GLI SPETTACOLI TEATRALI
Nell’Antica Roma, il panorama delle rappresentazioni teatrali, che pure avevano tutte una matrice religiosa più o meno evidente, soprattutto nell’età più antica, era estremamente vario. All’inizio dell’era repubblicana confluirono infatti a Roma elementi e forme d’arte scenica dalle zone centro-italiche, facendo scattare un processo di elaborazione che ricevette un apporto decisivo dal contatto con le opere greche nel III secolo a.C.
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LE FORME DI SPETTACOLO ARCAICHE
La più antica forma di spettacolo a Roma furono i fescennini, di origine etrusca. In essi, giovani con il viso tinto di rosso o con rozze maschere di corteccia si scambiavano battute salaci, alternate a canti rustici e a versi licenziosi.
La prima rappresentazione teatrale sembra essere stata la satura, caratterizzata da un’estrema varietà di argomenti, che avrebbero fuso la musica e la danza etrusca con i fescennini romani. Le saturae avrebbero avuto origine nel 364 a.C., costituendo il nucleo dei Ludi Scaenici, istituiti a Roma in quell’anno in occasione di una pestilenza per placare gli dèi, come raccontava lo storico Livio.
Intorno al 300 a.C. venne introdotta a Roma l’Atellana, che prendeva il nome da Atella in Campania. La trama dell’Atellana era caratterizzata da intrighi, equivoci e incidenti. I personaggi erano maschere fisse, che spesso sono state avvicinate dagli esperti alla commedia dell’arte: la figura di Maccus il mangione, ad esempio, viene da taluni ritenuta una prefigurazione di Pulcinella. Di durata contenuta e di breve respiro, l’Atellana fu successivamente oggetto di un processo di elaborazione, tanto che a partire dal II secolo a.C. acquisì una propria dignità letteraria come farsa finale o sketch negli intervalli, sopravvivendo fino all’epoca imperiale avanzata.
TRAGEDIE E COMMEDIE
Le rappresentazioni teatrali ebbero una vera impronta letteraria solo dopo il 241 a.C., con l’arrivo a Roma di Livio Andronico. Questi tradusse dal greco e scrisse tragedie e commedie di soggetto greco, così come i suoi successori Nevio e Ennio (III-II secolo a.C.), i quali, trattando anche argomenti della storia romana, dettero origine alla tragedia romana.
Tragediografi assai celebrati furono Accio e Pacuvio (II secolo a.C.), ma di essi non ci sono giunte le opere. Le uniche tragedie conservatesi fino ai giorni nostri sono quelle di Seneca, che visse nell’età di Nerone (I secolo d.C.). Le tragedie, tutte di soggetto mitologico, si impongono per la violenza di alcune situazioni, per il gusto dell’orrido, per gli aspetti macabri tali da indurre a pensare che non fossero state scritte per essere rappresentate, ma solo per essere lette.
Se le tragedie di epoca repubblicana sono oggi quasi sconosciute, tranne pochi versi, ben altra fama e notorietà hanno ancor oggi le commedie di questa fase storica. Quelle di Plauto (III secolo a.C.), ad esempio, erano tutte di soggetto greco, anche se in realtà di spirito e sapore romano, con una vivacità e attualità che permette di riproporle con successo anche oggi; quelle di Terenzio (II secolo a.C.) avevano un tono più pensoso e riflessivo; sono invece andate quasi totalmente perse le commedie di Cecilio, che raggiunse considerevole notorietà al suo tempo.
MIMI E PANTOMIMI
Se in epoca tardo-repubblicana e nel primo periodo imperiale si rappresentavano e scrivevano tragedie, commedie ed anche drammi satireschi su modelli e soggetti greci, tuttavia, già dal I secolo a.C., avevano preso piede due generi destinati a soppiantare nel gusto del pubblico le rappresentazioni di tipo greco: il mimo e il pantomimo.
Il primo era di soggetto comico, frequentemente erotico: problemi familiari, con padri troppo severi e mogli troppo vivaci, si alternavano a scene di satira politica che non risparmiavano i grandi del momento, come ad esempio Giulio Cesare. Il linguaggio era audace e licenzioso, talvolta decisamente osceno. Sulla scena si alternavano canti, balli e recitazione. Il mimo era senza dubbio lo spettacolo più all’avanguardia, più innovatore: era l’unico, infatti, in cui gli attori non indossavano la maschera ed erano, quindi, presenti anche le donne le quali anzi talvolta, su richiesta del pubblico, si esibivano in uno spogliarello finale.
Il pantomimo, introdotto a Roma nel 22 a.C. da Pilade e Batillo, era di soggetto tragico desunto dal mito e talvolta dalla storia. Il protagonista era più che altro un danzatore, spesso un acrobata che danzava e mimava, mentre ai margini della scena un attore narrava gli avvenimenti accompagnato dal suono di alcuni strumenti e dal canto dei coristi. Un pantomimo è descritto nell’Asino d’Oro di Apuleio, incentrato sull’episodio mitologico del Giudizio di Paride. Pur senza alcun impegno intellettuale, il pantomimo appare molto gradevole, destinato al successo per numerosi elementi: la bravura dei protagonisti, la bellezza dei giovani che impersonano gli dèi, l’effetto estetico dei corpi nudi, l’espressività, la danza, la musica.
In pieno periodo imperiale fu introdotto un genere del tutto particolare: il tetimimo. Si trattava di un balletto acquatico, simile all’attuale nuoto sincronizzato, che si svolgeva in alcuni teatri dove l’orchestra era trasformata in piscina (colimbetra). Esibizioni di nuotatori e soprattutto di nuotatrici quasi totalmente nude, che simulavano avvenimenti mitologici, o quali novelle Nereidi componevano varie figure (il tridente, l’ancora, il remo, la nave), si svolgevano anche negli edifici predisposti per le naumachie.
SCENOGRAFIE E MACCHINE TEATRALI
Le rappresentazioni teatrali si svolgevano di giorno: il sipario si abbassava scomparendo nella fossa al bordo del palcoscenico ed iniziava la rappresentazione. La situazione era molto diversa da quella attuale: infatti alla luce del sole, nel teatro all’aperto, tutto l’edificio teatrale era visibile e la scenografia non poteva puntare a facili effetti illusionistici. Tuttavia, è ampiamente documentato l’uso di scenografie che nelle strutture romane talvolta coprivano parzialmente la scaenae frons o si inserivano in vario modo all’interno di essa; erano usati infatti pinakes, quadri fissi, e periaktoi, prismi dipinti, con le varie facce che ruotavano su un perno centrale per cambiare la raffigurazione.
Gli scenari variavano a seconda del genere di rappresentazione: porticati con vedute di templi per la tragedia, vedute di citta con case per la commedia, grotte con giardini, pergole e fontane per il dramma satiresco. Gli attori entravano sul palcoscenico dalle tre porte: quella centrale, la regia, era riservata ai personaggi più importanti; quelle laterali, le hospitalia, erano utilizzate dagli altri. Il palcoscenico era una striscia lunga e stretta, molto diverso dai palcoscenici profondi cui siamo abituati oggi. Gli attori, quindi, avevano qualche limitazione nella recitazione, e soprattutto non potevano esibirsi in molti; per spettacoli di ampio respiro probabilmente erano necessari adattamenti che garantissero un ampliamento dello spazio e l’utilizzazione dell’orchestra.
Frequente era l’uso di macchine teatrali: l’ekkiklema, una piattaforma ruotante provvista di una struttura al centro (trono, tenda, casa), nella quale si svolgevano i fatti che non si riteneva opportuno mostrare al pubblico (al quale però si mostrava, facendo ruotare la piattaforma, l’esito dell’azione svolta, per esempio, i cadaveri dopo un assassinio); la mechanè, un gancio legato ad una carrucola posto in alto alla scena, per mezzo del quale apparivano gli esseri volanti e gli dèi (il deus ex machina di Euripide ne era l’esempio più lampante); infine le scale di Caronte, una botola aperta nell’orchestra collegata ad un passaggio che conduceva all’esterno della scena, mediante il quale era possibile simulare apparizioni dall’ Oltretomba.
GLI ATTORI E LE COMPAGNIE
A Roma esistevano vere e proprie compagnie teatrali, professionalmente strutturate, dalle quali venivano escluse le donne. Erano amministrate da un capocomico, il Dominus Gregis, che provvedeva ad accordarsi e ad acquistare il diritto di rappresentazione con l’autore dell’opera, pagava l’autore delle musiche, provvedeva agli attori, ai musici, ai costumi, alle maschere e, infine, all’allestimento della rappresentazione. Il magistrato o il privato che organizzava i giochi (in epoca imperiale, anche l’Imperatore, sebbene in modo più sporadico rispetto ad altri spettacoli) trattavano direttamente con il capocomico. Anche i mimi avevano compagnie teatrali stabili ed erano miste, maschili e femminili, con un capocomico o una capocomica.
I compensi degli autori non erano molto alti. Notevoli, invece, erano le cifre corrisposte agli attori, dalla cui abilità nella recitazione dipendeva il successo o il fallimento di un’opera. Vertiginosi risultano i compensi di Roscio e di Esopo, attori vissuti all’epoca di Cicerone.
Poiché chi calcava le scene perdeva i diritti civili, gli attori provenivano abitualmente dalla classe degli schiavi e dei liberti. Sintomatico è l’episodio legato a Decimo Laberio, di famiglia equestre, autore di mimi. Spesso irriverente nei riguardi di Cesare (a lui si fa risalire la celebre frase rivolta a Cesare “Deve avere paura di molti chi a molti fa paura”), fu da quest’ultimo costretto a recitare per gareggiare con Publilio Siro, uno schiavo affrancato di origine siriana, scrittore e attore di mimo. Laberio recitò, ne uscì sconfitto e fu “declassato” dal rango equestre.
Tuttavia Cesare mostrò semplicemente di aver voluto dare una lezione simbolica all’irriverente autore: secondo le cronache dell’epoca, dopo averlo fatto scendere di classe sociale, gli donò mezzo milione di sesterzi e un anello d’oro, reintegrandolo in tal modo nel rango equestre, perduto per aver recitato.
LA BRAVURA DEI MIMI
Eccezionalmente capaci erano i mimi, che dovevano fare assegnamento solo sulla loro bravura, nell’espressione e nella gestualità, anche se contemporaneamente dovevano recitare e cantare. Le mime erano applauditissime e celebrate non solo per la loro avvenenza, ma anche per la loro bravura. L’epigrafe sepolcrale di una tale Eucharis, rinvenuta a Roma, la proclama attrice di mimo tanto brava da sembrare essere stata alunna della Muse stesse. Una stele di Aquileia loda l’attrice Bassilla: “Ebbe sulle scene una fama che risuona lontano, presso molti popoli e in molte città; fu dotata di molteplici talenti tanto nei drammi che nei cori; spesso morta sulle are del sacrificio, ma mai come ora”.
I pantomimi dovevano avere una considerevole preparazione atletica ed essere magrissimi, data la molteplicità dei ruoli che coprivano; dovevano inoltre conoscere a fondo storia e mitologia, nonché avere un senso spiccato della poesia e dell’armonia. Quintiliano, nelle Institutiones Oratoriae, così li descrive: «Le loro mani domandano e promettono, chiamano e congedano; interpretano l’orrore, la paura, la gioia, la tristezza, l’esitazione, la confessione, il pentimento, il ritegno, l’abbandono, il numero e il tempo. Eccitano e calmano, implorano e approvano, hanno un potere di imitazione che sostituisce le parole; per rievocare la malattia simulano il gesto del medico che tasta il polso, per suggerire la musica dispongono le dita a guisa del suonatore di lira».
I pantomimi erano idolatrati dalle folle, che non si tiravano indietro di fronte a nulla per l’affermazione del proprio favorito, esattamente come succedeva in altre competizioni. In età tiberiana uno scontro tra fanatici che parteggiavano per due diversi pantomimi ebbe come conseguenza la morte di molti soldati. Pilade e Batillo, gli stessi che introdussero il pantomimo a Roma, erano famosissimi e le loro rappresentazioni erano in assoluto le preferite da Augusto, che tuttavia, da un punto di vista politico, fu costretto ad adoperarsi per far risorgere il teatro colto di origine greca.
Spesso oggetto di ammirazione e di desiderio da parte di uomini e donne delle più nobili famiglie, i pantomimi venivano talvolta investiti dalle gelosie, finendo per pagare con la vita i propri privilegi. Così, ad esempio, l’imperatrice Domizia s’innamorò del pantomimo Paride, che per questo fu fatto assassinare da Domiziano; gli ammiratori di Paride, che indugiavano sul luogo dell’uccisione deponendo fiori e spargendo unguenti, decisero di allontanarsi solo in seguito alla minaccia di morte pronunciata dall’Imperatore.
Caligola, secondo la cronaca di Svetonio, “abbracciava il pantomimo Mnestre anche in pieno spettacolo e, se qualcuno osava bisbigliare mentre egli danzava, lo faceva alzare dal suo posto e lo frustava con le sue mani”. Amato dall’imperatore, Mnestre fu però fatto assassinare da Claudio perché troppo apprezzato dall’imperatrice Messalina, facile agli amori extraconiugali.
GLI EDIFICI TEATRALI
Senza dubbio i teatri sono l’edificio per lo spettacolo più diffuso nel mondo antico, probabilmente perché assolvevano anche ad una funzione politica, in quanto luogo di assemblee.
Negli edifici teatrali romani le tre parti costitutive del teatro greco (la cavea, l’orchestra, la scena) si saldavano in un unico organismo architettonico, che poteva vivere in modo autonomo, su qualsiasi terreno, non avendo più bisogno di un pendio a cui appoggiare le gradinate.
A Roma per molto tempo si utilizzarono strutture effimere note dalle fonti, talvolta di considerevoli dimensioni e di notevole ricchezza. Solo alla metà del I secolo a.C. Pompeo poté erigere un teatro stabile in una sua proprietà, al di fuori del pomerio, grazie ad una mediazione politico-religiosa. Pompeo ricorse infatti all’artificio di proporre la cavea come una sorta di scalinata d’accesso al Tempio di Venere Vincitrice che si trovava alla sommità.
A Roma furono poi erette altre strutture stabili: il Teatro di Balbo e quello di Marcello, ad esempio, oltre ad un teatro costruito da Traiano e, in seguito, distrutto da Adriano.
LE AUDIZIONI MUSICALI
Nel mondo antico la musica era parte integrante di tutti gli spettacoli, e perfino le lotte dei gladiatori erano talvolta accompagnate dal suono di alcuni strumenti. Esistevano comunque manifestazioni riservate solo alla musica, i concerti, per i quali era stato creato un edificio apposito: l’odeon.
Questo era simile ad un teatro, dal quale si differenziava perché era coperto con un tetto, elemento indispensabile per garantire una buona acustica, e quindi per lo più inserito in una struttura perimetrale rettangolare o munita di contrafforti. Gli odea non erano però molto diffusi: in Italia ne sono presenti una decina, di cui uno a Roma, eretto dall’Imperatore Domiziano.
Grazie come sempre pubblicate cose interessantissime.
un meraviglioso articolo che ci introduce nella comunicazione e nello spettacolo come erano gestiti nell’antica Roma, qualcosa che penetra nel profondo di noi e ci fa emozionare. Complimenti per l’articolo molto approfondito e ben sviluppato Sara .