Il Museo Criminologico di Roma

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IL MUSEO CRIMINOLOGICO DI ROMA

Il Museo Criminologico di Roma, in via del Gonfalone 29, nel palazzo ad angolo con via Giulia, venne istituito nel 1931 a cura del Ministro della Giustizia. Una circolare del 26 giugno 1930 del Ministro Guardasigilli disponeva che nel Museo Criminale, come allora fu chiamato, fossero conservati i corpi di reato trasmessi dagli uffici giudiziari, ovvero tutte quelle “cose artistiche, rare o antiche o di interesse scientifico” sequestrate dalla Polizia come refurtiva.

Alcuni anni dopo, il Museo ha assunto il nome più appropriato di Criminologico, perché la documentazione in esso raccolta non riguarda soltanto i delitti e gli attrezzi e strumenti con cui sono stati attuati, nonché i sistemi e gli strumenti di pena e di tortura di altri tempi, ma ha anche la funzione di illustrare la prevenzione dei delitti e il trattamento rieducativo dei condannati.

QUATTRO SEZIONI, 31 SALE

Il Museo si estende su tre piani, con 31 sale ordinate secondo quattro sezioni: corpi di reato, indagini di polizia giudiziaria, esecuzioni capitali e pene detentive, sezione storica. Danno il benvenuto al visitatore, nella prima sala, una testa di marmo di Sileno di epoca romana e una testa barbuta di Giove, copia romana da originale greco. Interessante è la sezione “Falsi e Truffe”, dove sono esposti in bella mostra vasi e statuette in terracotta e in bronzo, abilmente falsificati tanto da essere perfettamente simili agli originali, e per questo degni di una certa qual ammirazione: sono infatti al contempo copie criminali e mirabili opere d’arte. Fanno bella mostra di sé vasi istoriati greci ed etruschi, sia a sfondo rosso con figure nere che a sfondo nero con figure rosse, statuette di bronzo e persino monete di imitazione di tetradrammi siracusani, con la “firma autentica” dell’incisore Cimone.

In un’altra vetrina è esposto tutto il materiale sequestrato a Milano nel 1966 per reati di falsificazione e contraffazione, fra cui un’intera attrezzatura fotografica, una serie di pietre litografiche per la falsificazione dei biglietti di Stato ed un album che illustra dettagliatamente le varie fasi per la trasformazione di 100 biglietti da 100 lire in 100 biglietti da 1.000.

Dalla terza sala ha inizio la raccolta dei reperti inerenti gli “omicidi e lesioni”, distribuiti in quattro sale. Tra di essi spiccano i corpi di reato della celebre rapina alla Banca Popolare di via Osoppo, avvenuta a Milano nel 1958, fra cui le famose tute blu dei “sette uomini d’oro” che assalirono, mascherati tutti allo stesso modo, il furgone blindato della banca, ispirati dalla trama del film La Signora Omicidi, una sorta di manuale del perfetto bandito.

Pistole, baionette, mannaie, scuri (come quelle usate dalla efferata “saponificatrice di Careggio”) e pugnali (come quelle usato dalle Sorelle Cataldi per uccidere, a Piazza Vittorio, il piccolo Gianni Belli e sua madre Angela) sono solo una piccola parte dei reperti legati ai più clamorosi delitti, che hanno a suo tempo riempito le pagine della cronaca nera. Ben più nobili le due spade adoperate nel famoso duello avvenuto a Roma nel 1898 fra l’onorevole Felice Cavallotti e il conte Ferruccio Macola, in cui il Cavallotti, dopo la bellezza di 33 duelli vincitori, morì ponendo così fine al mito della sua invulnerabilità.

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Nella Sala VI, sempre sezione “omicidi e lesioni”, sono raccolti, insieme a due splendide anfore vinarie false sequestrate a Civitacastellana, reperti riferiti a delitti di vario tipo compiuti con armi improprie, spesso legati alla magia e alla superstizione. Fra le curiosità del museo gli oggetti personali e i monili di valore, che appartennero a Gaspare Pisciotta e a Salvatore Giuliano.

La Sala VII racconta un importante pezzo di storia italiana, perché raccoglie vari reperti appartenuti all’anarchico Gaetano Bresci, autore del regicidio di Umberto I di Savoia: orologi, macchine fotografiche e oggetti personali che denotano, nella personalità dell’omicida, un certo infantilismo psicologico.

La sala successiva è dedicata ai contrabbandieri, ed espone i vari marchingegni per contrabbandare ogni tipo di merce: damigiane e carriole con doppio fondo, bastoni cavi e perfino un piccolo sottomarino adibito al trasporto di merce di contrabbando fra la Svizzera e l’Italia lungo il lago di Lugano. Nel corridoio ancora vetrine che espongono monete false di collezione e due falsi bronzetti, raffiguranti l’uno Ercole e l’altro un’imprecisata divinità etrusca con scudo.

PRIMO PIANO

Salendo al primo piano i visitatori si trovano di fronte un macabro strumento di tortura, la Vergine di Norimberga, una specie di sarcofago con due sportelli muniti all’interno di acuminati e lunghi spunzoni di ferro, che si richiudevano sulla vittima trafiggendole gli occhi e il cuore. Sebbene il macabro oggetto venga definito dalla guida museale uno strumento di tortura in Germania e in Spagna fino al XVI secolo, non si trovano fonti storiche che parlino di un suo impiego prima del XIX Secolo e si tratta probabilmente solo di uno strumento di tortura creato a fini scenografici.

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La Sala X espone bandi e grida contro banditi e facinorosi, provenienti da Modena e da Ferrara, alcune bolle papali del XVI e XVII secolo, alcuni decreti del Granduca di Toscana del XVIII secolo, nonchè pugni di ferro, bastoni, sfollagente e preziosi pugnali antichi, con manici istoriati e foderi lavorati ad arabeschi.

Un’intera sala, la XI, è dedicata allo spionaggio. Desta curiosità il cosiddetto “baule mascherato” che la Squadra Mobile di Roma sequestrò all’aeroporto di Fiumicino e in cui era rinchiusa la spia egiziana Luck Marco di Massad, nativo del Marocco e cittadino di Israele. Il baule, dotato internamente di seggiolino e di poggiatesta con sottogola, era curato nei minimi particolari per ospitare una persona per molte ore, durante la trasvolata verso gli Stati Uniti.

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Ai giochi d’azzardo ed alle famigerate macchinette mangiasoldi, di cui un esemplare fu sequestrato dalla Polizia in un circolo ricreativo giovanile, è dedicata la Sala XII, mentre le successive quattro sale espongono reperti riguardanti le indagini di polizia giudiziaria, con fotografie, strumenti di rilevamento delle impronte e prove tecniche per gli esami calligrafici.

In una vetrina della Sala XVI c’è la macabra esposizione di alcuni crani sezionati, fra cui quello del brigante calabrese Giuseppe Vilella, nel cui cervello Cesare Lombroso trovò materiale utile per le sue lezioni di antropologia criminale.

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La sezione più macabra del Museo Criminologico è senza dubbio quella dedicata a “esecuzioni capitali e ferri di punizione”, in cui spiccano i più efferati delitti e i più atroci strumenti di pena, da cui si può rilevare la crudeltà e il morboso sadismo di certe antiche istituzioni penali di una volta. La Sala XVIII e XIX potrebbero essere definite vere e proprie sale degli orrori. Su una gabbia di ferro sagomata sul corpo umano, appesa in alto ad un gancio, proveniente dalle Carceri Giudiziarie di Milazzo, fa spicco lo scheletro di un soldato di ventura tedesco, forse un Lanzichenecco disertore, messo alla berlina e condannato a morire di fame e di sete, affinchè fosse di monito ai suoi commilitoni.

Fra i documenti più interessanti, una serie di stampe che rievoca la triste vicenda di Beatrice Cenci e della sua famigerata famiglia: dallo snaturato padre Francesco, fatto precipitare dalla giovane figlia, con l’aiuto di un garzone, dal balcone della Rocca della Petrella, in provincia di Rieti, al processo intentato a tutti gli eredi dal Papa Clemente VIII, con relativa condanna del fratello maggiore di Beatrice al mazzolamento e allo squartamento sul palco davanti a Castel Sant’Angelo, seguiti dal taglio della testa di Beatrice e della matrigna, povere vittime delle nefandezze di Francesco Cenci.

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Insieme ai crocifissi e ai bussolotti per le elemosine della Confraternita di San Giovanni Decollato, spicca anche il mantello del boia Mastro Titta, all’anagrafe Giovan Battista Bugatti, ancora macchiato di sangue. Mastro Titta fu il boia ufficiale di Roma dal 1796 al 1864 e, in 68 anni di “onorata professione”, eseguì personalmente ben 516 esecuzioni capitali, per impiccagione, con la mannaia, con la ghigliottina, senza contare le centinaia di mazzolamenti e squartamenti. Nella sala è pure conservata la ghigliottina di Roma, con tanto di canaletto per far scorrere il sangue: era utilizzata sia a Castel Sant’Angelo che a Piazza del Popolo, e fu utilizzata anche per ghigliottinare i carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari il 23 novembre 1825, come ricordato da apposita targa affissa proprio sulla piazza.

Al centro della Sala XIX, detta Sala delle Esecuzioni, sono collocate su una pedana di legno la Forca d’Alba e la Ghigliottina di Lecce, completa di mannaia, molla di scatto e cesto per raccogliere la testa. Accanto alle ghigliottine c’è lo “spadone di giustizia”, usato nel XVI secolo per le decapitazioni e ritrovato nel greto del Tevere.

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Nella Sala XX, fra berline e manette varie, utilizzate per mettere alla gogna i criminali, spicca una specie di museruola di ferro detta la “briglia delle comari”, strumento di punizione che, secondo la tradizione, veniva usato nel Medioevo per frenare la lingua delle mogli. Ci sono inoltre disegni e fotografie di esecuzioni capitali presso vari popoli; una spia posta sulla bocca di un cannone, un elefante che schiaccia la testa di un condannato con il piede ed anche l’incredibile decapitazione di un uomo legato con la testa sulle ore dodici di un grande orologio, con due spade affilate al posto delle lancette.

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Tra i modellini di supplizi inventati dagli antichi ed esposti nell’ultima sala del Museo Criminologico spicca il Toro di Falaride, nel cui interno veniva rinchiuso il condannato mentre sotto il ventre del toro veniva acceso un grande braciere, che infuocava il bronzo: il nome dello strumento nasce dal fatto che, quando la vittima urlava di dolore, dava l’impressione di un muggito del toro.

Un’ultima annotazione per un’esposizione temporanea avvenuta nel Museo per soli tre giorni, dal 1 al 3 Novembre 2015, in occasione del 40° anniversario della morte (ancora in parte misteriosa) di Pier Paolo Pasolini: in tale occasione vennero esposti alcuni reperti  (oggetti, indumenti, documenti) che il discusso intellettuale aveva indosso con sé al momento della morte o che sono stati ritrovati nella sua Alfa Romeo GT 2000 Veloce: gli stivaletti, i jeans e la camicia patchwork ancora con i segni del fango dell’Idroscalo di Ostia (luogo dell’uccisione), i documenti dell’Alfa, una bustina di profilattici 777 e una confezione di Saridon, alcune fototessere, assegni della Cassa di Risparmio di Roma, il tesserino di giornalista pubblicista e naturalmente i famosi occhiali scuri Oliver Goldsmith, divenuti quasi un’icona nell’immaginario collettivo.

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