L’ARREDAMENTO NELLE CASE DELL’ANTICA ROMA
I Romani arredavano le loro case in modo molto diverse da quanto si fa oggi, basandosi essenzialmente sul principio dell’essenzialità del mobilio. Se, con un’ipotetica macchina del tempo, un abitante della Roma imperiale potesse catapultarsi in un moderno salone delle nostre abitazioni, probabilmente lo considererebbe una sorta di deposito o di galleria espositiva del mobilio.
In particolare nelle insulae, poi, il mobilio era ridotto al minimo indispensabile, cosicchè in caso di incendio gli abitanti potessero affrettarsi a raccogliere in un sacco le poche carabattole in loro possesso prima di scappare a gambe levate. La scarsità di arredo era giustificata dall’esigenza di adoperare lo spazio disponibile in rapporto alla ristrettezza degli ambienti.
In realtà, anche nelle domus nobiliari la situazione non mutava un granchè. Ad eccezione dell’atrio, del peristilio e delle stanze del tablinum e del triclinium, destinate ad accogliere la famiglia e gli ospiti durante i banchetti ed i ricevimenti, gli altri spazi erano assai ristretti. Inoltre, a differenza di quanto accada oggi, per conservare gli oggetti non si ricorreva ad armadi o mobili contenitori, ma si preferiva creare ambienti appositi con funzione di magazzino o deposito, oppure scavare nicchie nelle pareti per la sistemazione degli oggetti, soprattutto libri e pergamene.
Quello che in realtà distingueva l’rredamento di una domus da quello di una insula era la qualità del mobilio e la presenza nella prima di suppellettili preziose, come statue, vasi, candelabri e tendaggi che mancavano completamente o quasi nella seconda.
I mobili dei Romani antichi erano molto diversi da quelli odierni non solo per forme e tipi, ma anche per la diversa qualità e pregio dei materiali utilizzati. I nobili Romani utilizzavano infatti il legno in misura molto minore rispetto a noi, mentre preferivano materie più durevoli e resistenti, quali marmo e metallo. Inoltre la lavorazione dei loro mobili era sempre molto accurata: a Roma anche i prodotti artigianali eseguiti su scala industriale raggiungevano livelli artistici.
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L’ARREDAMENTO NELLA DOMUS
Nell’atrio era sempre presente il larario, un’elegante edicoletta sacra dove erano venerati i Lari, gli dei protettori della famiglia, raffigurati di solito in statuette bronzee davanti alle quali si collocavano, all’ora dei pasti, cibi e libagioni in segno di offerta. I larari potevano trovarsi anche in altri ambienti della casa, compresa la cucina.
In alcune domus, di fronte all’entrata dell’atrio poteva trovare posto il letto matrimoniale (lectus genialis), a ricordo dei tempi in cui questo ambiente era anche camera nuziale oltre che stanza di lavoro e di ricevimento per la matrona. L’atrio era, infatti, il cuore della casa primitiva, dove si concentrava la vita della famiglia; in esso nei tempi più antichi ardeva il focolare domestico del quale rimaneva il ricordo nel tavolinetto di marmo (cartibulum) collocato tra l’impluvium e l’apertura del tablinum.
Con l’andar del tempo, l’atrio perse d’importanza, venendo trasformato in una zona di disimpegno e di ingresso a servizio delle stanze disposte lungo il perimetro dell’atrio stesso, ma rimase un’anticamera grandiosa e sontuosamente ammobiliata: al suo interno era possibile trovare sedili (solia), armadi (armaria) e spesso anche la cassaforte domestica (arca).
L’ambiente situato immediatamente dopo l’atrio era il tablinum, dove nei tempi più antichi si cenava: al suo interno si trovavano una tavola, dei sedili e altri mobili. A partire dal II secolo a.C., però, i pasti si tennero nel triclinium, una stanza occupata su tre lati da letti disposti ad angolo retto intorno ad una tavola quadrangolare, oppure da un solo letto curvo a ferro di cavallo con una tavola rotonda al centro. Sui letti tricliniari ci si sdraiava per mangiare, secondo un uso derivato dalla Grecia; accanto ai triclini era collocate delle tavole (mensae) che servivano ai commensali per potervi deporre le stoviglie. Il vasellame prezioso era messo in mostra su un altro tipo di tavolo detto abaco.
Nelle camere da letto, dette cubicula, trovavano posto il letto, accostato al muro per il lato lungo, un tavolinetto rotondo presso il capezzale, una o più casse per la biancheria e gli abiti, un piccolo armadio pensile per la custodia di oggetti da toeletta, sgabelli e a volte altri sedili come il solium (una sorta di trono) o la cathedra (una seggiola con braccioli). Lo spazio destinato al letto si identifica immediatamente, perché il mosaico del tratto del pavimento su cui poggiava il letto era bianco, ed il soffitto era più basso in modo da formare una nicchia più raccolta.
Gli oeci (sale), le exhedrae (stanze per la conversazione) e i cubicula diurna (camere da letto diurne) erano arredati in modo molto ricercato, in armonia con l’eleganza della decorazione parietale. Oltre a tavole di marmo o di legno e a sedili, vi si trovava qualche lectus lucubratorius (destinato alle veglie), una sorta di sofà per chi volesse leggere, scrivere o studiare.
Nei portici e nei peristili della domus si trovavano tavole marmoree e triclini in muratura (tra i Romani era molto diffuso il costume di pranzare all’aperto), sedili, casse e talvolta un grande armadio che, oltre a oggetti di vario tipo e uso, conteneva l’immagine scolpita di una divinità venerata dalla famiglia.
Nella domus la culina (cucina), di regola un modesto, infelice e fumoso sgabuzzino ricavato laddove ci fosse uno spazio disponibile (anche in un sottoscala), era occupata da un acquaio, un forno e un focolare in muratura. Vi si dovevano, comunque, trovare anche una tavola in legno e qualche sedile. Alle pareti, presso il focolare, erano appesi i tegami, mentre il resto del vasellame era riposto in un armadio o in uno scaffale a muro o, più spesso, in un apposito vano adiacente alla cucina detto apotheca (dispensa).
Il bagno della domus, oltre a ospitare una vasca da bagno e un catino per le abluzioni, era fornito di qualche armadio o cassa che conteneva profumi, oggetti per toeletta e asciugamani, che avevano nomi diversi a seconda dell’uso per il quale erano destinati: lintea per il corpo, faciale per il viso, pedale per i piedi.
MOBILI E SUPPELLETTILI: IL LETTO
I Romani chiamavano suppellex tutto ciò che serviva ad arredare e ad ornare la casa (dai mobili ai quadri, dai tappeti ai tendaggi, dal vasellame al candelabri e ai bracieri) e a renderla più confortevole (come le lastre di mica o di vetro per le finestre, oppure i velaria, teli che servivano a riparare dal sole i luoghi aperti). Veniva invece chiamato instrumentum ciò che serviva ad tutelam domus (alla protezione e manutenzione della casa): dall’attrezzatura che serviva a estinguere gli incendi (scale, secchie, tubi) alle riserve di tegole e travi per le riparazioni urgenti e, infine, ai cosiddetti vela cilicia, cioè le coperture che si ponevano sui tetti contro le intemperie.
IL LETTO
Il letto era il mobile presente in quasi tutte le abitazioni, sebbene le famiglie più indigenti dovessero accontentarsi di pagliericci distesi su un rialzo del pavimento. Il materiale più usato per la fabbricazione dei letti era il legno di quercia o di acero, e nei casi più lussuosi presentavano ornamenti lussuosi: gambe di bronzo elegantemente lavorato e preziosi intarsi d’oro, avorio o tartaruga.
Il letto per dormire si chiamava lectus cubicularis, mentre il letto a un posto era denominato lectulus (piccolo letto). Il letto cubicolare aveva un telaio rettangolare sostenuto da quattro piedi, era dotato di una spalliera in legno (pluteus) che talvolta circondava il letto su tre lati e di un sostegno per la testa (fulcrum). Al telaio venivano saldamente ancorate delle fasce di cuoio su cui si poneva un materasso (torus), la cui imbottitura consisteva più anticamente in paglia o fieno, successivamente in lana secondo la moda gallica, o in piume, tra le quali molto apprezzate quelle di cigno, di pernice o d’oca.
Venivano anche usati dei cuscini (pulvini) e sopra il materasso veniva distesa una coperta (stragula). Non esistevano le lenzuola, ma al loro posto si adoperava una coperta che serviva per avvolgersi (opertorium) di lino o di lana o di un particolare panno di origine gallica (gausapa) di moda in età augustea. I colori della coperta erano di solito il porpora, l’azzurro, il giallo e il viola, con larghi bordi ricamati. Le coperte, che si vedono spesso raffigurate negli affreschi, erano molto ampie e toccavano terra.
I letti erano generalmente bassi, ma se ne facevano anche di molto alti, in modo speciale quelli cubicolari a due posti, sui quali si saliva, rispettivamente, utilizzando uno sgabello basso o uno più alto a gradini, come quello visibile nel cosiddetto “Virgilio Vaticano”, dove si vede Didone rappresentata su un letto fornito di una scaletta per salirvi.
IL LETTO TRICLINIARE
In epoca repubblicana, i letti tricliniari erano in legno o in muratura, in unico blocco, senza gambe né cornici e con il piano superiore inclinato in modo che il bordo vicino alla tavola fosse lievemente pit alto rispetto a questa. Tali letti tricliniari erano altresì ricoperti da un materasso e una coperta e, su ogni letto, prendevano posto tre convitati, separati l’uno dall’altro da un cuscino.
L’uso dei letti tricliniari è il riflesso del costume di mangiare sdraiati estraneo ai popoli italici, ma importato a Roma dalla Grecia. A Roma infatti, in epoca arcaica, si pranzava seduti; successivamente venne in uso un solo letto sul quale stava sdraiato il paterfamilias, mentre la moglie sedeva ai piedi del letto e i figli su sedie e sgabelli. Con il passare del tempo, però, il costume dei Greci venne assimilato del tutto.
Dei letti tricliniari a sagoma circolare, che non superavano mai il metro di altezza compresa la spalliera, vennero di moda nell’ultimo secolo della Repubblica, ci resta soltanto il ricordo nelle fonti letterarie e nelle pitture pompeiane in quanto, essendo fabbricati interamente in materiali deperibili, sono completamente scomparsi.
MOBILI E SUPPELLETTILI: TAVOLI E SEDIE
Nell’Antica Roma, i tavoli avevano forme e usi diversi.
Vi erano ad esempio gli abaci, tavole di forma quadrangolare, a quattro piedi e spesso a due piani, per l’esposizione del vasellame artistico e prezioso e delle argenterie (vasi, bicchieri, coppe. brocche, patere) nel triclinio. In epoca imperiale, l’abaco divenne un mobile di lusso, artisticamente lavorato e riccamente decorato: poteva essere realizzato anche in bronzo, con il piano in marmo.
C’era poi la cosiddetta mensa, posta al centro dei tre letti tricliniari disposti su tre lati ad angolo retto. La mensa tricliniare più antica era rettangolare, in muratura o in legno, di forma semplice e disadorna; poi, verso la fine della repubblica, le mensae divennero di preferenza rotonde e tali si mantennero per tutto l’impero, con una decisa accentuazione del lusso.
Le mensae potevano avere forme diverse, con una, tre e quattro gambe: le prime venivano chiamate monopodia ed erano molto pregiate, mentre la mensa tripes (a tre gambe) era invece più modesta.
I materiali usati per le tavole erano il marmo, il bronzo, l’avorio e perfino l’oro e l’argento; ma le più pregiate erano quelle fatte con legni costosissimi, tra cui la tuia (albero della famiglia del cipresso che cresceva nelle regioni dell’Atlante. odierno Marocco), il cedro o l’acero della Mauritania. Dalle venature del legno le tavole erano denominate mensae tigrinae (venate per lungo) o pantherinae (a venatura concentrica). Le gambe erano spesso foggiate a zampa ferina con piede ad artiglio leonino o zoccolo equino o caprino.
SEDIE
I Romani non sentivano una grande necessità delle sedie, dal momento che mangiavano e lavoravano sdraiati su un fianco. Ne esistevano tuttavia vari tipi, tra cui il solium, il seggio del paterfamilias ereditato di padre in figlio. La sua forma era simile a quella di un thronos greco, essendo costituito da un sedile quadrangolare, da un’alta spalliera dritta e da braccioli. Le gambe erano tornite o intagliate, raramente foggiate a pilastro o a forma di animale, mentre spalliera e braccioli erano talvolta decorati in bronzo, osso e avorio.
A partire dal II secolo d.C. comparve un seggio più modesto e leggero, costituito da un sedile rotondo, privo delle gambe, sostituite da una fascia a semicerchio che circonda il sedile per due terzi, mentre lo schienale, anch’esso ricurvo, ne è una continuazione diretta. Questo seggio, di forma assai affine alla sedia etrusca a base rotonda, era spesso realizzata in vimini intrecciati.
Vi era poi la cathedra, più semplice del solium e priva di decorazioni metalliche, con una spalliera leggermente arcuata che non superava in altezza le spalle della persona seduta. Era la sedia usata dalle donne, tanto che Marziale usa l’espressione “vivere inter cathedras” con il significato di “stare in mezzo alle donne”, mentre erano soprannominati cathedralicii gli schiavi giovinetti di bellezza delicata ed effeminata.
Erano poi in uso gli sgabelli (scamna o subsellia), costituiti da una tavoletta sostenuta da quattro gambe.
Le sedie erano spesso ricoperte da drappi colorati e ricamati ai bordi: il solium era quasi completamente coperto fino al pavimento, mentre della cathedra rimanevano nascosti solo il sedile e metà delle gambe. I colori di questi tessuti erano l’azzurro, il verde, il rosso scuro o il giallo. Sui sedili erano sempre posti dei cuscini variopinti, poiché i Romani non conoscevano la tecnica dell’imbottitura.
MOBILI E SUPPELLETTILI: ARMADI E CASSE
L’armadio, sconosciuto ai greci e assai poco utilizzato dagli Etruschi, è un mobile tipicamente romano; pur non sapendo quando esso venne adottato per la prima volta, le attestazioni più antiche risalgono all’ultimo secolo della repubblica.
La forma degli armadi ci è nota non solo dalle raffigurazioni di alcune pitture, ma anche dai calchi eseguiti a Pompei facendo colare del gesso nei vuoti rimasti nella lava solidificata a seguito del deperimento del materiale costitutivo, cioè il legno. Ciò ha dimostrato che gli armadi adoperati all’epoca dell’Antica Roma erano molto simili ai nostri, per forma e dimensioni.
All’interno del Museo della Civiltà Romana di Roma è presente una bella ricostruzione di un classico armadio romano, derivante dai frammenti conservati nell’Antiquarium di Pompei. Esso presenta un cornice sagomata ed un po’ aggettante, due sportelli a grata lignea con borchiette bronzee e sotto di essi quattro sportellini sagomati. Le cerniere erano di osso e non di metallo, e c’erano poi le maniglie per aprire i battenti e, in casi particolari, le serrature. Il materiale con cui erano costruiti gli armadi era quasi esclusivamente il legno, dal castagno al larice (legni più comuni) fino al cedro (legno assai più pregiato); in quest’ultimo caso, essi presentavano spesso anche decorazioni in avorio.
L’interno degli armadi era diviso da ripiani in tre o quattro scomparti in senso orizzontale, dove si riponevano le suppellettili domestiche, le provviste e gli oggetti da toeletta. I cosiddetti armaria promptuaria (credenze) erano destinati al corredo casalingo e agli strumenti del mestiere del paterfamilias. C’erano poi armadi più piccoli che venivano attaccati al muro sospesi dal pavimento, come quelli che si collocavano nelle alae per conservare i ritratti degli antenati (imagines maiorum) oppure statuette di divinità.
LE CASSE
Nell’atrio era solitamente collocata una cassa (arca) di legno bassa, tozza e pesante, ma rivestita all’esterno di borchie e rilievi in bronzo artisticamente lavorati. Il mobile era anche fornito di serratura e veniva usato in funzione di cassaforte per custodire oggetti preziosi, documenti o denaro. Per meglio assicurarla dalle manomissioni e dai furti, la cassa stessa veniva addossata a una parete e collocata su un piccolo podio in muratura cui era fissata con un grosso chiodo. A Pompei sono state rinvenute arcae ferratae lunghe anche più di un metro.
Altre casse meno voluminose e massicce erano collocate in vari punti della casa per contenere coperte, vestiario e oggetti vari: lunghe in genere 60-70 cm, prendevano il nome di arcae vestiariae.
MOBILI E SUPPELLETTILI: TENDE E TAPPETI
Le tende erano ampiamente usate nella casa romana, ma il materiale deperibile di cui le tende stesse erano fatte non ne ha consentito la conservazione, ed è pertanto possibile ricostruire il loro uso, le loro forme e colori solo sulla scorta delle pitture parietali e delle fonti letterarie.
I tendaggi avevano funzione di abbellimento, ma servivano anche come protezione dal raggi solari. In epoca ellenistica si diffuse inoltre l’uso di lasciare alcune pareti senza decorazione perché fossero ricoperte da teli che non aderivano ai muri, ma che formavano drappeggi ricadenti in molli pieghe. Nei triclini più lussuosi erano stesi drappi anche contro il soffitto degli ambienti per motivi estetici e decorativi. Particolarmente famosa era la tappezzeria del triclinio di Catone l’Uticense, successivamente acquistata da Nerone per una cifra da capogiro.
Gli ampi passaggi tra atrio e tablino e le aperture delle alae e delle esedre non erano chiusi da imposte, ma da tendaggi colorati sospesi a mezz’aria e scorrevoli. Per riparare poi l’atrio dai raggi solari era stesa, sotto l’apertura del compluvium, una tenda scorrevole color porpora, che immergeva l’atrio in una luce rossastra. Anche i peristili erano ombreggiati da tende, fissate tra colonna e colonna.
Le finestre erano dotate pure di tende, attaccate a una serie di anellini metallici posti a breve distanza l’uno dall’altro e scorrevoli lungo un cordone.
Per quanto concerne i pavimenti delle case romane, essi erano ricoperti sia da tappeti intessuti che da pelli di animali, quali cervi, lupi, orsi, leopardi e leoni. I tappeti di stoffa, che dovevano essere molto somiglianti a quelli moderni, venivano lavorati soprattutto in Asia, ed avevano affinità di soggetti e motivi decorativi con i mosaici.
SUPPELLETTILI VARIE
Le case più ricche possedevano pezzi o interi servizi di argenteria da mensa, finemente decorati e di alto livello artistico, destinati sia alla portata e al consumo delle vivande (argentum escarium), sia al contenimento dei liquidi (argentum potorium). Alcuni pezzi particolarmente preziosi non erano destinati all’uso ma alla semplice esposizione.
Le famiglie che non potevano permettersi l’argenteria usavano vasellame di ceramica, di vetro o di bronzo.
In cucina si trovavano tripodi in ferro o in bronzo, tegami per la cottura dei cibi, casseruole, coperchi, padelle, colatoi. Questi recipienti erano attaccati con chiodi alla parete più vicina al focolare. Su quest’ultimo è stata spesso rinvenuta la graticola in ferro o in bronzo, mentre altre suppellettili di bronzo o di terracotta destinate alla cucina erano riposte in un armadio oin uno sgabuzzino adiacente.
Le posate recuperate negli edifici scavati consistono essenzialmente in cucchiai di forma, grandezza e materiale diverso, in particolare argento, bronzo e osso. Le forchette venivano infatti usate solo in cucina, per togliere la carne dalle pentole, ed erano grandi, con due o tre denti. Anche i coltelli servivano essenzialmente in cucina, per preparare le pietanze tagliandole prima di servire in tavola. Completavano la posateria mestoli e ramaioli.
Fanno parte della suppellettile casalinga anche gli oggetti da toeletta personale, come gli specchi e gli strigili; il materiale di scrittura, costituito da un calamaio e da un astuccio per le penne; le bilance, con i pesi e le misure.
Una spiegazione particolare meritano i bracieri, utilizzati dai Romani per il riscaldamento delle sale fino al momento in cui fu introdotto il sistema di riscaldamento ad aria calda, e cioè verso la fine della repubblica. I bracieri erano di bronzo o di rame, spesso artisticamente lavorati; alcuni erano piccoli e trasportabili a mano, mentre quelli più grandi erano forniti di rotelline per il trasporto da una stanza all’altra.
È ovvio che, per riscaldare decentemente i vari ambienti, ci volesse un bel numero di questi bracieri, con tutti i rischi che ciò comportava per i gas tossici che si sprigionavano dalla combustione della brace, nonché per possibili incendi. Tali inconvenienti erano però inevitabili, poiché presso i Romani non esistevano stufe e caminetti, essendo ignoto il sistema di tiraggio per mezzo di un comignolo.
L’APPROVVIGIONAMENTO IDRICO
Nei tempi più antichi, la raccolta dell’acqua piovana riforniva le case di un certo quantitativo utile per i consumi domestici: serviva a questo scopo l’impluvium dell’atrio, da dove l’acqua fluiva in una cisterna sottostante.
Col passare del tempo si scavarono altre cisterne, una delle quali sempre in prossimità della cucina, altre presso giardini e cortili, allo scopo di raccogliere l’acqua proveniente dalle grondaie delle terrazze, dei portici, dei tetti. A volte tutti questi serbatoi erano in comunicazione fra loro, cosa che permetteva una certa depurazione dell’acqua che veniva fatta passare da una cisterna all’altra attraverso un canale ed un pozzetto fornito di grata.
Spesso però succedeva che questa acqua non solo fosse difficilmente digeribile, ma che non fosse neppure potabile. Orazio racconta che in alcune regioni l’acqua pura era molto rara e veniva venduta persino a caro prezzo: durante una tappa del suo viaggio per Brindisi, egli preferì addirittura saltare il pasto a causa dell’acqua cattiva, che gli avrebbe certamente aggravato il mal di stomaco di cui soffriva. Alcuni Romani avevano persino preso l’abitudine di far bollire l’acqua prima di consumarla.
Per il bagno era invece tranquillamente usata l’acqua delle cisterne, che si attingeva dal vicino pozzo tramite una carrucola ed un secchio con il quale si riempiva manualmente un piccolo castellum aquae (una vaschetta di piombo) collocato su un pilastro o una colonna, accessibile per mezzo di alcuni gradini.
Con la creazione degli acquedotti, non ci fu più bisogno di raccogliere l’acqua piovana per gli usi domestici ed essa venne destinata unicamente ad alimentare i bagni, le fontane e i ninfei. Svetonio racconta che ai Romani che protestavano per il prezzo eccessivo del vino, Augusto rispose che suo genero Agrippa aveva portato a Roma acqua sufficiente perché non avessero sete.
L’acqua, che proveniva spesso da luoghi molto lontani, arrivando in città andava a riempire un serbatoio posto in posizione elevata. Da qui era distribuita a mezzo di canali sotterranei nelle strade e quindi nelle case, che ne ricevevano solo una certa quantità. Tubi di bronzo (calices), di lunghezza e diametro proporzionali alla quantità d’acqua che dovevano far passare, oppure chiavi di arresto regolavano l’immissione d’acqua nelle case.
Con il sistema di vasche sopraelevate si alimentavano i rubinetti dell’acqua fredda, mentre per quelli dell’acqua calda partiva dal fondo del serbatoio un condotto che arrivava direttamente alla caldaia del praefurnium, il forno che serviva anche per il riscaldamento.
L’acqua, purtroppo, non veniva erogata in tutte le case: essa costituiva un servizio pubblico e coloro ai quali non era consentito usufruire dell’acqua corrente potevano procurarsela alle fontane pubbliche. Le concessioni particolari erano riservate a pochi privilegiati, che avevano ottenuto il permesso di riceverne una diramazione nella loro casa; ovviamente, capitava spesso che gli ispettori delle acque (aquarii) si lasciassero corrompere, redigendo punteggi illegali nelle assegnazioni ai privati.
Marziale, ad esempio, soffriva molto di non avere l’acqua in casa, tanto che in una sua piccola dimora di campagna aveva fatto sistemare una pompa per attingere acqua dai pozzi. Aveva avuto l’ingenuità di credere che, adulando Domiziano, sarebbe riuscito a procurarsi eccezionalmente una concessione d’acqua pubblica; si ricordava infatti del poeta Stazio, il quale l’aveva avuta proprio da Domiziano, ma la richiesta di Marziale rimase inevasa. Era in effetti particolarmente difficile riuscire ad ottenere l’acqua in casa: nonostante il forte canone richiesto, essa era concessa raramente e solo al proprietario dell’immobile. Il permesso era tra l’altro strettamente personale e comunque revocabile in caso di morte del beneficiario.
Sappiamo tra l’altro da Frontino che gli abusi non erano infrequenti: tubazioni pirata potevano infatti essere innestate su quelle principali, rubando così l’acqua al legittimo intestatario.
IL RISCALDAMENTO
All’inizio, la casa romana era riscaldata semplicemente tramite bracieri dislocati opportunamente nelle varie stanze. Verso la fine della Repubblica, venne introdotto un sistema in base al quale l’aria calda circolava al di sotto dei pavimenti ed all’interno delle pareti. Questo metodo, escogitato a quanto pare da un cavaliere romano di nome Sergio Orata per le Terme di Baia allo scopo di utilizzare i naturali vapori caldi di quel luogo, trovò larga applicazione non solo negli edifici termali, ma anche in quelli privati, raggiungendo la sua perfezione nel I secolo d.C.
Per irradiare l’acqua calda ci si serviva di un forno (praefurnium o hypocaustum) situato in prossimità della cucina o del bagno, secondo i saggi principi di Vitruvio che consigliava di accentrare il più possibile i vari servizi tecnici ed igienici della abitazione. Esso era alimentato con carbone di legna e dalle sue pareti si dipartivano appositi condotti, che andavano a raggiungere la parte sottostante ai pavimenti.
Questi ultimi erano infatti sospesi generalmente su pile di laterizi (suspensurae) disposte a distanze uguali tra loro. La tecnica romana, diretta continuamente a migliorare il sistema di riscaldamento, arrivò a far persino uso di lastre di rame che, situate tra le suspensurae ed il pavimento, contribuivano ad aumentare la conduzione del calore.
L’aria calda circolava anche lungo le pareti, che avevano a questo scopo un’intercapedine comunicante col vespaio del pavimento: tale intercapedine era ottenuta usando tegole particolari, che le mantenevano ad una certa distanza dal muro, oppure tramite mattoni internamente cavi ed aperti nei lati brevi. Essa risultava molto utile anche nel momento in cui non era in funzione l’impianto di riscaldamento, in quanto la concamerazione creata fra le pareti riusciva a mantenere elevata la temperatura, costituendo uno strato d’aria coibente.
Come al solito, i più sfortunati erano gli abitanti delle insulae, che dovevano accontentarsi solo dei bracieri, sopportando il fumo ed i gas tossici sprigionati dalla combustione oltre a dover fronteggiare il pericolo sempre in agguato di incendi improvvisi.
L’ILLUMINAZIONE
Il problema dell’illuminazione non era di facile soluzione, in quanto i mezzi di cui i Romani disponevano (candele, fiaccole e soprattutto lampade a olio), se non adoperati in gran numero, si rivelavano insufficienti a vincere il buio della notte.
Le fiaccole erano in realtà usate piuttosto raramente, in particolari circostanze come matrimoni e funerali, e talvolta nelle campagne. All’illuminazione domestica si provvedeva in realtà con le candele e soprattutto con lampade a olio.
L’uso delle candele si diffuse fin dai tempi della Roma arcaica: queste si ottenevano avvolgendo uno strato di cera o di sego ad uno stoppino formato da piante palustri. I ceri così ottenuti venivano poi legati assieme, formando grosse torce (chiamate funalia) che venivano rette da uno schiavo oppure infisse in appositi candelabri, al cui centro era collocato un puntale, su cui veniva infissa la candela.
Come accennato, il mezzo di illuminazione più comune era però la lucerna, in terracotta o in metallo, che i trovava in diversi esemplari in ogni ambiente della casa, posta sui ripiani dei mobili o in apposite nicchie sul muro. Nel caso in cui si volesse tenere la lucerna in posizione rialzata, sarebbe stato possibile appenderla con delle catenelle ai candelabri a braccia presenti nelle stanze.
Le lucerne sono probabilmente l’oggetto domestico dell’Antica Roma di cui gli scavi archeologici hanno ritrovato il maggior numero di esemplari. La maggior parte di esse sono costituite da un recipiente oblungo e schiacciato (detto infundibulum) avente da un lato un manico (ansa) e dall’altro un beccuccio (rostrum); nel centro della lucerna si trovava un piccolo foro, che dava modo di rialzare lo stoppino con un ferretto e di rifornire di olio la lampada. Considerato il fumo che si levava da queste lucerne, ed il numero di esse necessario per garantire l’illuminazione di una casa, pensata a quanto sarebbe stata “fumosa ed oleosa” l’aria da respirare.
Abbastanza usata era anche la lanterna, di forma simile a quelle moderne, che veniva tendenzialmente adoperata all’esterno della porta di casa, oppure per rischiarare la strada durante le passeggiate notturne. Aveva forma cilindrica ed era costituita da una incastellatura di metallo che sosteneva una lastra cilindrica trasparente o semitrasparente, un tempo fatta con la vescica di maiale e solo successivamente realizzata in vetro. All’interno conteneva un piccolo recipiente per l’olio e uno stoppino, mentre il coperchio era provvisto di fori con funzione di sfiatatoi.
LA CURA DELLA CASA
Un famoso mosaico conosciuto col nome greco di asàrotos oikos, cioè “casa non spazzata”, mostra i resti di cibo che normalmente cadevano a terra nel corso dei banchetti: un perfetto esempio di tale esemplare si trova all’interno dei Musei Vaticani, ed è una copia del II secolo d.C. di un originale ellenistico creato nel II secolo a.C. dal mosaicista Soso.
Se da un lato ciò una simile decorazione ci induce ad una attenta analisi delle abitudini alimentari dei ricchi Romani, dall’altro ci fa riflettere su quanto dovesse essere laboriosa la pulizia di una casa così complessa e ricca di ornamenti di ogni sorta.
Le pulizie della casa erano un vero e proprio tormento quotidiano. Appena dopo l’alba, al suono di una campana, nugoli di servi con gli occhi ancora gonfi di sonno piombavano nelle stanze armati di secchi, strofinacci, scale e pertiche recanti in cima delle spugne. Essi spargevano sui pavimenti segatura di legno tinta di rosso o giallo arancio e passavano le spugne sui pilastri e i cornicioni, strofinando con rumoroso zelo.
Se poi il padrone di casa aspettava ospiti era davvero la fine. Giovenale ci dice che in questo caso nessun servitore della casa aveva più pace: “Scopa il pavimento, lucida le colonne, tira giù quel ragno rinsecchito con tutta la sua ragnatela, pulisci l’argenteria, lustra le coppe incise! Il padrone sta addosso a tutti con la verga in mano, e la sua voce infuria”.
Anche Orazio, nei suoi racconti, non è da meno, parlando dell’armamentario necessario per una corretta pulizia ed igienizzazione degli ambienti: “Comprare scope, strofinacci, pomice quanto mai costerà? Ma se trascuri queste cose vai incontro ad una catastrofe. Oseresti pulire il pavimento di pietre levigate con scope sudice e rivestire le purpuree stoffe con tela sporca?”. Le scope, formate da ramoscelli di mirto o agrifoglio, servivano infatti a spazzare le stanze, ma per i marmi ed i mosaici occorreva usare un arnese particolare, costituito da una ciotola di bronzo dentro la quale era incassato un blocco di pietra pomice.
il vostro sito mi è molto utile per espandere le mie conoscenze sugli usi romani, è fatto in modo chiaro e scritto bene sto scrivendo un romanzo storico riferito all’epoca di Augusto mi farebbe piacere associarmi. Qualche notizia su di me la trovate su Wikipedia Pietro Turchetti, grazie e complimenti.