JEAN-MICHEL BASQUIAT
Oggi, nell’aprile 2021, avrebbe avuto 60 anni. La sua stella si spense invece il 12 agosto 1988, quando di anni ne aveva appena 27; fu un’intossicazione di droghe, come recitava il formale referto medico, ma secondo molti fu la fine che doveva esserci, dopo essersi interamente consumato, come uomo e come artista, in appena un decennio. Disse bene Keith Haring: “Jean-Michel Basquiat è vissuto come una fiamma. È bruciato luminosissimo, finchè il fuoco si è spento, ma le sue braci sono ancora roventi”.
Era stato proprio lui, nel dicembre 1978, ad identificare in Basquiat e nel suo amico Al Diaz gli autori di quelle opere da strada, a metà fra l’acido e l’ironico, tracciati con le bombolette spray un po’ dappertutto nel quartiere della Lower Manhattan. Erano firmati SAMO, con immediatamente dopo il simbolo del copyright: si trattava di un acronimo per “SAMe Old shit”, ossia “la solita vecchia merda”, un personaggio di fantasia che, a detta dello stesso Basquiat, si guadagnava da vivere vendendo una falsa religione.
Tre anni dopo, le sue prime opere appese alle pareti della Galleria di Annina Nosei, a New York, durante la mostra collettiva Public Address ebbero sul mondo dell’arte lo stesso effetto di una bomba atomica scagliata a Nagasaki. Da un giorno all’altro lo scantinato di Soho, al numero 151 di Crosby Street, che Annina Nosei aveva messo a disposizione di quel giovane talento dalla testa calda, diventò uno dei posti meglio frequentati d’America, punto d’incontro di grandi collezionisti, critici apprezzati e mercanti autorevoli.
René Ricard, un poeta che era comparso anche nei film di Andy Warhol e che era poi passato alla critica dell’arte, riconobbe all’artista ventunenne una maturità già completamente acquisita, scrivendo: “Basquiat ha la piena consapevolezza di cosa sta comunicando. Se Cy Twombly e Jean Dubuffet avessero avuto un figlio e lo avessero dato in adozione, questo figlio sarebbe stato Jean-Michel, che ha in sé l’eleganza di Twombly e la brutalità di Dubuffet”.
Basquiat ignorava qualsiasi regola accademica e qualsiasi gerarchia. Si limitava a dipingere libere associazioni mentali, immagini derivate dalla vita quotidiana e dalla cultura popolare. Le sue fonti di ispirazione andavano dai fumetti ai disegni per bambini, dai testi di anatomia a quelli sulla cultura afroamericana, spaziando letteralmente su qualsiasi scibile della storia dell’arte. Aveva la straordinaria capacità di tradurre in pittura tutte le tensioni culturali, sociali e razziali che animavano l’America fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso.
Basquiat si sentiva intimamente oppresso da un razzismo viscido e strisciante: persino molti dei giornalisti che recensirono le sue mostre vennero apostrofati da Basquiat come razzisti.
Come raccontato dai suoi compagni di strada in quegli anni, Jean-Michel fu davvero una vittima del razzismo. Fab 5 Freddy, pioniere dell’hip hop e street artist che gli fu molto vicino, amava ricordare con un pizzico di sarcastico fastidio che “in quanto nero, Jean-Michel veniva sempre trattato da outsider e che, anche se cominciò a viaggiare in Concorde, non riuscì mai a fermare un taxi”. Ormai celebre, nel 1986, fu umiliato anche nei Grandi Magazzini Bloomingdale’s di New York, sebbene fosse entrato assieme al suo carissimo amico Andy Warhol: voleva regalare a sua madre un buono regalo da tremila dollari, ma quando estrasse la sua carta American Express per pagarlo, venne chiamato il Direttore che pretese di vedere i suoi documenti.
È anche per questo motivo, per questo suo sentirsi continuamente vittima di atteggiamenti razzisti, che tanti eroi neri dello sport, del cinema e della musica popolano i suoi quadri. Amava soprattutto Miles Davis, e quando gli chiesero di spiegare cosa rappresentassero i suoi dipinti, Basquiat risposte proprio citando il grande trombettista: “Non so mai come descrivere il mio lavoro, perché non è mai la stessa cosa. È come chiedere a Miles Davis come suona la sua tromba: non credo che potrebbe davvero rispondere sul perché egli suoni quella specifica nota in quello specifico momento del suo pezzo”.
Per anni, nonostante Basquiat riempisse intere colonne di quotidiani e settimanali di gossip con la sua condotta sregolata, il suo successo non sembrava incontrare ostacoli. Cambiava galleristi come faceva con i suoi abiti griffati Armani, che indossava sempre macchiati di colore. Le sue mostre personali erano prese d’assalto da collezionisti, vip e attori di Hollywood. A 21 anni Basquiat venne invitato alla Rassegna di Kassel, ed ancora oggi rappresenta l’artista più giovane ad avervi mai partecipato; l’anno dopo riscosse un clamoroso successo anche a New York, alla Biennale di Whitney. Nel 1982 il suo ritmo di produzione era straordinario: un’opera al giorno, a volte anche di più. Tre anni dopo finì sulla copertina del magazine allegato al New York Times.
Nella vita di Basquiat, però, tutto cambiava alla velocità della luce. Era un tossicomane. Nel 1982 lo scultore Arden Scott, vedendo la gigantesca quantità di cocaina sparpagliata ovunque nello scantinato di Basquiat, lo mise con le spalle al muro e gli disse: “puoi decidere cosa fare di te, un grande artista o una grande tragedia”. Jean-Michel rispose con un sorrisetto sghembo “Perché non entrambi?”, ma in fondo al suo cuore aveva già scelto la seconda opzione.
Le sue condizioni andarono peggiorando sempre più: all’inaugurazione dell’ultima mostra, nell’aprile 1988, si presentò con la pelle del viso erosa dalle escoriazioni e metà dei denti caduta. Morì il 12 agosto 1988. A novembre dello stesso anno Keith Haring, già malato di AIDS, lo ricordò con le seguenti parole: “ha stravolto le politiche del mondo dell’arte, sostenendo che se volevano giocare al loro gioco, le regole le avrebbe stabilite lui”.
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…Ho subito un’attrazione inusuale nel conoscere l’arte e la semplicità di vita di Jean Michel Basquiat.
Grande artista anarchico….grazie