Vincent Van Gogh

Vincent Van Gogh, Vincent Van Gogh, Rome Guides

LA LUCIDA FOLLIA DI VINCENT VAN GOGH

I cipressi dovevano apparirgli belli come obelischi egizi.

Per Vincent van Gogh la natura era commovente e aveva un’anima: eppure, riprodurla così come si presentava dinanzi ai suoi occhi non lo interessava minimamente. Basta, in tal senso, leggere le parole scritte alla sorella: “la poesia si può esprimere anche con linee bizzarre, che non vogliano rendere il giardino nella sua consueta verosimiglianza, ma riproporlo come visto in sogno, ossia al tempo stesso nel suo vero carattere ma assai più strano di quanto esso sia nella realtà”.

Come aveva riassunto l’amatissimo fratello Theo, mercante d’arte parigino che, non riuscendo a venderne le opere, era stato costretto ad ammucchiarle in un magazzino, Vincent Van Gogh cercava il simbolo attraverso la deformazione della forma.

Il rapporto intenso, stretto e complesso, fra Vincent e Theo è poeticamente ed artisticamente rievocato dal mirabile ed emozionante monologo dell’amico, attore e regista Vania Castelfranchi, nel suo spettacolo “Lettere a Theo”, che allego con piacere a questo articolo.

MOLTO DISPREZZO E POCHI APPREZZAMENTI

Erano in pochi, allora, a percepire la sua grandezza. Di solito erano tutti pittori, e tra i più convinti assertori c’era Camille Pissarro che, dopo aver visto per la prima volta i quadri di Van Gogh, consegnò la sua previsione alla storia: “Quest’uomo diventerà pazzo o farà mangiare la polvere a tutti. Se poi farà l’uno e l’altro, non sono in grado di prevederlo”.

Anche nel mondo dell’arte, ovviamente, non mancavano i suoi detrattori. Nel gennaio 1890, in occasione di una mostra di gruppo a Bruxelles, alla quale Van Gogh partecipava con sei opere, il pittore francese Henry de Groux, che aveva discreta fama grazie ai suoi soggetti religiosi, bocciò con parole sprezzanti “quello schifo di girasoli di un certo signor Vincent”. Henri de Toulouse-Lautrec, legato a Van Gogh da un profondo affetto, sfidò de Groux a duello, ma fortunatamente la lite non degenerò grazie all’intervento di una terza persona che riuscì a placare gli animi.

Ciò nonostante, quella mostra rappresentò, a modo suo, un modesto successo per Van Gogh. Anne Boch, sorella del pittore Eugene Boch, che due anni prima era stato ritratto proprio da Van Gogh, decise di acquistare per 400 franchi Il vigneto rosso di Arles. Fu l’unica tela venduta dall’artista, e per un prezzo obiettivamente modesto: solo ai fini di fare una comparazione, sei mesi prima un quadro di Jean Francois Millet, uno dei maggiori esponenti del Realismo francese, era stato venduto (pochi mesi dopo la morte del pittore) per mezzo milione di franchi.

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Lo stesso Van Gogh, in realtà, non coltivava al meglio i propri rapporti sociali. Dopo la mostra, il giovane critico francese Albert Aurier pubblicò un articolo dedicato all’opera di Van Gogh intitolato Les Isolées: Vincent van Gogh, che per primo analizzava ed esaltava la pittura del geniale artista olandese. Fu la prima (e sarà anche l’unica) volta in vita che Van Gogh ebbe un riconoscimento critico ufficiale, ma Vincent, sempre più preda dei suoi fantasmi, non gradì neppure quell’attenzione e pregò suo fratello Theo di riferire a Aurier di non scrivere più alcun altro articolo sulla sua pittura: “Sono troppo sopraffatto dal dolore per riuscire ad affrontare qualsiasi pubblicità. Fare quadri mi distrae, ma sentirne parlare mi addolora più di quanto egli non si renda conto”.

I PRIMI LAVORI

Pur avendo lavorato per anni, fra il 1869 e il 1876, presso la Casa d’Arte Goupil fra Bruxelles, L’Aia, Parigi e Londra, Van Gogh non si era mai dedicato alla pittura. Il suo lavoro consisteva infatti nella vendita di riproduzioni di opere d’arte e il giovane Vincent sembrò molto interessato al suo lavoro, che lo obbligava a un approfondimento delle tematiche artistiche e lo stimolava a leggere e a frequentare musei e collezioni d’arte.

Solo dal 1880 scelse di dedicarsi alla pittura, influenzato da Delacroix e Millet, con colori scuri e terrosi. La sua tavolozza iniziò a schiarirsi solo nel 1885, quando Van Gogh scoprì la pittura di Rubens e le silografie giapponesi, che appese in camera da letto.

Se il suo primo stile non riscosse alcun successo, questa progressiva variazione cromatica non andò meglio. I riconoscimenti tardavano ad arrivare. L’artista che in pochissimi anni avrebbe cambiato radicalmente il corso della storia dell’arte, aprendo la strada ad una gran quantità di Maestri del Novecento, andava incontro ad altre inesorabili e continue delusioni.

Nel 1886 l’Accademia di Anversa bocciò il suo lavoro, rimandandolo nella classe dei principianti.

Un rigattiere, che aveva acquistato una settantina di quadri lasciati da Vincent nella casa della madre a Nuenen, in Olanda, ne vendette qualcuno per pochi centesimi e decise di bruciare tutti gli altri, preferendo non occupare spazio nella sua cantina.

ARLES

Van Gogh, intanto, continuava a sperimentare, dipingendo più di duecento quadri in due anni, senza farsi scoraggiare. Ad un certo punto, l’artista che (per usare le parole di Eugene Boch) “sognava grandi sognilasciò Parigi per Arles, attratto dalla luce e dai colori del Sud, nonché dal desiderio di fondare una vera e propria comunità di pittori. In questa atmosfera, Van Gogh iniziò ad utilizzare tonalità sature e dissonanti, dipingendo all’aperto e spesso di notte, fissando delle candele sul cavalletto e talvolta sul proprio cappello.  

Quando Paul Gauguin lo raggiunge, il 23 ottobre 1888, fra i due iniziarono nove settimane intensissime di collaborazione e competizione, amicizia e inimicizia, ammirazione e rivalità. I due si influenzarono reciprocamente, ma il lavoro e l’eccesso di emozionalità sfiancarono Vincent, che al culmine di una discussione con Gauguin si tagliò il lobo di un orecchio, consegnandolo alla prostituta di un bordello.

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Non era la prima volta che Vincent si autoinfliggeva volontariamente del dolore, facendosi del male: nel 1881, innamorato della cugina Kee che lo aveva respinto, aveva messo la mano sinistra sulla fiamma di una lampada a olio al fine di dimostrare la serietà delle proprie intenzioni: come risultato, una profonda ustione ed i parenti che sono costretti a sbatterlo fuori di casa a forza.

Questa volta, però, la crisi si rivelò immediatamente più grave: Vincent scelse di entrare volontariamente prima nella clinica psichiatrica di Saint-Remy (risalgono a questa fase del ricovero i due dipinti del Giardiniere e dell’Arlesiana, esposti presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna) e poi, su consiglio di Pissarro, in quella di Auvers-sur-Oise, dove lavorava il dottor Gachet.

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GLI ULTIMI MESI E LA MORTE

In questa fase, Vincent Van Gogh lavorò febbrilmente, come e più che mai, quasi che il lavoro potesse confortarlo. Negli ultimi tre mesi di vita, fra aprile e luglio 1890, dipinse più di ottanta quadri, quasi tutti di vertiginosa bellezza (fra cui l’emozionante Pietà, esposta ai Musei Vaticani).

Vincent sembrò aver capito di essere in lotta contro il tempo, e indirettamente anche contro se stesso. “La vita passa così, il tempo non ritorna, ma io mi accanisco nel mio lavoro. So che le occasioni di lavorare non ritornano, soprattutto nel mio caso, perché una crisi più violenta potrebbe distruggere per sempre la mia capacità di dipingere”. E pur conquistando nuovi ammiratori, fra cui Monet che ne esaltò il talento al Salon des Indépendants nel 1890, Van Gogh scriveva a suo fratello Theo: “Vedo arrivare il giorno del mio successo, e mi rammarico della mia solitudine e della mia triste esistenza qui, mentre guardo i campi attraverso le sbarre di ferro della mia cella”.

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In quel maggio 1890, Vincent si recò a Parigi a visitare Theo e sua moglie Jo: freschi sposini, avevano appena avuto un figlio. Jo lo descrisse con parole amabili: di buonumore, sempre a giocare con il nipotino, con colorito sano, pronto al sorriso, dall’aspetto risoluto.

Due mesi dopo, Vincent Van Gogh si sparò al petto.

Morì il 29 luglio, con Theo al fianco. Il fratello, che gli sopravvisse meno di sei mesi, scrisse di lui: “Vincent ha trovato la pace che non aveva potuto trovare sulla terra. Per me appartiene a quei martiri che muoiono sorridendo”.

Vincent Van Gogh morì così: l’artista che aveva rifiutato il volto più realistico delle cose, che ammetteva la diversità dell’universo affidandosi a debordanti effetti pittorici, era stato implacabile con se stesso, non accettando la propria diversità.

Difficile, se non impossibile, riassumere Vincent Van Gogh in un articolo di poche decine di righe.

Potremmo affidarci alle sue stesse parole, scritte dall’artista alla madre nel settembre 1889: “Guarda il mio autoritratto e vedrai che, pur avendo vissuto a Parigi, Londra e altre grandi città, continuo sempre ad avere l’aspetto di un contadino di Zundert. Solo che i contadini sono più utili all’umanità”.

Forse, per una volta, non c’è modo migliore di parlare di Vincent Van Gogh di quanto abbia fatto, a mio parere, la più spettacolare puntata del Dottor Who. Passo la parola e vado ad immergermi nella Notte Stellata.

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