Gli alberi storici di Roma

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GLI ALBERI STORICI DI ROMA

L’aneddotica di Roma è ricca di riferimenti agli alberi, in particolare legati alla particolare considerazione di cui godevano presso gli Antichi: basti pensare al ficus ruminalis, alla cui ombra vennero allattati Romolo e Remo, al corniolo sul Palatino, nato dal miracoloso rinverdire della leggendaria lancia scagliata da Romolo per delimitare i confini della città, o ancora ai lecci del bosco sacro nella valle dell’Almone, dedicato a quella Ninfa Egeria che fu la mitologica ispiratrice del re Numa Pompilio nell’elaborazione delle leggi della Roma Arcaica.

Abbandonando le epoche leggendarie è possibile trovare, nella millenaria storia di Roma, numerosi esempi di alberi connessi a vicende o personaggi storici, ed è proprio a questi veri e propri monumenti arborei che intendiamo dedicare questo articolo del blog. Sia chiaro, in qualche caso al posto di colossali giganti verdi oggi è possibile vedere solo resti rinsecchiti o corrosi dal tempo, con rami contorti privi di vita o tronchi corrosi ingabbiati da cerchi metallici.

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LA QUERCIA DEL TASSO

È questo il caso della Quercia del Tasso, situato lungo la Passeggiata del Gianicolo, a due passi da quel convento di Sant’Onofrio dove l’autore della Gerusalemme Liberata risiedette nell’ultimo periodo della sua vita, fino alla morte che lo colse il 25 aprile del 1595, dopo un’esistenza segnata da uno stato morboso che gli causava continue inquietudini e malinconie, sempre nella spasmodica attesa dell’incoronazione in Campidoglio come poeta. Come dice la lapide commemorativa, posta nel 1899 sul muretto di sostegno, “All’ombra di questa quercia, vicino ai sospirati allori e alla morte, Torquato Tasso ripensava silenzioso le miserie sue tutte”.

Ci piace credere che il frondoso albero alleviasse le sofferenze della sua vita tormentata e regalasse un idilliaco, seppur effimero, senso di pace al poeta, desideroso di rifugiarsi nella natura di fronte alla quasi totale incapacità di comunicare con gli altri uomini. La quercia, così come la vicina tomba del poeta nella chiesa di Sant’Onofrio, è sempre stata meta di illustri visitatori, da Stendhal a Chateaubriand, da Vittorio Alfieri a Giacomo Leopardi; tra di essi, merita una citazione particolare San Filippo Neri che, come viene ricordato sulla stessa lapide, “tra liete grida si faceva co’ fanciulli fanciullo sapientemente”, mentre proprio qui educava cristianamente i ragazzi romani, dilettandosi anche di giochi e di attività sportive.

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Nel 1843, la quercia venne colpita da un fulmine. Da allora, i suoi resti sono tenuti assieme da travi che danno all’insieme un aspetto surreale, quasi da film dell’orrore, anche considerando la presenza di altre rigogliose querce nei paraggi. La vista, che un tempo doveva essere spettacolare nella sua spaziosità, è oggi parzialmente occlusa dalla presenza del piccolo teatro all’aperto, costruito per alleviare le estati romane e denominato proprio “della Quercia”.

L’ARANCIO DI SAN DOMENICO

Dal Gianicolo spostiamoci ora all’Aventino, un colle che ha sempre conservato una fortissima vocazione religiosa, dai culti arcaici al mitraismo, dal primo Cristianesimo fino alla presenza attuale del Cavalierato dell’Ordine di Malta. Nella Chiesa di Santa Sabina, forse l’esempio più perfetto a Roma di basilica paleocristiana, affacciandosi da una sorta di oblò nel portico di ingresso e possibile scrutare l’Arancio di San Domenico, situato in un giardino dell’attiguo convento fondato dal Santo spagnolo. Si tratterebbe, secondo la tradizione, del primo arancio portato a Roma dal Portogallo, nel 1216, da Domenico di Guzman in persona: tale provenienza potrebbe forse spiegare il motivo per cui, soprattutto nell’Italia meridionale, l’arancio venga anche chiamato “portogallo”. In realtà doveva però trattarsi di un melangolo, ossia di un arancio amaro, perché l’arancio dolce arrivò in Italia solo nel XVI secolo, trasportato dagli Arabi in Sicilia.

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Secondo la tradizione, dai frutti dell’arancio in questione la monaca domenicana Santa Caterina da Siena preparò dei canditi da regalare a Papa Gregorio XI, probabilmente per convincerlo ad abbandonare il soggiorno avignonese e fare ritorno a Roma.

L’albero che si vede oggi dall’oblò, rigoglioso e ricco di frutti, non è più quello originario: otto secoli sono troppi anche per un albero di arancio protetto da un santo! La pianta è comunque venerata e messa in risalto da un muretto circolare con la scritta “lignum habet spem”; ai piedi dell’arancio si può notare anche un grazioso rilievo fittile, rappresentante il Santo di fronte ad un panorama di fondo in cui si nota anche il famoso albero, e non può mancare lo stemma in bianco e nero dell’Ordine dei Domenicani che, secondo le intenzioni di San Domenico che lo fondò nel 1215, doveva abbinare gli esercizi della contemplazione a quelli della carità e della predicazione della parola di Dio.

IL CIPRESSO DI SANTA MARIA DEGLI ANGELI

Anche un altro convento annesso ad una chiesa romana ha avuto il privilegio di accogliere un albero storico, che secondo la tradizione venne piantato da Michelangelo Buonarroti in persona: si tratta del Convento dei Certosini situato accanto alla Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, restaurata dallo stesso Michelangelo utilizzando alcuni degli ambienti delle antiche Terme di Diocleziano. Al centro del Chiostro Maggiore, visitabile durante il percorso del Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano, si può ammirare una piccola fontana circondata da quattro cipressi, uno dei quali, il più rinsecchito, è considerato l’unico superstite di quelli antichi e viene denominato appunto il “Cipresso di Michelangelo”.

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In questo caso, però, è obiettivamente improbabile che tale denominazione abbia fondamenti storici, poiché la costruzione del chiostro avvenne nel 1565 (ossia un anno dopo la morte del Buonarroti) e la fontana venne aggiunta addirittura un secolo dopo. Nonostante ciò, è piacevole fantasticare ed immaginare che il grande artista possa aver piantato con le sue mani forti e callose proprio un cipresso, l’albero che caratterizza la Val d’Orcia in Toscana, disposto in filari lungo i viali o come vedetta solitaria sulle colline, che troviamo sempre riprodotto nei paesaggi dei pittori rinascimentali.

IL MANDORLO DI VILLA GLORI

Una nobile e veneranda reliquia storica che riporta ai tempi eroici del Risorgimento è il Mandorlo di Villa Glori, visibile nella Piazza del Mandorlo all’interno della villa.

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Si tratta in realtà di un moncone di albero, sostenuto da un muretto e protetto da una cancellata di ferro. Presso questo albero, il 23 ottobre 1867, in uno scontro con gli Zuavi pontifici, morì il patriota italiano Enrico Cairoli, che aveva guidato un drappello di garibaldini nell’eroica spedizione per la liberazione di Roma. Nella stessa battaglia venne ferito gravemente e fatto prigioniero il fratello minore Giovanni, che morì poco dopo a causa delle ferite riportate.

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IL PINO DI MONTE MARIO

Tra gli alberi storici di Roma non poteva ovviamente mancare il pino, l’albero italico per eccellenza, che però nel caso che stiamo per raccontare ottenne una sorta di cittadinanza onoraria inglese.

Come molti sanno l’Italia, soprattutto durante il Romanticismo, divenne per gli anglosassoni una meta obbligata, contrassegnata da una profonda ed intensa sensazione di nostalgia: artisti, letterati e poeti viaggiavano fino alla Città Eterna riportando in patria le loro impressioni riportate in diari, lettere, disegni e ricordi. Tra di essi c’era anche il grande poeta inglese William Wordsworth (1770-1850), che aveva una vera e propria predilezione per la natura e che proprio a Roma, durante il suo “Grand Tour”, fu protagonista di un episodio di particolare entusiasmo nei confronti del pino di Monte Mario, da lui cantato con viva sensibilità in un sonetto contenuto nella raccolta Memorials of a tour in Italy, redatta nel 1837.

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Il pino secolare, che si ergeva solitario tra Villa Mellini e Santa Maria del Rosario, era stato riscattato da sir George Howland Beaumont, grande amico di Wordsworth, pronto a pagare una forte somma di denaro al propriuetario dell’albero, intenzionato ad abbatterlo. Vivamente commosso da questo atto generoso, il poeta si mise ad abbracciare il tronco del pino: “Il pino salvato, con il suo cielo così splendente ed una bellezza simile a quella di nube, soffuso di domestici pensieri, di amici rimpianti e di giorni troppo rapidamente trascorsi, soppiantò l’intera maestà di Roma coronata dall’immortale cupola di San Pietro”.

Da quel giorno in avanti, una vera e propria processione di artisti e poeti si recò ad ammirare il pino sul profilo di Monte Mario, finchè esso non venne abbattuto dal vento intorno al 1910. In ogni caso, però, “il gran pino italico sopra un colle romano”, per adoperare la celebre espressione di Gabriele D’Annunzio, rimarrà immortale e la sua memoria, in mancanza dei resti, continuò a far parte del repertorio poetico sentimentale di Roma.

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