Le strade nell’Antica Roma (3/3)

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LE STRADE NELL’ANTICA ROMA – DALLE MAPPE AI VIAGGIATORI

I viaggiatori dell’antichità potevano disporre, almeno a certi livelli, di materiali documentari che è possibile paragonare alle nostre “guide cartacee”: si trattava di veri e propri prontuari, denominati Itineraria, che descrivevano sinteticamente determinati percorsi tra località anche molto distanti fra loro (una delle quali era quasi sempre Roma) oppure fornivano indicazioni pratiche ed essenziali sui percorsi di singole strade riguardanti regioni più o meno estese, fino ad arrivare all’intera rete viaria di tutti i territori dell’impero.

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GLI ITINERARIA

Queste “guide” potevano essere redatte nella forma di semplici elenchi (ltineraria Adnotata), con la successione delle località principali, dei posti di tappa e delle stazioni di posta, dei crocevia e delle diramazioni dove più facili erano le incertezze e le possibilità d’errori, e delle distanze intermedie; in altri casi questi prontuari assomigliavano a vere e proprie carte stradali (Itineraria Picta) disegnate su fogli di papiro o di pergamena, che riportavano in forma schematica le stesse indicazioni degli elenchi, ma espresse graficamente e con l’impiego di una speciale simbologia di segni e disegni convenzionali. Inoltre, esse erano spesso corredate anche di rudimentali dati orografici e idrografici.

Gli Itineraria venivano di solito espressamente preparati per viaggi ufficiali (imperatori, senatori, alti funzionari), per spedizioni militari oppure per i servizi postali ed annonari. Talvolta, però, potevano anche essere frutto dell’iniziativa privata di singoli viaggiatori, come quelli che, a partire dal IV secolo d.C. avevano come meta i Luoghi Santi della Palestina.

Alcuni esemplari sono giunti fino a noi e sono di grande utilità, anche al fine di ricostruire molti percorsi stradali non più facilmente individuabili sul terreno e non altrimenti documentati. Tra quelli del primo tipo, il più importante è il cosiddetto ltinerarium Antonini, attribuibile probabilmente nella sua versione originaria all’età di Caracalla, ma certamente riveduto ed aggiornato successivamente e rimasto in uso fino al tempo di Costantino.

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C’è poi l’Itinerarium Hierosolymitanum (o Burdigalense), redatto da un pellegrino che descrisse il viaggio compiuto nel 333 d.C. da Bordeaux (l’antica Burdigala) a Gerusalemme, con particolare attenzione ai luoghi di tappa, alle stazioni di cambio, alle distanze e alle caratteristiche delle singole località menzionate.

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Tra quelli del secondo tipo, l’esemplare in assoluto più famoso al mondo è la cosiddetta Tabula Peutingeriana (dal nome di Konrad Peutinger, che la ebbe in proprietà nel XVI secolo dopo che l’umanista austriaco Celtes aveva ritrovata nel 1507 in una biblioteca), oggi conservata nella Hofbibliothek di Vienna. Si tratta di una vera e propria mappa, dipinta in cinque colori su pergamena e composta di undici fogli (che però in origine erano dodici): all’interno di una vera e propria carta geografica del mondo romano, essa registra tutta la rete stradale dell’impero, dalla Britannia ai confini con l’India e dall’Africa al Reno.

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Eseguita sulla base delle concezioni e delle convenzioni cartografiche degli antichi, con il mare indicato solo da una stretta e uniforme striscia scura, La Tabula Peutingeriana raffigura il tracciato delle strade soltanto con segmenti più o meno lunghi di linee rette e, attraverso una speciale simbologia grafica, evidenzia e sottolinea la tipologia e le installazioni delle principali località di tappa, con le relative distanze intermedie.

Quella giunta fino a noi è ovviamente una copia, eseguita nel Medioevo, di un originale risalente al III secolo d.C. con aggiornamenti del V secolo.

I LUOGHI SACRI

La carta della rete stradale romana è per larga parte quella delle linee di comunicazione naturali: ciò significa che i costruttori delle strade romane non soltanto erano soliti seguire, per quanto possibile, l’invito che veniva loro offerto dalla naturale morfologia dei luoghi, ma anche che, nonostante gli interventi artificiali, essi cercarono sempre di mantenere le loro realizzazioni in perfetta armonia con il territorio e il paesaggio circostante, inserendo le proprie opere artificiali senza traumi.

Naturalmente, per quanto ben inserita nel paesaggio circostante, l’opera dell’uomo ha lasciato in vario modo la sua impronta e questa ha fatto sì che sì formasse, nell’ambito e all’interno dì quello naturale, un vero e proprio “paesaggio della strada”: si pensi, ad esempio, al fatto che molti tratti dei percorsi viari erano bordati da alberi e siepi, che oltre ad una funzione estetica dovevano svolgere una sorta di servizio di protezione.

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Inoltre, mentre erano evitate per principio le foreste, troppo propizie agli agguati e alle imboscate, assai frequenti erano i boschetti e in molti casi questi erano considerati sacri e come tali rispettati e venerati. Apuleio, ad esempio, scriveva: “Quando i viandanti pii incontrano un bosco sacro, essi sono soliti fermarsi per pregare, per offrire un ex-voto o per sostare un momento”. I boschi sacri erano spesso trasformati in autentici santuari, esplicitamente dedicati agli Dei protettori dei viaggiatori e dei mercanti (Diana, Ercole, i Dioscuri, Mercurio) o alle speciali divinità delle strade quali erano i Lares Viales, e perfino a quelle che si immaginava presiedessero a luoghi di particolare rilevanza, come i bivi e gli incroci.

In realtà, di luoghi sacri lungo le strade ce n’erano in abbondanza e dei tipi più vari, quasi sempre significativamente legati a qualche fenomeno particolare della natura. È lo stesso Apuleio ad elencarcene caratteristiche e varietà: “Un altare cinto di ghirlande di fiori, una grotta ombreggiata da rami, una quercia ornata di corna, un faggio coronato di pelli, una roccia isolata circondata da un recinto, un tronco d’albero foggiato in figura umana, un prato impregnato dal fumo delle libagioni”.

LE TOMBE

Altro aspetto tipico del paesaggio stradale dell’Antica Roma, maggiormente collegato all’intervento diretto dell’uomo ed anch’esso connesso in qualche modo al concetto del sacro, era quello determinato dalla diffusa presenza, lungo i bordi delle carreggiate, dei sepolcri e dei monumenti funerari: isolati o a piccoli gruppi, allineati e numerosi specialmente presso le ville e le fattorie rustiche dei grandi proprietari terrieri, essi formavano vere e proprie necropoli in prossimità dei centri abitati e fino alle porte delle mura urbane.

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Universalmente noto è, al riguardo, il caso della Via Appia, con le tombe che la fiancheggiavano ininterrottamente per diverse miglia a partire da Roma e che si ritrovano poi qua e là lungo tutto il suo percorso; il fenomeno, però, caratterizzava in realtà anche le altre grandi strade consolari che partivano dalla Capitale, e si diffuse ampiamente in tutto il mondo romano.

Il rapporto esistente fra le tombe e la strada era ulteriormente sottolineato dalla frequente presenza, sulle facciate dei sepolcri monumentali, di esedre e sedili destinati al riposo dei viaggiatori ai quali spesso direttamente si rivolgevano, per chiederne pietà e rispetto, frasi ed espressioni contenute nelle epigrafi funerarie: “Ehi, viandante, vieni qui e riposa un momento”, “Tu che passi con animo tranquillo, fermati un istante, ti prego, e leggi queste poche parole”, “Ferma i tuoi passi, o straniero, se hai un briciolo di pietà e versa qualche lacrima sulle mie povere ossa”.

GLI ACQUEDOTTI E GLI ARCHI

Un altro elemento caratteristico del paesaggio stradale era rappresentato dagli acquedotti. Di fatto gli acquedotti, che di solito correvano in condotte sotterranee, quando uscivano all’aperto per superare depressioni e avvallamenti allineavano spesso le loro lunghe file di arcate alle strade, in percorsi paralleli e talvolta perfino coincidenti, ad esempio quando le une e gli altri utilizzavano gli stessi ponti. Tipico e macroscopico l’esempio offerto dagli acquedotti della Campagna Romana.

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Più intimamente collegati alla strada erano invece gli archi onorari, destinati spesso a ricordarne ed a celebrarne la costruzione o il restauro oppure ad esaltarne il costruttore. La loro presenza serviva soprattutto a sottolineare il “capolinea”, sia quello iniziale (come nel caso dell’Arco di Traiano a Benevento, dal quale partiva la variante dell’Appia voluta dall’imperatore) che quello terminale (come nel caso dell’Arco di Augusto a Rimini, sotto il quale finiva la via Flaminia).

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Del resto, proprio l’immagine di un arco venne significativamente scelta per ricordare in una moneta l’opera compiuta dall’imperatore Ottaviano Augusto quando assunse l’ufficio di Curator Viarum: alcuni studiosi pensano, tra l’altro, che l’immagine alluda specificamente all’Arco che lo stesso Augusto eresse all’inizio della stessa via Flaminia, sul Ponte Milvio.

LE STATIONES

La componente più specifica e caratterizzante del paesaggio e della vita della strada era tuttavia rappresentata dalle Stationes, di cui abbiamo già accennato nell’articolo precedente: come probabilmente ricorderete, si tratta di installazioni per la sosta, il ristoro e il cambio dei cavalli.

Attorno ad esse, a fini ovviamente commerciali, sorsero quasi sempre locande, trattorie e botteghe che in molti casi, nei luoghi di tappa più frequentati, finirono col dare vita a piccoli centri abitati. Questo fenomeno fu più consistente e duraturo laddove, fin dalla costruzione della strada, erano stati previsti, in luoghi strategici, veri e propri punti di incontro e di mercato, indicati spesso con il termine Forum accompagnato da un appellativo tratto dal nome del costruttore della strada stessa: ancora oggi, nella toponomastica di alcune città italiane, è possibile leggere una chiara derivazione del nome da tale usanza, come nel caso di Forlimpopoli, derivante da Forum Popilii.

Tornando alle installazioni private sorte attorno alle Stationes, esse erano indicate con nomi diversi (taberna, caupona, deversorium, hospitium, stabulum), a seconda che fornissero da bere o da mangiare, da dormire o da ricoverare anche gli animali. Fu lo stesso Varrone, nel suo Trattato sull’Agricoltura, a suggerire ai grandi proprietari terrieri come far fruttare al meglio i propri appezzamenti: “Se in un terreno prossimo a una grande strada si trova un luogo adatto a ricevere i viaggiatori, sarà bene costruirvi un hospitium”.

In realtà, nonostante il tenore magniloquente delle insegne e delle scritte che li reclamizzavano, tali strutture erano tutt’altro che raccomandabili: locali squallidi e angusti, umidi, sporchi e pieni del fumo delle cucine, con i letti popolati di cimici e le sale comuni frequentate da mulattieri e carrettieri, giocatori d’azzardo, ubriaconi e donne di malaffare. I gestori poi, che quasi sempre erano schiavi o affrancati d’origine greca od orientale, venivano comunemente considerati come perfetti campioni di furfanteria, e le loro mogli avevano spesso fama di maghe e fattucchiere.

I VIAGGIATORI

Stando così le cose, non si prova alcuna meraviglia nel capire perché mai molti viaggiatori si tenessero alla larga da luoghi del genere, ricorrendo ad altre soluzioni.

A parte i casi del tutto eccezionali di soggetti incredibilmente benestanti che, come Cicerone, possedevano propri Deversoria (piccoli edifici, adatti soltanto a passarvi una notte) lungo le strade che frequentavano abitualmente, soprattutto per recarsi nelle grandi ville di soggiorno al mare o in campagna, quasi tutti i viaggiatori preferivano raggiungere un centro abitato dove gli hospitia erano più confortevoli (come dimostrano gli esempi che se ne conoscono ad Ostia e a Pompei).

Non mancavano coloro che in viaggio si portavano la tenda, il cibo, le stoviglie e qualche schiavo adatto alla bisogna. Per l’imperatore e la sua famiglia, i magistrati e gli alti funzionari, e per tutti coloro che viaggiassero quali rappresentanti o per incarico dell’Imperatore stesso, erano a disposizione sulle strade principali speciali installazioni d’accoglienza (Praetoria) che, oltre a soddisfare adeguatamente le necessità più comuni, consentivano qualche speciale raffinatezza, come quella di poter usufruire di un piccolo ma confortevole stabilimento termale.

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Le persone facoltose, o dotate di buone amicizie, o rivestite di incarichi ufficiali, potevano dunque servirsi delle strade e affrontare su di esse anche lunghi percorsi con una certa tranquillità. I viaggi potevano risultare allora anche piacevoli per le distrazioni e le buone accoglienze, come ci testimonia Orazio quando rievoca, nella quinta composizione del I libro delle sue Satire, il viaggio compiuto da Roma a Brindisi, lungo la via Appia, in compagnia di amici che lo seguono o lo raggiungono nelle varie tappe (Mecenate, Virgilio, Plozio, Vario, Cocceio). Lo esamineremo assieme alla fine di questo articolo.

In ogni caso, sulle strade della Roma Antica viaggiavano personaggi decisamente eterogenei: soldati, mercanti, trasportatori di rifornimenti annonari, carri pieni di prodotti agricoli e artigianali, impiegati dello Stato e appaltatori di servizi ed opere pubbliche, pellegrini, predicatori, ciarlatani, compagnie di attori, contadini e lavoratori stagionali, artisti e poeti itineranti, oltre ad un gran numero di avventurieri in cerca di fortuna.

Tutti costoro, oltre a rendere quanto mai vivace e animata la vita della strada, attiravano e facevano prosperare tutta una folla minuta e variopinta di gente che dalla strada, dal viaggiatori e dai traffici, derivava il proprio lavoro traendone sostentamento e lucro: dagli addetti alla manutenzione e al funzionamento delle Stationes ai responsabili della vigilanza, dai noleggiatori di cavalli e di vetture ai maniscalchi e veterinari dei posti di tappa, dai pastori e contadini che vendevano i loro prodotti ai viandanti ai gruppi di briganti che ottenevano il proprio “reddito” trasformando le strade romane in un vero e proprio incubo per i viaggiatori.

IL SERVIZIO POSTALE

Una speciale categoria di utenti della strada era quella degli addetti al servizio postale, denominato cursus publicus trattandosi di un servizio dello Stato e ad uso esclusivo di esso: esso era destinato ad assicurare le comunicazioni tra la Capitale e le altre città dell’Impero, ossia tra il governo centrale e quelli delle Province. Ne usufruivano pertanto, oltre all’imperatore, anche gli alti funzionari, i governatori e i comandanti militari, i quali si avvalevano spesso delle sue strutture anche per i loro viaggi privati.

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Il servizio, che inizialmente venne svolto in un primo tempo da messi privati o da schiavi “pubblici” oppure da soldati, passò poi alla gestione di un vero e proprio corpo di corrieri a cavallo, che all’occorrenza disponevano anche di carri postali. Essi assolvevano al loro compito alternandosi ad intervalli regolari col sistema della staffetta, percorrendo tratti di strada non molto lunghi e con frequenti cambi di cavallo per conseguire la maggiore rapidità possibile. Con questo sistema, la media dei percorsi giornalieri si aggirava sui 75 km, mentre un viaggiatore normale non doveva farne pit di una quarantina.  

I MEZZI DI LOCOMOZIONE

Nell’esaminare i mezzi di locomozione più adoperati ai tempi dell’Antica Roma, pare quasi superfluo affermare che i più usuali fossero il cavallo, il mulo e l’asino. Tuttavia, anche a prescindere dai soldati che con marce dai 15 ai 30 km giornalieri e soste di un giorno ogni quattro si spostavano con sorprendente rapidità da un capo all’altro dell’Impero, erano molti i viaggiatori che si spostavano a piedi, affrontando con disinvoltura viaggi anche particolarmente lunghi.

Quanto ai carri, essi erano di diversi tipi a seconda delle opportunità, delle necessità e delle possibilità economiche. I carri potevano avere due o quattro ruote: i primi erano usati per viaggiare più velocemente anche su percorsi disagevoli, i secondi per godere di più ampio spazio e di maggiore stabilità. A parte i carri agricoli e da trasporto, quali il plaustrum a due ruote piene con cerchioni di ferro trainato spesso da una coppia di buoi, tra i veicoli da viaggio a due ruote assai diffusi erano il cisium ed il carpentum.

Il cisium era un calessino leggero e veloce, molto adatto per una persona che viaggiava da sola e senza bagaglio, guidando essa stessa ed avendo eventualmente a fianco un altro passeggero: era molto veloce ed elastico, tanto che secondo le cronache Cesare riuscì a percorrere a bordo di esso 150 Km in un solo giorno. Il carpentum, generalmente fornito di una tenda su apposita intelaiatura, era invece più comodo e perciò molto usato dalle donne romane.

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Tra i veicoli a quattro ruote, il più comune era la carruca, con le due ruote anteriori montate su un asse girevole che consentiva una buona manovrabilità e le due ruote posteriori spesso più grandi delle anteriori per aumentarne la velocità. Era considerato un mezzo di trasporto particolarmente confortevole, talvolta persino lussuoso per le rifiniture e gli accessori di cui era dotato: fornito di una cappotta di tela o di pelle su un’armatura di legno o di ferro, era il carro da viaggio per eccellenza, poiché poteva essere usato da più persone, sotto ogni condizione atmosferica ed anche per lunghi percorsi.

LE SATIRE DI ORAZIO

Si può chiudere questo articolo rievocando il viaggio del poeta Orazio, da lui stesso raccontato nelle Satire: in tal modo, avremo la possibilità di leggere dalle parole del protagonista le peculiarità di un lungo viaggio da Roma a Brindisi.

Uscito dalla grande Roma, m’accolse Ariccia con un modesto alloggio. Mi era compagno l’oratore Eliodoro, di gran lunga il più dotto dei Greci. Quindi Forappio, zeppo di barcaioli e osti imbroglioni. Noi, pigri, dividemmo questo percorso in due tappe ma quelli più spediti di noi lo fanno tutto in una volta: la via Appia è meno faticosa per chi va con calma. Qui, per colpa dell’acqua che era pessima, dichiaro guerra allo stomaco, aspettando, con l’animo non proprio sereno, i compagni che cenano.

Già la notte si accingeva a stendere le ombre sulla terra e a spargere le stelle in cielo: allora, gli schiavi gridavano insulti ai barcaioli e i barcaioli agli schiavi. Per riscuotere i soldi e legare la mula, se ne parte un’ora intera. Zanzare maligne e rane palustri tolgono il sonno. Un barcaiolo ubriaco di vino andato a male e un viaggiatore cantano a gara all’amica lontana; alla fine, il viaggiatore, sfinito, comincia a dormire e il barcaiolo lega ad un sasso le redini della mula lasciata a pascolare, e russa steso supino.

Già si avvicinava il giorno, quando ci accorgiamo che la barca non avanzava affatto, finché un tipo focoso salta su e liscia a colpi di bastone testa e schiena del barcaiolo della mula: sbarchiamo solo dopo l’ora quarta del mattino. Con la tua linfa, o Feronia, ci laviamo il viso e le mani.

Quindi, dopo aver pranzato, avanziamo lentamente per tre miglia e giungiamo sotto ad Anxur, situata su rocce che biancheggiano per una grande estensione. Intanto arrivano Mecenate e Cocceio e insieme a loro Fonteio Capitone, un perfetto gentiluomo e amico di Antonio come nessun altro. Lasciamo volentieri Fondi col suo pretore Aufidio Lusco, ridendo delle insegne di quello sciocco scrivano.

Poi, stanchi, ci fermiamo nella città dei Mamurra dove Murena ci offre l’alloggio e Capitone la cena. Il giorno successivo sorge davvero piacevolissimo: infatti, a Sinuessa, ci vengono incontro Plozio, Vario e Virgilio, anime quali la terra non ne ebbe mai di più candide e a cui non c’è alcuno che sia più legato di me. Oh, che abbracci furono e quanta gioia! Non c’è nulla che io, finché sarò sano di mente, potrei paragonare ad un amico caro.

Quella casetta di campagna, vicina al ponte Campano, ci fornì un tetto e i provveditori, com’è loro dovere, legna e sale. Da qui, i muli depongono le some, puntuali, a Capua. Mecenate va a giocare, io e Virgilio a dormire; infatti, il gioco della palla è nemico di cisposi e dispeptici. Quindi ci accolse fa ricchissima villa di Cocceio, che si trova sopra le osterie di Caudio.

Da qui ci dirigiamo direttamente a Benevento, dove il premuroso albergatore per poco non arse vivo mentre faceva girare sul fuoco dei magri tordi. Infatti, la fiamma guizzante, sparpagliatosi il fuoco per la vecchia cucina, andava rapidamente verso l’alto a lambire il tetto. Allora avresti visto convitati affamati e servi impauriti portare via in fretta la cena e cercare tutti di spegnere Il fuoco.

Da quel posto, l’Apulia cominciava a mostrarmi le montagne familiari, che lo scirocco brucia e che non saremmo mai riusciti a valicare se non ci avesse accolto una villa vicina a Trevico, piena di fumo da far lacrimare, poiché nel camino ardevano rami umidi con le foglie.

Di qui ci spingiamo in carrozza per ventiquattro miglia, per fermarci in una cittadina che nel verso non si può nominare, ma della quale è facilissimo parlare per allusioni: qui l’acqua, la cosa che costa di meno, si vende, ma il pane è di gran lunga il migliore, tanto che il viaggiatore avveduto è solito portarselo in spalla. Infatti quello di Canosa è duro come la pietra e di acqua, in questo luogo che fu fondato un tempo dal forte Diomede, non ce n’è più di una brocca. Qui Vario si separa mesto dagli amici in lacrime.

Quindi giungiamo stanchi a Ruvo, dopo aver percorso un cammino lungo, reso più malagevole dalla pioggia. Il giorno seguente il tempo fu migliore, ma la strada peggiore, fino alle mura della pescosa Bari; poi Egnazia, costruita a dispetto delle Ninfe, ci diede motivo di risa e di scherzi, quando ci volevano convincere che gli incensi sulla soglia del tempio si consumano senza fiamma. Ci credano gli ebrei, ma non io; io ho imparato che gli dei passano la vita tranquillamente e che, se la natura compie qualcosa di pr0digioso, non sono gli dei che inviano qual cosa di infausto dall’alto tetto del cielo.

Brindisi è il termine del lungo racconto e della lunga strada.

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