplicando le arcate: il ponte più lungo mai realizzato dai Romani fu quello fatto costruire da Traiano nel 104 d.C. sul Danubio, presso l’odierna Turnu Severin, in Romania, con venti piloni di pietra e le arcate in legno, che secondo le fonti misurava 1127 metri.
I VIADOTTI
Subito dopo i ponti, tra le più importanti opere di ingegneria stradale romana, vanno menzionati i viadotti. Essi servivano a mantenere la strada ad una quota sopraelevata nell’attraversamento di avvallamenti e di terreni infossati, oppure ad avviarla gradatamente in salita in prossimità d’una altura: i viadotti non rappresentavano quindi opere strettamente necessarie, imposte da un ostacolo altrimenti insormontabile, ma rispondevano semmai al desiderio di raggiungere la soluzione ottimale ad un problema connesso con la morfologia del terreno.
I viadotti romani erano costituiti per lo più da giganteschi terrapieni, sostenuti e contenuti da poderosi paramenti murari, che a loro volta potevano essere tuttavia alleggeriti da piccoli archi (simili a quelli dei ponti) per consentire il deflusso delle acque piovane oppure, all’occorrenza, il passaggio di persone e di animali in senso trasversale all’andamento del viadotto.
Un magnifico esempio di viadotto, tra i tanti ancora esistenti, è quello della via Appia nei pressi di Ariccia, da considerarsi sembra ombra di dubbio uno dei più grandi manufatti stradali dell’antichità. Eccezionalmente ben conservato e tuttora in uso per un traffico non indifferente, esso è databile al II secolo a.C. (con rimaneggiamenti e restauri posteriori) e si estende per poco più di 230 metri, innalzandosi fino ad un’altezza di circa 13 metri. Il viadotto è costruito in opus quadratum, con filari di blocchi di peperino che si alternano per testa e per taglio, seguendo la pendenza della strada, ed è munito di archi di sfogo o di transito.
GLI INTERVENTI STRAORDINARI
Proseguendo nell’esame delle infrastrutture delle strade romane, occorre ricordare che le esigenze del tempo erano assai minori delle nostre: anche nelle vie di grande comunicazione, destinate com’erano al traffico di pedoni, di bestie da soma e di modesti veicoli a trazione animale, non si faceva molto caso alle pendenze, alle contropendenze o alle curve strette.
Tuttavia è pur vero che in alcuni casi la natura del terreno imponeva degli interventi straordinari: si pensi, ad esempio, a quelli che dovevano portare il piano stradale ad un livello diverso da quello del piano di campagna e che si traducevano nella realizzazione delle cosiddette “tagliate”. Queste determinavano la creazione di scarpate artificiali e la realizzazione di opere di protezione, con veri e propri muri di sostegno destinati a trattenere il terrapieno del rilevato fino all’altezza del piano stradale.
Anche in questi casi, la tecnica costruttiva più frequente era quella dell’opus quadratum, mentre più raramente si ricorreva al cementizio con paramenti in opus reticulatum.
Le testimonianze superstiti dimostrano che i Romani avevano grande familiarità con questi procedimenti e che sapevano affrontare con notevole perizia e sicurezza “tagliate” anche assai profonde, mantenendo le scarpate pressoché verticali, in modo da limitare il lavoro ed anche i pericoli di frane. Un esempio per tutti è quello della cosiddetta Montagna Spaccata, la profonda trincea aperta a cuneo e rivestita di un paramento murario in opus reticulatum nelle colline tra Cuma e Pozzuoli, per il passaggio della Via Campana: un’opera talmente tanto valida da consentire anche il passaggio della strada moderna.
Nello stesso ambito rientrano i tagli di speroni rocciosi, anche di rilevanti dimensioni, sia in profondità sia in altezza: si pensi, ad esempio, al taglio del Pesco Montano, a Terracina, realizzato al tempo di Traiano con eccezionale regolarità, per un’altezza di circa 38 m, onde ottenere il piano necessario al passaggio della via Appia tra il Monte Sant’Angelo ed il mare, evitando in tal modo il lungo e disagevole percorso interno che la strada avrebbe dovuto compiere per aggirare la montagna.
LE GALLERIE
A proposito di “tagli”, è necessario precisare che, per quanto i Romani conoscessero e largamente praticassero l’arte di scavare passaggi sotterranei, questa tecnica fu da essi applicata piuttosto raramente nelle costruzioni stradali. Le gallerie rappresentano pertanto dei casi veramente eccezionali, essendosi fatto ricorso allo scavo a foro cieco soltanto quando ciò costituiva l’unico sistema, o di gran lunga il più vantaggioso, per risolvere con una soluzione radicale alcuni fondamentali problemi di percorso.
È il caso della celebre Galleria del Furlo, presso Fossombrone nelle Marche, che consentiva alla via Flaminia di superare un ostacolo altrimenti evitabile soltanto attraverso l’installazione di una lunghissima variante, tutta in zona montagnosa. Fatta costruire dall’imperatore Vespasiano tra il 76 ed il 77 d.C. (come dichiara l’iscrizione incisa sulla parete sopra l’ingresso nord-orientale), nel punto più stretto della gola del fiume Metauro, la galleria è lunga circa 38 metri e alta 6, con una larghezza massima di 5 metri e mezzo.
In via generale, è possibile dunque affermare che gli ingegneri stradali romani, considerate le limitate esigenze dei mezzi di trasporto dei loro tempi, fossero assai meno sensibili alle pendenze di quando non lo siano oggigiorno i nostri: ciò nonostante, pur preferendo lo scavalcamento dei rilievi montuosi, quando dovevano affrontare la perforazione di un monte essi sapevano rimboccarsi le maniche ed effettuare un lavoro egregio: non per altro la moderna Via Flaminia, erede diretta della strada antica, passa ancor oggi proprio sotto la Galleria del Furlo.
Nella costruzione delle gallerie, però, i Romani seguivano regole molto rigide ed assai precise: i trafori romani furono difatti aperti sempre e soltanto in rocce compatte, come il tufo vulcanico e il calcare, e mai in terreni argillosi. Lo scavo veniva infatti affrontato con mezzi estremamente modesti (il piccone, la bipenne, il maglio ed i cunei) e grazie alla forza muscolare degli uomini e degli animali. Ove necessario, lo scavo veniva rivestito sulle pareti e sulla volta con opere murarie in blocchi di tufo o in opera cementizia con cortina in opus reticulatum.
Quanto ai problemi dell’aerazione e dell’illuminazione, essi venivano risolti con lo scavo di appositi pozzi, generalmente verticali e profondi anche più di 30 metri, in numero rapportato alla lunghezza della galleria.
È proprio a proposito delle gallerie che si conosce ancor oggi uno dei pochi nomi di ingegneri stradali romani tramandatoci dall’antichità: quello di Lucius Cocceius Auctus, ricordato da Strabone come autore della galleria detta appunto di Cocceio, lunga circa un chilometro, che metteva in comunicazione il Lago di Averno con Cuma nella regione dei Campi Flegrei.
LE PIETRE MILIARI
Nell’articolo precedente, abbiamo già accennato a quelle “pertinenze” che in un certo senso completavano le strade romane e ne facilitavano l’utilizzazione: la più celebre di esse erano i marciapiedi (crepidines), vere e proprie piste pedonali che affiancavano la carreggiata.
Ci sono però altri due accessori che meritano una menzione speciale.
Iniziamo con i paracarri, detti gomphi: pietre di forma grossolanamente conica, poste ogni tre o quattro metri sul bordo dei marciapiedi. OItre a contribuire a mantenere serrati i lati della carreggiata, i paracarri potevano servire anche per montare a cavallo e magari per “guidare i viandanti” in caso di neve o di tempeste di sabbia, come sembra denotare il loro impiego sistematico lungo le strade rispettivamente della Gallia e del Nordafrica.
In ogni caso, l’infrastruttura accessoria più importante era certamente quella delle pietre miliari che, ad intervalli fissi, recavano l’indicazione progressiva delle distanze. Queste ultime erano indicate in miglia ed espresse di solito con la sigla MP: il miglio (pari a 1478 metri) corrispondeva a mille passi, il passo corrispondeva a cinque piedi, ed il piede corrispondeva a circa 0,30 metri.
Solo eccezionalmente, in alcune Province dell’impero, a partire dal III secolo d.C. le distanze iniziarono ad essere indicate non più in miglia ma in misure locali: in Gallia e in Germania, ad esempio, sotto l’Impero di Settimio Severo, venne adoperata l’unità di misura locale della lega, equivalente ad un miglio e mezzo (pari a circa km 2,200).
L’uso delle pietre miliari dovette iniziare molto presto, considerato che il più antico esemplare conosciuto, quello della Statio ad Mesas, venne collocato al cinquantatreesimo miglio della via Appia tra il 255 e il 253 a.C., come precisato dall’iscrizione che cita gli edili Publio Claudio e Caio Furio: a quell’epoca, importanti strade consolari come l’Aurelia, la Flaminia e l’Emilia non erano state nemmeno progettate. L’idea del piazzamento delle pietre miliari divenne però una radicata consuetudine solo verso la fine del II secolo a.C., visto che Plutarco sottolineò proprio la “numerazione in miglia segnata da colonnette di pietra” tra gli interventi relativi alle strade compiuti dal tribuno della plebe Caio Gracco.
La forma di gran lunga più consueta delle pietre miliari era quella di una colonnina cilindrica o troncoconica di pietra (solo eccezionalmente di marmo), di un’altezza variabile da poco più di un metro fino ai tre metri circa, con un diametro compreso tra i 40 e i 90 centimetri. Collocate su uno dei lati della strada, apparentemente senza una regola fissa, le pietre miliari erano poste all’inizio di ogni nuovo miglio, tanto che in qualche caso non recavano alcuna indicazione, significando con la loro stessa presenza che fosse passato un miglio dalla colonnina precedente.
La distanza registrata era normalmente quella dall’inizio della strada oppure, soprattutto nella tarda età imperiale, quella dall’ultima città attraversata (ed esplicitamente menzionata) o anche da quella più vicina ancora da raggiungere. Talvolta, all’indicazione principale se ne aggiungevano altre di interesse locale, contraddistinte da una grafia più minuta: così, ad esempio, un miliario della via Emilia, ritrovato a Borgo Panicale, reca scritta sia la distanza da Roma che quella da Bologna (4 miglia) e da Modena (21 miglia).
Oltre all’indicazione delle distanze, le pietre miliari recavano spesso anche altre informazioni: il nome del magistrato che le aveva fatte collocare ai lati della strada, le modalità della costruzione della strada, le motivazioni del restauro della stessa. Specialmente durante l’età imperiale, poi, si giunse ad incidere sulle pietre miliari lunghi testi commemorativi e celebrativi, dai toni non di rado enfatici e magniloquenti.
Così, ad esempio, su una pietra miliaria del miglio 71 della Via Appia, posta sotto Caracalla nel 216 d.C., dopo il nome dell’imperatore e il lungo elenco delle cariche da lui rivestite, è scritto: “La via, che prima era stata lastricata inutilmente con pietra calcarea logorata, rifece con nuove pietre di selce, in modo che fosse più solida per i viaggiatori; e ciò con il suo danaro, per la lunghezza di ventuno miglia”.
LE STATIONES
Tra le infrastrutture viarie, infine, non possono non essere citate le stationes, vere e proprie stazioni di posta le quali, sebbene fossero ad uso specifico del servizio postale di stato (il cursus publicus), finirono col rappresentare un elemento tipico e caratterizzante delle strade e vennero variamente utilizzate, oltre che dai corrieri e dai militari, anche dai viaggiatori comuni.
A seconda del loro ruolo e dei servizi che offrivano, ed in conformità con la diversa denominazione che le indicava, le stationes potevano essere di due tipi:
- Le mutationes, che servivano prima di tutto al cambio dei cavalli, e solo eventualmente alla sosta per il ristoro dei viaggiatori.
- Le mansiones, più importanti e meglio attrezzate, che consentivano una sosta prolungata, anche per il riposo notturno, ed offrivano ogni genere di rifornimenti e di assistenza per le persone, gli animali ed i veicoli.
Le mansiones disponevano infatti di locande, scuderie, rimesse e di molto personale specializzato (impiegati amministrativi, veterinari, carpentieri, cocchieri, stallieri, mozzi, ecc.), alle dipendenze di un praepositus. Presso le mansiones (e all’occorrenza anche nelle mutationes) prestava servizio una sorta di distaccamento di polizia stradale (soldati definiti Stationarii) che provvedeva alla sorveglianza del traffico ed alla sicurezza del territorio contro i ladri ed i briganti.
IL MILLIARIUM AUREUM
Nel 20 a.C. l’imperatore Augusto, che nel frattempo aveva assunto personalmente l’ufficio della Cura Viarum, fece erigere ai limiti settentrionali del Foro Romano, nei pressi del Tempio di Saturno, una speciale colonnina miliaria rivestita di bronzo dorato, e per questo soprannominata Milliarium Aureum.
Essa recava l’indicazione delle distanze da Roma delle principali città dell’impero. La sua funzione implicita era pertanto quella di segnalare il punto di partenza delle strade che componevano la grande rete del sistema viario romano: si trattava di un luogo non scelto in modo casuale, ma posto alla convergenza di tre fondamentali assi stradali della città, ossia il Vicus Iugarius, il Clivus Argentarius e la Via Sacra.
Dal prolungamento di ognuno di questi assi, oltre i limiti del perimetro urbano e attraverso alcune delle principali vie consolari, ci si poteva dirigere verso tutte le regioni dell’impero. L’espressione universalmente nota secondo la quale “tutte le strade portano a Roma” è ovviamente reversibile, e trova nel Milliarium Aureum di Augusto il punto di riferimento specifico che la giustifica: lo stesso Miliario divenne quindi un “monumento del monumento”, considerando come tale, a buon diritto, l’intero complesso del sistema viario del mondo romano.