La casa nell’Antica Roma (2/3)

Casa nell'Antica Roma, La casa nell’Antica Roma (2/3), Rome Guides

VIVERE A ROMA – LE INSULAE

L’insula, il grande caseggiato di appartamenti in affitto posizionati su più piani con le finestre affacciate sulla strada, può facilmente essere paragonata ad una costruzione di moderna edilizia popolare. Sebbene la domus rappresenti l’archetipo immaginativo della Roma Antica, la Capitale dell’Impero si basava sulle insulae: Roma era una megalopoli già nell’antichità.

Le insulae raccontano perfettamente la frenesia che permeava ogni metro della città antica, anche grazie alla successione delle botteghe poste al pianterreno, con la merce ben in vista sotto i portici e le insegne sui portoni, sormontate dai balconi sporgenti e dalle finestre allineate sulle facciate di pietra, mattoni e legno. 

Giovenale racconta perfettamente la caotica atmosfera dei vicoli di Roma. “A me pieno di fretta fa ostacolo l’onda della folla che mi precede, mentre quella che mi segue mi preme alle reni, come una falange compatta. Uno mi pianta un gomito in un fianco, un altro mi colpisce rudemente con una stanga, quello mi sbatte in testa una trave, quell’altro una botte. Le gambe si ingrossano di fango, da ogni parte grandi suole mi pestano i piedi, un militare mi trapassa l’alluce con i suoi chiodi”

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Roma viveva da secoli un insanabile rapporto tra scarsità di spazi edificabili ed aumento continuo ed incontrollabile della popolazione. Se si lanciasse uno sguardo panoramico al meraviglioso plastico di Gismondi conservato presso il Museo della Civiltà Romana, ci si renderebbe conto immediatamente della ingestibile congestione: escludendo l’area residenziale del Palatino, la zona religiosa del Campidoglio, gli ampi spazi monumentali del Campo Marzio ed i giardini dell’Esquilino, roba era un conglomerato urbano cresciuto senza alcuna regola. Il popolo romano si ammassava tra i mercati ed i magazzini del Tevere, l’Aventino, il Celio, la Suburra, il Viminale, l’Argileto ed in poche altre aree.

Quando poi, durante l’impero, la pressione demografica si fece insostenibile, la città trovò sfogo nell’unica direzione possibile, ossia sulla riva destra del fiume: ed ecco Transtiberim, trasformato in quartiere operaio.

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L’EVOLUZIONE URBANISTICA DI ROMA

Come era potuto avvenire tutto ciò, in secoli e secoli di legislazioni e sagge disposizioni? La materia urbanistica rappresentò sempre il tallone di Achille di Roma. Fin dal tempo delle Leggi delle XII Tavole (450 a.C.), si era cercato di dare ordine all’edilizia privata con l’obbligo di costruire i muri delle case ad una specifica distanza minima da quella del vicino, ma la scarsità degli spazi disponibili rese l’attività edilizia sorda alle leggi.

Vitruvio scriveva che “i cittadini sono così numerosi che bisogna costruire dappertutto abitazioni”; in tal senso, non potendosi costruire in larghezza, in epoca repubblicana si cominciò a costruire in altezza. Erano costruzioni fragili, tirate su con muri di mattoni crudi, con l’impiego massiccio di legno nei solai e nei soffitti, tutt’altro che rassicuranti per stabilità e per controllo: Livio racconta che una volta “nel Foro Boario un bove era salito da sé fino al terzo piano e di là si era precipitato giù atterrito dal tumulto degli inquilini”.

Ancora nel I secolo a.C. la situazione non era di molto migliorata. Cicerone, proprietario di una casa di affitto, informa con una certa amarezza l’amico Attico: “Mi sono crollate due taverne, e nelle altre i muri sono pieni di crepe. Non solo se ne vanno gli inquilini, ma anche i topi”

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L’Imperatore Augusto fu il primo a guardare con una certa apprensione la sua Roma, già fin troppo spesso funestata da furiosi incendi, basata su insulae che si sorreggevano a stento l’un l’altra, fatte apposta per rovinare tutte insieme. Augusto intervenne con una vasta opera di sistemazione dei quartieri, istituendo coorti di vigiles con compiti di pronto intervento in caso di incendi e di polizia notturna, ma soprattutto comprese che il momento era propizio per cambiamenti profondi nelle tecniche costruttive, anche grazie alla disponibilità di materiali più sicuri quali il mattone cotto al forno. La tanto desiderata svolta, però, non ci fu: nemmeno il potente primo Imperatore romano riuscì a fiaccare l’abusivismo o a scongiurare il pericolo dei disastri, nemmeno attraverso disposizioni della massima severità che limitavano l’altezza delle case a poco più di venti metri, pena l’abbattimento. 

DA NERONE ALLA FINE DELL’IMPERO

L’incendio di Nerone (64 d.C.), epilogo grandioso di una lunga serie di incidenti, diede ragione ai timori degli imperatori e fece giustizia dell’imprevidenza dei Romani. Tacito raccontò che “l’incendio impetuosamente vagò da principio per le zone piane, poi salì sulle colline e di nuovo devastò i luoghi bassi, prevenendo i rimedi a causa della velocità del disastro e della nociva conformazione della città, dalle strade strette e piegate qua e là e dai quartieri irregolari, quale era la vecchia Roma”

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È davvero suggestivo leggere, fra le parole del grande storico, l’aggettivo “vecchia” riferito a Roma. La “nuova” Roma, raccontataci anch’essa da Tacito, fu progettata secondo un preciso piano regolatore. “Fu misurata la struttura dei quartieri, si dette larghezza alle strade, si limitò l’altezza degli edifici, si aprirono le piazze, si aggiunsero portici a protezione delle facciate delle insulae. Gli edifici in determinate parti si dovevano costruire senza legno, con pietra gabina ed albana, che è refrattaria al fuoco. Gli edîfici non dovevano avere pareti comuni, ma ognuno i suoi muri”.

Come spesso accade, tutto questo rigore durò ben poco: la popolazione era infatti aumentata in misura esorbitante, e l’abusivismo riprese tumultuoso, come e più di prima. Abitare a Roma divenne un vero e proprio problema, anche per Giovenale: “A Praeneste o sulla rocca degradante di Tibur, chi ha mai paura che gli debba crollare addosso la casa? Noi invece vogliamo abitare in una città sostenuta in gran parte da travicelli malfermi, perché l’amministratore non sa porre altro rimedio alle mura cadenti; e quando ha tappato la fenditura di una vecchia crepa, ci dice di dormire tranquilli con quella continua minaccia sulla testa”. 

Traiano abbassò ancora l’altezza delle facciate sulla strada, portandola a meno di 18 metri. Siccome però, come sempre accade, fatta la legge viene trovato l’inghippo, i costruttori aggirarono l’ostacolo costruendo i piani più alti su una linea più arretrata. Le altezze delle facciate erano quindi formalmente rispettate, alla faccia del severo quanto inutile provvedimento. Per il primo davvero radicale cambiamento fu necessario attendere il 368 d.C., quando il Prefetto Vezio Pretestato diede l’ordine di abbattere tutti i balconi delle case, dichiarati calamità pubblica per i continui crolli. 

La città, infine, negli ultimi secoli andò incontro ad una sequenza di insopportabili umiliazioni e violenze, con i picchi delle invasioni dei Visigoti di Alarico nel 410 d.C. e dei Vandali di Genserico nel 455 d.C. Toccò infine a Vitige nel 537 d.C., nel disperato tentativo di vincere la resistenza dei Romani assediati, tagliare gli acquedotti nelle campagne, cosa che causò un rapidissimo ed irrimediabile degrado della città, con crolli e macerie dappertutto, come raccontato da Procopio.

L’ATMOSFERA DELLE INSULAE

Torniamo ora indietro fino al caos cittadino della Roma imperiale, ed immaginiamo di allontanarci dalle comode e lussuose residenze dei ricchi per varcare la soglia di una di queste insulae: ci saremmo trovati di fronte a disagio, sofferenza, sovraffollamento, rumori, freddo, sporcizia, assenza di servizi igienici, di acqua, di luce, pericoli perenni di crolli e di incendi.

Dalla strada, sotto i portici, grandi portoni spalancati con la merce ben in mostra invitavano i clienti ad entrare nei negozi. Oltre la soglia della bottega, generalmente angusta e profonda, si trovava il banco per le operazioni di vendita. Il locale era diviso in due da un soppalco di legno, a cui si accedeva per una scala a pioli fissata su alcuni gradini in muratura: il soppalco era l’abitazione della famiglia e qualche volta fingeva anche da deposito supplementare delle merci. I più poveri ne subaffittavano minuscoli angolini, approntando economici giacigli per la notte.

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Meglio delle botteghe si presentavano i laboratori, sistemati sotto verande che davano sulla strada. In questi artigiani ed artisti eseguivano ed esponevano i propri lavori ed i maestri tenevano lezioni in competizione con le voci della strada.

Rampe di scale ripide, strette e buie, quasi ovunque in legno, davano accesso agli appartamenti superiori che, nei caseggiati di grandi dimensioni, erano disposti, oltre che sulle facciate, anche sui cortili interni. 

In questi appartamenti, mediamente di tre vani, non si sarebbe trovata alcuna stanza destinata a cucina, o a soggiorno, o a camera da letto. Le stanze, prive di camini e tubature, erano quindi prive di funzioni predeterminate: la famiglia disponeva il mobilio e le poche suppellettili alla buona, sovraffollando ogni spazio oltre ogni limite per poter suddividere il costo degli affitti stellari.

Se le condizioni di vita degli inquilini erano, in qualche caso, davvero penose, altrettanto difficile doveva essere per i padroni di casa ottenere il pagamento del canone di locazione da parte di conduttori tutt’altro che benestanti. Per questo motivo, molto spesso i proprietari degli immobili preferivano appaltare (di solito per cinque anni) la gestione dello stabile, riscossione dell’affitto inclusa, ad un impresario il quale, a sua volta, metteva in conto agli inquilini il costo dell’ingrato mestiere, aumentando a discrezione il canone. L’inquilino, per conservare l’alloggio, aveva l’unica scappatoia di subaffittare una parte dell’appartamento, cosa che causava un ancor maggiore sovraffollamento trasformando il mercato immobiliare di Roma in un cane pulcioso che si mordesse la coda.

A quel prezzo, era obiettivamente meglio emigrare, come racconta senza timore di smentita Giovenale: “Se hai la forza di rinunciare al giochi del Circo, è pronta per te una bella casa a Sora o a Frosinone, ed allo stesso prezzo che qui paghi per avere in affitto per un solo anno un buco tenebroso”.

IL FREDDO

Marziale abitava sul Quirinale una camera al terzo piano di una di queste insulae: «Si sale e si scende in casa mia con tre rampe di scale, mica brevi. A me è stata assegnata una stamberga, con una finestra che ha entrambe le imposte sgangherate. Neppure Borea in persona oserebbe abitare in queste stanze». 

Borea era la personificazione del vento del Nord, e quindi c’è da pensare che Marziale abitasse in un appartamento decisamente gelido. C’è da credergli sulla parola. Nelle insulae le finestre, protette da sportelloni di legno o da pelli, dovevano essere mantenute sprangate per vincere il freddo pungente. A quel punto, però, il buio si faceva opprimente. Non c’era soluzione. Il vetro e la mica erano per le case dei ricchi; per gli inquilini dei piani superiori delle insulae si trattava di scegliere tra il freddo insopportabile ed il buio e tutti, logicamente, sceglievano il buio, da alleviare con lanterne, candele e bracieri accesi, intorno al cui tepore si stringeva la famiglia. 

L’IGIENE PERSONALE

Se pelli e fuochi tamponavano l’emergenza freddo, più difficili erano i rimedi contro la sporcizia invadente. L’acqua era disponibile solo nella fontana della piazza del quartiere, e non vi era alcuna alternativa alla fatica di sobbarcarsi molti viaggi al giorno, con i recipienti ricolmi sulle spalle o sulla testa.

Il lato più criticamente legato all’assenza di acqua negli appartamenti era relativo all’igiene personale. C’erano tre soluzioni, contraddistinte da un differente livello di civiltà sociale. Molti, ovviamente, potevano recarsi presso una latrina pubblica dove, comodamente sistemati, potevano conversare con i vicini impegnati nelle stesse operazioni. I più pigri, ma pur sempre contrassegnati da un buon livello di educazione, provvedevano a vuotare i contenuti dei vasi da notte nei recipienti condominiali. Il problema era che la maggioranza degli inquilini preferiva adottare rimedi più sbrigativi e quindi di notte, con una manovra accorta e fugace, faceva volare dalle finestre, subito richiuse, i contenuti dei vasi da notte.

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In questo modo, anche passeggiare di notte per le strade di Roma avrebbe richiesto parecchia attenzione e prudenza, come evidenziato dallo stesso Giovenale, che sente il bisogno di fare qualche raccomandazione ai nottambuli: “E pensa ora a tutti i diversi pericoli della notte. La distanza da te alla cima dei tetti, da dove una tegola può sempre piombare giù e spaccarti la testa. Vasi crepati e rotti che spesso cadono dalla finestra lasciando il segno sui marciapiedi. Se esci di casa per recarti a cena da qualche parte senza prima aver fatto testamento, fanno bene a definirti improvvido. Augurati quindi, e porta con te la miserevole speranza, che le finestre si contentino di versarti sulla testa i contenuti dei loro catini”. 

Sorvolando sulle ironiche iperboli verbali di Giovenale, il problema era molto serio, al punto che le denunce contro ignoti erano all’ordine del giorno e che più volte la giurisprudenza fu chiamata ad un difficile lavoro di classificazione delle responsabilità. Dovette intervenire addirittura il grande giurista Ulpiano, che cercò di mettere ordine nella materia: “Se l’appartamento è stato diviso tra parecchi abitanti, si potrà far ricorso soltanto contro quello che risiede nel punto dell’appartamento dall’alto del quale è stato precipitato il liquido. Se il locatario esercita il subaffitto, ma tuttavia riserva a se stesso la maggior parte dell’appartamento, egli solo sarà ritenuto responsabile. Se, al contrario, il locatario trattiene per sé solo uno spazio modesto, saranno ritenuti responsabili tanto lui che i suoi subaffittuari”. 

Ovviamente, come facilmente intuibile, la maggior parte dei processi si chiudeva senza colpevoli. Come si poteva, del resto, individuare con certezza la finestra assassina in insulae alte sei o sette piani, con finestre numerose, nel buio totale dei vicoli?

I RUMORI

Fra i tanti disagi condominiali, quello del rumore accomunava i lamenti di poeti e letterati. Seneca, alloggiato sopra un complesso termale, ne registrava stizzito tutti i rumori, mentre Giovenale imprecava e si disperava inutilmente. “A Roma la maggior parte degli ammalati muore d’insonnia. Esiste una sola casa a Roma che permetta di dormire, o solo i grandi ricchi possono riposare? La colpa di questo malanno è soprattutto dei carri che vanno su e giù lungo i budelli dei vicoli”.

Di giorno era difatti vietata la circolazione dei carri, per evitare congestione al traffico e danno alle persone: in questo modo, però, lunghe file di convogli si formavano alle porte della città in attesa della notte, ed anche al calar delle tenebre il rumore non permetteva alcun riposo.

Marziale era ormai rassegnato: “Non ti lasciano vivere, la mattina i maestri di scuola, di notte i fornai, e a tutte le ore i calderai che picchiano con i loro martelli…». 

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LE SOFFITTE

Eppure c’era chi se la passava peggio degli inquilini nelle insulae e dei diseredati ammucchiati nei pulciosi soppalchi delle tabernae al pianterreno.

Erano gli inquilini delle soffitte,  costruite completamente in legno, con pareti sottili e sconnesse: erano veri tuguri, ghiacciati in inverno ed irrespirabili in estate, e che potevano trasformarsi in vere e proprie graticole senza via d‘uscita in caso di incendio.

Almeno per costoro Giovenale non mostra alcuna invidia: “Meglio vivere dove non ci sono mai incendi e la notte si può dormire senza un continuo terrore. Il tempo di gridare che portino acqua, che sotto i tuoi piedi già il terzo piano è in fiamme; mentre dabbasso sono già in tumulto, chi non ha le tegole per difendersi dalla pioggia e sta lassù dove le colombelle depositano l’uovo, quello, sia pure per ultimo, è destinato ad arrostire”. 

I SENZATETTO

Finora abbiamo parlato di coloro che, rischiando di morire in un incendio, sopportando i rumori, adattandosi al freddo, tollerando il buio e la sporcizia, potevano però affermare di avere un tetto sulla testa.

C’era poi chi aveva perso anche quello. Roma era piena di diseredati, scarti della società, emarginati in ripari addossati alle mura e sotto i ponti, come Vaccerra, raccontatoci da Marziale mentre traslocava con la moglie e la figlia sotto la canicola di luglio. “Sfilavano un lettuccio con tre piedi, un tavolino con due soli piedi e una lanterna. Perché cercare casa e farti beffa degli amministratori, o Vaccerra, dal momento che tu puoi alloggiare senza poter pagare nulla? Questa processione di bagagli ben si addice ad un ponte dove i mendicanti stanno di casa». 

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