Le torri costiere del Lazio

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LE TORRI COSTIERE DEL LAZIO

In quanto a pirateria, fino a poco più di un secolo fa, il Mar Mediterraneo aveva poco da invidiare a quei mari asiatici o sudamericani immortalati dai romanzi d’avventura. Già nell’antichità, infatti, Greci, Fenici, Etruschi (i cosiddetti Tyrrhenoi) ed i mitici Pelasgi facevano a gara su chi si desse maggiormente da fare in questo redditizio settore, attribuendo poi agli altri la conseguenza di ogni azione criminale. A fornire queste notizie sono veri e propri “luminari della carta stampata” dell’epoca, come Omero ed Erodoto, solo per citare i più famosi.

Con la caduta dell’Impero Carolingio, una pirateria più moderna e organizzata inizia a prendere piede, sfruttando quel vortice di catastrofi che assai spesso segue il sovvertimento di un sistema politica. Nel IX secolo, quindi, tutti tornarono a fare pirateria, rispettando in pieno la tradizione dell’attribuire agli altri la colpa delle loro azioni. Per i Cristiani, causa e motore di questo flagello era l’avidità dei musulmani, che talvolta venivano chiamati Saraceni, talvolta Barbareschi, più evocativamente Mori o più prosaicamente Turchi: lo scopo era quello di contrapporre semplicisticamente il concetto di bene e male, facendo apparire il primo quale caratteristica essenziale del mondo cristiano e lasciando agli altri la parte dei cattivi. Ovviamente, da parte loro gli Arabi svolgevano esattamente la medesima propaganda, ribaltando i termini del confronto e trasformando i Cristiani in infedeli irrispettosi del commercio marittimo.

A questo dovrebbe aggiungersi un’ulteriore interessante osservazione: molti fra i pirati più temibili del mondo musulmano, altro non erano che Cristiani rinnegati di origine italiana. Ulag Alì, comandante di un’ala della flotta turca a Lepanto, era calabrese, il dey di Tunisi Osta Moràt era genovese, Alì Piccinino era veneziano. Salvatore Bono, nel suo libro Corsari Barbareschi, scriveva: “Ad Algeri nel 1580 c’erano circa seimila rinnegati, alcuni con figli. Mezzo secolo dopo, nel 1630, ce ne erano ottomila oltre a mille donne”. A questa evidente capacità orientale di proselitismo non poteva contrapporsi una altrettanto netta abilità di propaganda da parte dei Cristiani, che lanciavano offerte di amore e perdono, ma che nel frattempo cacciavano i moriscos dalla Spagna, alimentando odi e desideri di rivalsa che spesso sfociavano proprio nell’attività piratesca.

LE TORRI DI DIFESA

Su questo sfondo e sulla basica considerazione del fatto che i Saraceni, di fronte alla possibilità di racimolare ingenti bottini, non si sarebbero certo fermati di fronte alla sacralità delle Basiliche cristiane, va collocata la creazione delle torri litoranee, in Italia in generale e (per quanto concerne questo articolo) nel Lazio in particolare: la regione si presentava all’epoca praticamente suddivisa in due parti ben distinte, con gli abitanti distribuiti direttamente negli insediamenti costieri ma talvolta circondati da estesi litorali paludosi, disabitati ma ugualmente bisognosi di una qualche tutela difensiva.

Il sistema difensivo costiero era intralciato da due aspetti vistosi, l’uno connesso all’altro: da un lato, la carenza di fondi della Reverenda Camera Apostolica, e dall’altro la conseguente necessità di scaricare la maggioro parte delle spese sulle comunità locali. Aggiungendo a ciò la presenza di una feudalità spesso mirante solo al raggiungimento del proprio prestigio personale e spesso non certamente illuminata, si comprende bene la difficoltà del progetto: Farnese e Odescalchi al nord, Borghese al centro, Frangipane e Caetani al sud disattendevano spesso anche le regole del Papa, seguendo una proficua politica personale dissonante con quella delle altre famiglie. A ciò si aggiungano due guerre, quella napoleonica e la Seconda Guerra Mondiale, che hanno decimato una buona parte di questo patrimonio storico-militare.

L’ITINERARIO DA NORD A SUD

Proviamo a partire dal nord in questo fantasioso itinerario a volo d’uccello, scendendo dal fiume Chiarone e ritrovandoci sulla costa appartenente ai Farnese, duchi di Castro, proprio nella seconda metà del XVI secolo, epoca in cui la minaccia dei Barbareschi sarà più attiva. Di quell’epoca resta la Torre di Montalto, ma sugli scomparsi resti romani c’erano anche il Castellaccio (demolito nel 1424), la Torre di Corneto nei pressi del porto Clementino e la Torre Bertalda alla foce del Mignone. Si noti fin d’ora l’importanza della presenza dei corsi d’acqua nei pressi delle fortificazioni, utilissimi punti di riferimento per l’approvvigionamento di acqua dolce.

Dalle alghe sembra derivi il nome della Torre Valdaliga, circa 4 kilometri a nord di Civitavecchia: quest’ultima, grazie alla sua fortezza che vide impegnato nel progetto il grande architetto Donato Bramante, può vantare di aver respinto con successo l’assalto del pirata Khair Ed-Din, detto il Barbarossa.

Poco più a sud c’è ancor oggi la Torre del Marangone, mentre è scomparsa la Torre Chiaruccia a Capo Linaro, il punto più occidentale del Lazio, ove nel 1642 si era insediato frate Domenico Zamponi, non certo alla ricerca di un posto solitario per le proprie meditazioni eremitiche, quanto di un luogo appartato per portare avanti i suoi studi di negromanzia.

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Anche il borgo fortificato di Santa Marinella insisteva su resti antichi, derivanti da Punicum, base cartaginese di origine etrusca, così come quello di Santa Severa, costruita dove un tempo sorgeva l’etrusca Pyrgi: quest’ultimo castello ospitava un reparto di cavallari, che avevano il compito di perlustrare e sorvegliare i tratti di costa laziale che non fossero inquadrabili dalle torri e che per questo motivo scatenavano spesso feroci litigi e discussioni con i soldati regolarmente stanziati a protezione delle torri.

Macchiatonda, oggi assai celebre per la sua avifauna, era invece assai nota per l’ormai semidistrutta Torre Flavia, un rudere oggi nel bel mezzo dell’acqua a causa dell’erosione della costa e semicrollato nel 2016. Gli Odescalchi, nel frattempo, conservarono il castello di Palo Laziale, iniziando nel XIX secolo un riuscito tentativo di ripopolamento della costa, con la fondazione della città di Ladislao, Ladispoli, voluta appunto da un noto esponente della famiglia.

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Se le funzioni delle Torri di Palidoro e di Maccarese, quest’ultima posta alla foce dell’Arrone, erano marginali, e se la Seconda Guerra Mondiale ha distrutto la Torre Clementina, fondamentale è ancor oggi la storia della Torre di Fiumicino, ormai soffocata dalle case, e soprattutto quella della Torre di San Michele, a cui era devoluto il non facile compito di rimpiazzare la Torre Boacciana ed il Castello di Ostia, inutilizzabili in seguito alla terribile alluvione del 1557 che deviò il corso del Tevere, alterando in modo permanente il profilo stesso della costa. La torre, altamente organizzata dal punto di vista militare, nel 1589 riuscì a sventare un’incursione riuscendo a segnarla “semaforicamente” nientemeno che a Terracina.  

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All’interno della Tenuta Presidenziale di Castelporziano non resta ormai quasi nulla di Tor Paterno, a parte i resti delle suggestive presenze romane che la circondavano: essa subì infatti danni irreparabili nel 1812, durante una battaglia contro gli Inglesi, mentre Tor Vaianica, posta nel territorio della famiglia Borghese, venne distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale.

Se Tor San Lorenzo è diventata negli anni un punto di riferimento fra le zone balneari di Ostia e Anzio, fu la presenza di vaste polle d’acqua calda che suggerì il nome di Tor Caldara, di cui oggi si vede un’abile ricostruzione nell’ambito della Riserva Naturale Regionale. Tor Materna venne anch’essa distrutta nel 1813 dagli Inglesi, mentre nel 1944 scomparve la Torre Capo d’Anzio, posta al confine della zona di influenza della famiglia Frangipane.

Tutt’altro tenore ha ancor oggi l’imponente Fortezza di Nettuno, opera di grande valore progettata probabilmente da Giuliano da Sangallo: ancor oggi è possibile ammirare ed in parte percorrere le fortificazioni e le mura che racchiudono il vecchio borgo.

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Arriviamo a Torre Astura, nel demanio militare, che in parte ha contribuito a conservarne l’integrità del retroterra, costituito da una splendida pineta, anche se non sempre consente di visitare lo splendido maniero dove i Frangipane tradirono il fuggitivo Corradino di Svevia.

Con questo siamo a ridosso del Circeo, punta avanzata verso l’arcipelago ponziano e naturale punto di avvistamento e difesa. Per questo motivo, la zona presenta torri assai ben strutturate, in grado di offrire una discreta difesa anche verso l’interno, onde evitare di essere aggirate e colpite dall’alto. La Torre Paola, la Torre Cervia e la Torre del Fico sono ben note a tutti i gitanti romani, essendo negli anni divenute dimore esclusive in seguito a pesanti ristrutturazioni.

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La Torre Moresca, posta fra la Paola e la Cervia, venne distrutta dagli Inglesi nelle più volte citate guerre napoleoniche; non riuscirono però a fare altrettanto con la torre posta subito dopo il promontorio verso Terracina, che riuscì a respingerli (seppure con ingenti perdite) tanto da meritarsi il nome di Torre della Vittoria.

Superato il Pesco Montano, un roccione debitamente adattato a torre di guardia per essere posto al controllo di Porta Napoli, si arrivava un tempo lungo la Via Appia all’imponente Torre Gregoriana, posto di controllo pontificio per le operazioni da eseguirsi al confine col Regno di Napoli: anche questa torre, purtroppo, andò perduta durante la Seconda Guerra Mondiale. Qui la costa era, per un certo tratto, difesa dalla vasta palude di Fondi, e le fortificazioni tenevano il piede delle montagne seguendo la Via Appia. Ecco comparire quindi la Torre del Pesce e la Torre dell’Epitaffio che, stando alle cronache, badavano più ai banditi nostrani come Gasperone che ai pirati turchi.

Torre Canneto e Torre Sant’Anastasia vennero distrutte nel secondo conflitto mondiale, mentre ben conservata è ancor oggi la Torre del Truglia, punta avanzata di Sperlonga: per quanto essa fosse ben munita non riuscì a fermare, nella temibile notte fra il 5 e il 6 agosto 1623, l’incursione del pirata Barbarossa che arrivò a conquistare Fondi e per poco non riuscì a catturare la bella Giulia Gonzaga.

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Le torri che seguono, costruite al fine di rinforzare la piazzaforte di Gaeta con una serie di punti di avvistamento, vennero costruite dall’infaticabile don Pedro de Toledo, rappresentante del governo Spagnolo: sorsero così le Torri di Capovento, di Sant’Agostino, la Torre Viola e la cosiddetta Scissura: di queste restano solo le ultime due, dopo il crollo della Torre di Capovento nel 1994 per incuria e disinteresse.

Trascuriamo il notissimo Castello di Gaeta, soprattutto per le sue vicende legate all’essere stato trasformato in un carcere militare, e soffermiamoci per un attimo su tutta la parte del territorio verso Capo d’Orlando, che costituisce un insieme poderoso e cruciale della storia militare dei Bizantini nella costituzione del Regno d’Italia. La zona, che subì almeno dodici assedi ed una innumerevole quantità di assalti, era notoriamente frequentata ai tempi dell’Antica Roma, come dimostrato dall’ingente patrimonio archeologico, parte del quale (come ad esempio il sepolcro di Munazio Planco) venne trasformato in punti di difesa.

La torre all’interno del porto di Formia era detta Mola di Gaeta, tanto da diventare l’iniziale toponimo della stessa Formia. Fu sempre Pedro de Toledo a far costruire la Torre della Foce, la Torre Gianola sul promontorio di Scauri e la Torre di Traetto: quest’ultima, caso unico nell’ambito delle fortificazioni laziali, non venne distrutta da eventi bellici, ma venne volontariamente abbattuta per fare spazio al ponte di ferro sul fiume Garigliano, attuale confine fra Lazio e Campania, all’estremo sud del Lazio che rappresenta anche il termine di questo articolo.

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