Gli spettacoli nell’Antica Roma (4/4)

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I GIOCHI NELL’ANFITEATRO

Fra gli spettacoli organizzati a Roma, gli ultimi in ordine cronologico possono essere considerati sono i combattimenti dei gladiatori e quelli venatori, per i quali venne creato un edificio apposito: l’anfiteatro. Prima della creazione di tale edificio, i giochi gladiatori vennero per lungo tempo rappresentati nel Foro Romano, dove gli archeologi sono stati in grado di trovare i resti dei pozzi delle camere di manovra con le tracce dei sistemi degli argani.

Secondo la tradizione e la narrazione dello storico romano Livio, i combattimenti gladiatori furono introdotti a Roma nel 264 a.C. dai figli di Bruto Pera, i quali in occasione del funerale del padre fecero lottare tre coppie di gladiatori. Da allora tali combattimenti proseguirono mantenendo un simbolico valore funerario fino all’età di Cesare; successivamente, essi divennero solo “spettacoli” nel senso più largo del termine, fin quando l’imperatore Augusto decise di regolamentare la materia, obbligando i magistrati municipali alla rappresentazione di uno spettacolo annuale (due per i Pretori di Roma), riservando a sé la promozione di un certo numero di spettacoli straordinari.

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PRO E CONTRO DEI GLADIATORI

Perché i combattimenti fra gladiatori, che oggi ci lasciamo piuttosto sconcertati di fronte alla loro crudeltà, erano ai tempi dell’Antica Roma vissuti in modo più “spensierato”?

Da un lato non si dava piena importanza alla vita umana, considerato che gli schiavi erano considerati alla stregua di strumenti di lavoro e i condannati a morte venivano stimati esattamente come le belve: basti pensare all’epigrafe di un magistrato campano, che ricorda la sua organizzazione di uno spettacolo elencando “quattro fiere, sedici orsi, quattro condannati ed alcuni animali erbivori”, facendo di tutta l’erba un fascio.  

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Dall’altro lato, tanto era radicato il concetto che il vero uomo dovesse essere coraggioso e sprezzare il dolore, che Plinio il Giovane lodava espressamente i combattimenti gladiatori, perché altamente educativi ed in grado di abituare i giovani a non temere la morte. In realtà, anche ai tempi dell’Antica Roma si levarono voci discordanti, come quelle del filosofo Seneca, dell’avvocato Cicerone e di Imperatori come Tiberio e Marco Aurelio, con quest’ultimo fermamente intenzionato a ridimensionare e a rendere più umani i Ludi Gladiatori, ma tutte queste opinioni si rivelarono voci fuori dal coro e tutti questi provvedimenti furono provvisori ed inutili. Solo il Cristianesimo, portatore di nuovi valori, riuscì a tramutare l’esaltazione dei Romani in vergogna: pur formalmente proibiti da Costantino, essi proseguirono di fatto fino al 406 d.C. quando vennero aboliti da Onorio.  

Abitualmente, in realtà, i generali vittoriosi e gli imperatori offrivano al popolo spettacoli di combattimento grandiosi. Giochi eccezionali furono organizzati da Pompeo e da Cesare, il quale, abilissimo nel procurarsi il favore del popolo, spese interi patrimoni sia quando era Edile sia in occasione del suo trionfo. Memorabili furono i Ludi offerti da Tito in occasione dell’inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio, che durarono 100 giorni, e quelli offerti da Traiano nel 109 per il suo trionfo sui Daci, nei quali secondo le cronache perirono 10.000 uomini.

LA VITA DEI GLADIATORI

Gli spettacoli tra i gladiatori erano annunciati alla popolazione con volantini e con le consuete scritte sui muri degli edifici pubblici e privati, come testimoniano gli esemplari sulle case di Pompei. Nei giorni che precedevano i combattimenti, mentre la gente si preparava al grande avvenimento, i gladiatori, organizzati militarmente nella familia (compagnia), rifinivano nella caserma la preparazione affidata alle cure degli istruttori (doctores), sotto la supervisione del lanista, una figura losca di manager tuttofare che si occupava dell’addestramento e dei relativi proventi. Solo a Roma, la funzione dei lanisti era ricoperta da specifici funzionari imperiali, detti procuratores.

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I gladiatori erano per lo più schiavi, prigionieri di guerra, criminali condannati a morte a vario titolo; a volte però, seppur raramente, essi potevano anche essere uomini liberi, figli di nobili famiglie rovinate, in cerca di notorietà e ricchezza.

La disciplina della vita di caserma era dura, crudele ed impietosa, tanto da spingere persino alcuni gladiatori al suicidio: le celle dove alloggiavano erano buie e sporche, l’aspettativa di vita non era certo lunghissima, e spesso ci scappava anche qualche omicidio per rivalità. Il loro addestramento si svolgeva nel Ludus, che era una sorta di prigione: essendo guerrieri preparati ed allenati, difatti, i gladiatori potevano arrecare enormi problemi allo Stato, come accadde con la rivolta di Spartaco originata nel 73 a.C. nel Ludus di Capua, una delle più antiche scuole gladiatorie.

A Roma, nei pressi del Colosseo, vi erano vari Ludi: il Dacicus, il Gallicus, il Matutinus (destinato ai venatores) e il Ludus Magnus, del quale sono ancor oggi visibili ampi resti.

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L’AMORE PER I GLADIATORI

In una vita decisamente grama e pericolosa, le uniche due consolazioni per i gladiatori erano il cibo, preparato seguendo precise ricette al fine specifico di aumentare la massa muscolare, ed il fascino straordinario esercitato sull’universo femminile. Sono noti i versi di Giovenale in cui viene oltraggiata la matrona romana Eppia innamorata follemente di un gladiatore che, a detta del poeta, era “brutto e vecchio”. Significativo è anche il ritrovamento, nella caserma dei gladiatori di Pompei, del corpo di una matrona romana ingioiellata, sorpresa dall’eruzione del Vesuvio al termine di un probabile amplesso amoroso.

La passione per tali uomini non veniva meno neppure nella famiglia imperiale: si sussurrava infatti che Faustina Minore, la moglie di Marco Aurelio, avesse concepito Commodo da un gladiatore, cosa che avrebbe spiegato indirettamente la passione di Commodo stesso per i giochi gladiatori, tanto da combattere in prima persona nell’arena.

I gladiatori, la sera prima del combattimento, partecipavano ad un grande banchetto, a cui poteva assistere un pubblico pagante, costituito soprattutto dai fanatici di tali manifestazioni: il clima doveva essere letteralmente delirante, fatto di incoraggiamenti e gozzoviglie, pianti e ultime raccomandazioni, approcci espliciti e lusinghe velate.  

LE VENATIONES

La giornata di giochi si apriva con le venationes, ossia le cacce, che si tenevano di prima mattina e che erano quindi frequentate solo dagli spettatori più accaniti, sebbene lo spettacolo non fosse secondo a nessuno per ferocia.

Le cacce furono introdotte a Roma nel 252 a.C. quando il Senato offrì al popolo romano uno spettacolo in cui due elefanti catturati ai Cartaginesi dal console Cecilio Metello durante la Prima Guerra Punica furono uccisi con lance e frecce, presumibilmente nel Circo Massimo. Un’altra caccia fu quella offerta nel 186 a.C. da Marco Fulvio Nobiliore nel 186 a.C. a seguito della vittoria sugli Etoli, con gli animali che furono catturati appositamente per lo spettacolo.

Poteva trattarsi di lotte fra animali (elefanti contro rinoceronti, ippopotami contro bufali, tigri contro leoni, ecc.), di una vera e propria esecuzione di centinaia di animali resi furiosi dalle frecce scagliate da arcieri ben protetti dietro le reti di recinzione, ma soprattutto di una lotta tra cacciatori e belve in un ambiente naturale ricostruito scenograficamente con alberi, cespugli, rocce e rigagnoli d’acqua.

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Tendenzialmente, i duelli tra venatores e animali seguivano il criterio della provenienza: gli Orientali combattevano contro tigri ed elefanti, i Celti contro gli orsi, gli Africani contro i leoni. I cacciatori combattevano a piedi, ma talora giungevano nell’arena a cavallo o su carri. Una categoria particolare era costituita dai taurarii, che lottavano contro tori infuriati che alla fine uccidevano mediante lo spiedo.

A dare retta alle cronache, lo scempio faunistico dovette essere enorme, con specie in serio rischio di estinzione, come l’ippopotamo nella Nubia, l’elefante nell’Africa del nord o il leone nella Mesopotamia. E se qualcuno potrebbe trovare agghiaccianti i numeri del lungo impero di Augusto, durante le cui venationes furono trucidati 3500 animali selvatici, ancor più incredibili sono i numeri inerenti l’inaugurazione del Colosseo, quando secondo le cronache ne furono uccisi 5000, ed i giochi organizzati da Traiano in seguito alla sua vittoria sui Daci, con oltre 11000 belve abbattute.

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In carneficine di queste dimensioni operavano organizzazioni altamente efficienti, che provvedevano alla cattura, al trasporto, al mantenimento ed all’addestramento delle belve.

La passione dei Romani per questo tipo di spettacolo fu davvero dura a morire, ancore più dei combattimenti fra i gladiatori: solo Totila infatti, nel VI secolo, riuscì a vietare definitivamente le venationes. D’altronde Plinio il Giovane, nel Panegirico a Traiano, annotava che le cacce erano connaturate all’indole e all’educazione dei giovani romani.

L’INGRESSO DEGLI SPETTATORI

Come detto, solo alcuni fedelissimi facevano da spettatori alle venationes; il grosso del pubblico arrivava più tardi. L’Anfiteatro Flavio, il più imponente del mondo antico con 45.000/50.000 posti a sedere ed almeno 5.000 in piedi, mostra ancora oggi in modo chiaro le soluzioni adottate dagli architetti romani per la regolazione dell’accesso e del deflusso degli spettatori.

Questi ultimi, muniti di apposita “tessera”, attraversavano ordinatamente una delle 76 arcate, passando quindi nelle gallerie che conducevano al posti assegnati, di cui le tessere portavano l’indicazione: nulla di diverso dall’accesso ad una tribuna numerata di un moderno stadio!

La disposizione degli spettatori sugli spalti rispettava una precisa gerarchia sociale. A contatto con la rete di protezione dell’arena era la loggia riservata all’imperatore ed alla sua famiglia; sul fronte opposto quella dei magistrati della città; seguivano le classi sociali più elevate (senatori e cavalieri), fino ali posti in piedi riservati alle donne e agli schiavi nelle terrazze più alte.

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Molto spesso l’atmosfera si riscaldava pericolosamente, arrivando persino a gigantesche risse. La più famosa, citata anche dallo storico Tacito, si svolse nel 59 d.C. nell’anfiteatro di Pompei tra Nocerini e Pompeiani, con centinaia di morti e feriti: il Senato decretò la soppressione degli spettacoli a Pompei per dieci anni. La similitudine con recenti tragedie negli stadi di calcio è impressionante, anche nella punizione con la squalifica dal campo.

I MUNERA GLADIATORIA

Il giorno del munus, per prima cosa, si svolgevano nell’anfiteatro un corteo rituale ed una parata in cui sfilavano i gladiatori. Lo spettacolo vero e proprio iniziava con un’esibizione di scherma, eseguita con armi non taglienti, a cui poi seguivano i combattimenti con armi regolari. Una coppia di gladiatori, annunciati dall’araldo, scendeva nell’arena e si scambiava qualche colpo di «riscaldamento» per poi procedere al duello, che era solitamente accompagnato dal suono di alcuni strumenti musicali (corno, tromba, flauto, siringa).

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La folla seguiva con accanimento la lotta, incitando con urla i suoi beniamini, e si placava solo quando cominciava a veder scorrere il sangue, finché uno dei due risultava perdente e gettava lo scudo in segno di resa, attendendo il verdetto. Il gladiatore sconfitto, infatti, poteva essere graziato o ucciso: era l’Imperatore o l’organizzatore dei giochi a decidere della sua vita, adeguandosi per lo più alle richieste del pubblico. Il gladiatore ucciso era portato via da inservienti vestiti da Caronte e Mercurio Psicopompo, per poi essere seppellito senza alcuna formalità.

I vincitori ricevevano invece la palma della vittoria e talvolta vassoi di aurei e dinari. Talvolta al gladiatore anziano che aveva sempre combattuto comportandosi onorevolmente veniva data la rudis, una spada di legno che significava il ritiro dal combattimento e quindi il ritorno alla libertà.

I COMBATTIMENTI

I gladiatori combattevano solitamente in coppia oppure anche in più coppie contemporaneamente. Indossavano un perizoma, avevano per lo più le gambe protette da schinieri e le braccia dalla manica metallica, portavano sulla testa e le spalle il galerus (un elmo a forma di berretto), ma non sempre avevano spada e scudo.

I gladiatori, infatti, non erano tutti uguali, ma differivano per il tipo di armamento legato alle aree geografiche e nazionali di provenienza. Le contrapposizioni tra diversi tipi di duellanti erano standardizzate e si ripetevano regolarmente.

Un accoppiamento tipico era quello tra il retiarius ed il murmillo oppure il secutor (l’inseguitore). Il retiarius, come fosse un pescatore, era provvisto di un tridente con cui teneva lontano l’avversario e di una rete per catturarlo, mentre il murmillo, come il pesce (murma) che era raffigurato sull’elmo, si difendeva con una corta spada ed uno scudo rettangolare. Il secutor calzava invece un elmo a calotta per non offrire appigli alla rete del retiarius.

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Un’altra coppia era quella del trax contro lo hoplocamus. Il primo era caratterizzato da un grande elmo crestato, un piccolo scudo e una corta spada ricurva, mentre il secondo impugnava invece un grande scudo, un gladio ed un elmo piumato.

Altri gladiatori erano il provocator, che grazie ad un allenamento polivalente poteva combattere con chiunque, il dimachaerus armato di due coltelli, il loquererius provvisto di laccio (loqueus) e mazza, lo scaeva (mancino) che combatteva con la spada nella sinistra, l’eques che combatteva a cavallo e l’essediarius, che montava su carro (esseda).

Infine vi erano i paegnarii (i gladiatori che combattevano “per gioco”), armati solo di un bastone di legno e di una frusta: essi si esibivano nell’intervallo della giornata, senza concludere il loro combattimento con l’uccisione di uno dei due.

LE ESECUZIONI PUBBLICHE

Nell’intervallo del mezzogiorno, oltre ai paegnarii, nell’anfiteatro si svolgevano talvolta le esecuzioni capitali, che avevano un chiaro valore politico e educativo.

Si parla per la prima volta di esecuzioni pubbliche di condannati a morte nel 167 a.C. quando Emilio Paolo, dopo la vittoria su Perseo, fece schiacciare da elefanti i disertori dell’esercito romano appartenenti a nazioni straniere. Un ventennio dopo, nel 146 a.C., Scipione Emiliano, vittorioso su Cartagine, fece di nuovo condannare alla “damnatio ad bestias” i disertori stranieri. Gli stessi Imperatori Tito e Costantino, secondo le cronache, organizzarono simili esecuzioni pubbliche.

Nel caso di singoli condannati a morte, era tradizione simulare specifiche situazioni mitologiche: i disgraziati venivano precipitati da alte impalcature come se fossero Icaro, oppure venivano straziati dalle fiere come nella storia di Orfeo, oppure ancora erano massacrati dal toro, riproponendo la leggenda di Pasife.

Si trattava di esecuzioni particolarmente cruente. Lo dimostra perfettamente Seneca che, capitato quasi per caso di fronte ad una di queste condanne a morte, esclamò: “Al mattino gli uomini sono dati in pasto ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori”.

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