Gli spettacoli nell’Antica Roma (2/4)

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LE CORSE DEI CARRI

Agli albori della storia di Roma, in un vasto spiazzo paludoso solo parzialmente bonificato, tra Palatino ed Aventino, pastori e contadini dei villaggi circostanti diedero vita alle prime corse dei carri. Nasceva così, seppur in forma embrionale, il Circo Massimo, divenuto nei secoli il più grande complesso monumentale dell’antichità, la cui storia, tra incendi, crolli, ricostruzioni, ampliamenti ed abbandono venne a coincidere con la storia stessa della città di Roma, dalle sue origini alla sua inevitabile decadenza.

Le corse circensi sono riferite unanimemente dalla tradizione all’epoca regia. Inizialmente si trattò di gare decisamente molto più austere, in cui il popolo manifestava il proprio religioso contegno cercando di propiziarsi il favore degli dei. Nei primi secoli dell’impero, invece, in quella che può essere tranquillamente definita “l’età dell’oro dei giochi circensi”, i Romani si recavano al Circo non certo per ingraziarsi il favore degli dei, se non quello del Fato, soprattutto per coloro che, per tifo in favore dei propri colori, vi avevano scommesso sopra una fortuna.

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IL SIMBOLISMO DELLE CORSE

L’atmosfera, comunque, conservò sempre una sua religiosa solennità, non solo per la presenza dell’Imperatore e dei più alti magistrati, ma anche per due ulteriori motivazioni. La prima era che, in occasione di questi giochi circensi, le statue degli dei venivano portate in processione, quasi a voler far comprendere la loro stessa presenza sui posti d’onore degli spalti. La seconda si lega a motivazioni più “astrologiche”, a cui l’ambiente delle corse era legato: la simbolica rappresentazione del mondo e delle sue vicende.

Dalle dodici costellazioni dello zodiaco (le dodici porte entro cui stazionavano le quadrighe alla partenza), gli aurighi (il sole), vestiti delle quattro stagioni (ossia dei colori delle fazioni: bianca-inverno, verde-primavera, rossa-estate, azzurra-autunno), iniziavano il proprio percorso intorno alla terra (la pista) ed al mare (il fossato posto a protezione degli spettatori), seguendo l’orbita dei sette pianeti (i sette giri della gara).

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IL TIFO SFRENATO

Secondo Ammiano Marcellino, storico romano del Tardo Impero, “per i Romani il Circo Massimo è insieme tempio e casa, luogo di riunione e realizzazione dei desideri. Si ammassano nelle piazze, agli incroci, nelle strade, e discutono animatamente di questo o quel partito. Quando arriva finalmente il giorno delle corse, tutti si affrettano verso il Circo, prima ancora che sorga il sole, e corrono a grande velocità in una sterminata folla festante come volessero gareggiare con i carri. Molti passano le notti senza chiudere occhio, pieni di ansia per i risultati delle corse”.

Ammiano Marcellino non esagerava affatto: la passione, il tifo ed il fanatismo toglievano il sonno ai Romani, e non solo ai fannulloni ed alle classi medio-basse. L’imperatore Caligola, ad esempio, mangiava e soggiornava continuamente nelle scuderie dei cocchieri verdi, mentre l’imperatore Vitellio faceva addirittura uccidere chi inveiva contro la scuderia azzurra, di cui era fomentato tifoso. Ma vi era anche chi guardava a questo mondo di patiti con distaccata indifferenza, come ad esempio l’imperatore filosofo Marco Aurelio, o con profondo disprezzo, come Giovenale, che non si capacitava come lo stesso popolo che nei secoli passati aveva costruito l’impero ora se ne stesse pago di due sole cose: panem ac circenses.  

LO SVOLGIMENTO DELLE GARE

Le gare avevano inizio con il corteo che entrava dall’arco di trionfo, sul versante del Celio, accolto dalla sterminata folla festante, assiepata su tre ordini di gradinate.

La pompa circense era articolata in tre gruppi. Per primo entrava il nucleo “politico”: littori e trombettieri precedevano nel circo il magistrato che presiedeva ai giochi, attorniato dalla gioventù romana. Seguivano quindi gli sportivi, cioè le fazioni, ognuna organizzata con propri musici, portatori di insegne e aurighi. Infine veniva il gruppo religioso: i sacerdoti e le corporazioni religiose scortavano le exuviae (immagini) degli dèi, trasportate su carri (le dee) o su portantine (gli dei), che venivano poi sistemate nel pulvinar, un palco con tempio retrostante inserito nelle gradinate. In epoca imperiale, alle divinità tradizionali si aggiunsero le effigi degli Imperatori divinizzati.

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I concorrenti, coadiuvati dal personale delle scuderie, andavano a prendere posto nelle postazioni di partenza, secondo un ordine estratto a sorte, divisi nelle quattro fazioni che si contendevano il favore dei tifosi: la verde, la bianca, l’azzurra, la rossa. Il segnale di partenza era dato dal magistrato con il lancio di un drappo bianco (mappa) dalla terrazza sopra le postazioni di partenza e segnalato all’immenso pubblico dal suono di una tromba. I carceres si aprivano contemporaneamente, forse per mezzo di un sistema di corde, e le quadrighe delle quattro fazioni percorrevano un primo tratto di pista lungo la spina (il podio in muratura che divideva longitudinalmente il circo) secondo traiettorie obbligate in modo da evitare incidenti alla partenza.

LA CORSA DEI CARRI

Gli aurighi, riconoscibili dal colore della casacca della fazione, guidavano in piedi sui leggeri carri di legno a due ruote, la testa protetta dal casco di metallo e le gambe da fasce, le briglie strette nella mano sinistra e la frusta nella destra. I momenti di tensione massima per aurighi, cavalli e spettatori erano, ad ogni giro, il superamento delle mete (il punto in fondo alla pista in cui si effettuava il giro), poste alle due estremità della spina.

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La riuscita della manovra era garantita dalla scelta della giusta traiettoria da parte dell’auriga e dalla tenuta dei due cavalli esterni, che, a differenza dei due cavalli centrali aggiogati direttamente al carro, erano assicurati a questo da una corda. La pedina più importante era senza alcun dubbio il cavallo di sinistra, che faceva da perno nel movimento di aggiramento della meta. La folla, nel frattempo, incitava i propri beniamini ed inveiva contro gli avversari.

Il numero dei giri che venivano man mano completati (in senso antiorario) era segnalato da sette grandi uova, alternate, a partire dall’età di Augusto, a sette delfini che venivano progressivamente abbassati. La lunghezza del percorso variava in base alle dimensioni del circo: nel caso del Circo Massimo, ad esempio, il percorso era di circa sette chilometri.

Negli incidenti (naufragia), abbastanza numerosi e dovuti quasi sempre a comportamenti scorretto o all’errata manovra di aggiramento della meta, era decisiva per limitare i danni l’abilità dell’auriga, che doveva con un colpo di pugnale recidere le redini e liberare i cavalli.

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Nell’arco della giornata le corse si susseguivano senza sosta, alternando quadrighe a trighe e bighe e variando la conduzione delle gare con acrobazie eseguite da velites (soldati armati alla leggera) e desultores (cavallerizzi), che simulavano combattimenti in corsa, saltando da un cavallo ad un altro e compiendo altre pericolose acrobazie. L’evoluzione fu clamorosa ed in qualche caso andò letteralmente fuori controllo: basti pensare che, se all’epoca di Augusto si svolgevano fino a 12 gare in una giornata, esse divennero 24 con Caligola, 48 con Vespasiano e addirittura 100 durante i Ludi Secolari dell’88 d.C., al tempo di Domiziano, quando fu necessario, per contenere lo svolgimento delle corse dall’alba al tramonto, ridurre i giri da sette a cinque.

FAMA E RICCHEZZA

I vincitori erano ricompensati dal magistrato che presiedeva ai giochi con doni che si aggiungevano ai salari: questi erano spesso altissimi, almeno per i campioni più contesi, che erano riusciti a strapparli con l’obbligo imperativo di non cambiare mai fazione. Le fazioni a Roma erano quattro: la bianca (albata)e la rossa (russata)esistenti dall’età repubblicana, la verde (prasina) e la azzurra (veneta) aggiunte in epoca imperiale. La purpurea e la dorata, aggiunte da Domiziano, vennero abolite alla sua morte.

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Alcuni aurighi e cavalli conseguirono una notorietà che raggiunse i più sperduti angoli dell’impero e fece ombra a molti uomini di successo: “Sono notissimo a tutto il mondo, ma perché tanta invidia? Non sono in fondo più famoso del cavallo Andremone”, annotava con autoironia ed una certa mestizia il poeta Marziale. Lo stesso Giovenale, in una sua satira, affermava che l’auriga Lacerta avesse un patrimonio equivalente a quello di cento avvocati.

La letteratura romana ha tramandato ai posteri i nomi più prestigiosi dei campioni del circo: i cavalli Tuscus e Victor ad esempio, vincitore il primo in 386 gare ed il secondo in 429, e gli aurighi Scorpo ed Epafrodito, vincitori di più di mille gare a testa. Essi furono grandi protagonisti, molto amati dal pubblico, ma nessuno raggiunse la fama e la popolarità di Diocle, che si ritirò dopo aver accumulato, in 4462 vittorie, l’incredibile ricchezza di 35 milioni di sesterzi.

Era un bel modo per uomini di umili origini, generalmente schiavi che si emancipavano grazie alle vittorie, di cambiare la propria condizione sociale. Osannati dai tifosi per le qualità che li facevano amare (sangue freddo, agilità, forza, temerarietà), tollerati benevolmente dalla stessa polizia urbana quando si davano per le strade a detestabili molestie, pestaggi e smargiassate varie, essi venivano rappresentati sui souvenir più venduti, mentre nelle case se ne esponevano i ritratti.

I CAPISCUDERIA

Se aurighi e cavalli erano oggetto delle passioni dei tifosi, i padroni degli spettacoli erano, come nei giochi gladiatori, le figure poco raccomandabili dei capiscuderia. Questi agivano di fatto in regime di monopolio: provvedevano all’acquisto dei purosangue degli allevamenti migliori, ne curavano il mantenimento e l’addestramento affidandoli alle cure di personale specializzato (veterinari, sellai, allenatori…), provvedevano all’ingaggio degli aurighi in vista delle gare e si preoccupavano soprattutto di stipulare ottimi contratti con i magistrati ed i privati che promuovevano lo svolgimento degli spettacoli.

UNA GRANDE TRAGEDIA

I giochi circensi, seppur biasimati e combattuti dalla Chiesa, godettero ancora di enorme popolarità anche nel Tardo Impero. A volte, però, il tifo degenerava nel sangue. A Salonicco, nel 390, l’incarcerazione di un fantino idolo della città dovuta a ragioni di buon costume, indusse la popolazione ad assaltare le prigioni per liberarlo, arrivando perfino a uccidere alcuni ufficiali della guarnigione della città. L’imperatore Teodosio, facile all’ira, ordinò come punizione una carneficina indiscriminata che i soldati eseguirono nel circo, dove la popolazione era stata invitata ad assistere ad uno spettacolo: sulle gradinate rimasero migliaia di morti.

Il vescovo di Milano Ambrogio, disgustato dalla tragedia, lo perdonò solo dopo una lunga ed umiliante penitenza. Il potere temporale dello Stato piegava cosi per la prima volta le ginocchia davanti al potere spirituale della Chiesa, e lo faceva a causa di una semplice corsa di carri.

Le corse cessarono del tutto nel 545 d.C., con l’ultima rappresentazione data da Totila.

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