I GIOCHI A ROMA AI TEMPI DEL BELLI
Ai tempi di Giuseppe Gioacchino Belli e Bartolomeo Pinelli, che con le sue incisioni ci ha raccontato una storia folkloristica e suggestiva, Roma era una città davvero più piccola, tutta racchiusa nelle sue mura, in una continua disfida fra rioni, popolana e borghese nelle giornate all’aria aperta, tutta strade e piazze. E all’aria aperta i romani giocavano, inventando a volte loro stessi i passatempi che esprimevano a pieno la propria esuberanza, grintosa e spavalda.
LA RUZZOLA
Caratteristica in questo senso era la ruzzola (dialettalmente diventata “la ruzzica”), che richiedeva spazi aperti e liberi come quelli di Campo Vaccino.
La ruzzola era una pesante ruota di legno, ricavata da una sezione di tronco d’albero, racchiusa in un cerchio di ferro, che veniva lanciata a mano libera, o per mezzo di una funicella, preventivamente avvolta sulla circonferenza del cerchio di ferro, per essere svolta violentemente e lanciata come il sasso di una fionda in modo da ruzzolare lontano, spinta dall’impulso datole dal possente braccio del giocatore. Il percorso che i giocatori seguivano tenendo dietro alle rispettive ruzzole poteva essere lungo anche chilometri: l’abilità del giocatore stava nel lanciare la ruota di legno con forza e precisione, in modo da farle imboccare la direzione esatta, con la giusta inclinazione, lungo le curve della strada o del percorso di terra battuta, con tutti i suoi dislivelli e le sue asperità.
I giocatori, seguiti da un codazzo di amici e tifosi che assistevano alla partita, percorrevano lunghi tratti di strada dietro la propria ruzzola, e ogni lancio suscitava i commenti di ammirazione o le critiche degli spettatori. Il gioco della ruzzola era praticato principalmente dai popolani dediti a mestieri che richiedevano forza di braccia e potenza di muscoli: il carrettiere, il vetturino, il macellaio, il facchino di Ripa Grande e di Ripetta, il fabbro, il carpentiere ed il facocchio, ovvero il fabbricante di carrozze. In particolare nelle campagne, molte volte la ruzzola era sostituita da una forma di formaggio pecorino stagionato, che naturalmente spettava al vincitore: ancor oggi, in paesi come Pontelandolfo, si tiene una vera e propria Sagra della Ruzzola.
LE BOCCE
Il Campo Vaccino era il luogo congeniale per ospitare degnamente anche un altro gioco all’aria aperta, quello delle bocce. Tra gli imponenti ruderi dell’Antica Roma, i giocatori sfogavano la propria abilità, dando luogo a gare e sfide accanite, con conseguenti contestazioni e risse, che spesso finivano, quando si trattava di bulli rivali, a coltellate. Ogni squadra aveva i suoi “campioni della bocciata e dell’accostata”, che conoscevano i segreti dell’effetto impresso alla boccia con un particolare moto rotatorio della mano che la lanciava. In genere ad ogni partita si metteva in palio il canonico litro di vino, che riscaldava gli animi e dava esca a discussioni puntigliose e accalorate, a cui prendeva parte anche il pubblico di amici, compagni, spettatori e tifosi.
Scoppiavano così commenti pungenti, critiche sferzanti e sarcastiche battute di spirito, in una girandola di doppi sensi e iperboli che trasformavano il dialetto romano in una palestra di virtuosismi verbali inimitabili e che ovviamente facevano spesso passare dalle parole ai fatti, facendo degenerare l’alterco verbale in lite furibonda.
Il gioco delle bocce a Roma era talmente popolare che certe espressioni tipiche del gioco, come “andare a lecco” (cioè accostarsi con la propria boccia al pallino, detto appunto “lecco”), sono rimaste nel parlare comune, nel caso in questione con il significato di “andare in porto”.
LA MORRA
Il gioco probabilmente più diffuso nella Roma ottocentesca era la morra, che si giocava in genere nelle osterie all’aperto, con pergolato e annesso campo di bocce. Si trattava di un gioco primordiale, se lo praticavano gli stessi eroi di Omero, e che non aveva bisogno né di dadi né di carte, ma solo delle mani e della voce, oltre che di una buona dose di prontezza di riflessi e di spirito d’osservazione. Un gioco rude, scattante, urlato a monosillabi quasi incomprensibili, violenti come una sferzata, perfettamente adatti al carattere impulsivo e battagliero dei “Romani de Roma”, per natura scontrosi e attaccabrighe.
Si giocava in quattro, a coppie che si alternavano nelle partite; si gettavano i numeri, anziché con i dadi, con le dita della mano destra, accompagnandosi con la voce, anzi con l’urlo, a scandire i numeri a monosillabi, mentre con la sinistra si segnavano i punti. Il giocatore, con intuito, rapidità e prontezza psicologica, doveva prevedere quanti punti avrebbero totalizzato le dita delle due mani gettate avanti contemporaneamente, facendo un fulmineo calcolo delle probabilità, che teneva conto del carattere e della prontezza di riflessi dell’avversario.
Era questione di decimi di secondo: tutto dipendeva dalla sveltezza nello scandire il numero nell’attimo preciso, né prima né dopo, senza far capire all’altro le proprie intenzioni. Bisognava giocare di contropiede e indovinare, con una frazione di secondo in anticipo, le intenzioni dell’avversario, che poteva tradirsi per un nonnulla, per una sfumatura o per un accenno della voce in anticipo.
Il governo pontificio proibì più volte questo gioco per frequenti risse e accoltellamenti a cui dava adito; pene esemplari per i trasgressori venivano comminate da bandi severissimi, promulgati ogni tanto dalle autorità pontificie, ma tutto si dimostrò inutile. La morra seguitò ad essere il divertimento domenicale preferito dei romani all’osteria e a provocare liti sanguinose.
LE CARTE
All’aria aperta si giocava anche a carte: il luogo tipico era sempre l’osteria, ma sotto un pergolato o nelle pause di lavoro a Ripa Grande e Ripetta un mazzo di carte saltava sempre fuori.
Si giocava a zecchinetta, bassetta, faraone, caffo, trenta quaranta, tutti giochi proibiti con vari bandi in quanto considerati giochi d’azzardo. Zecchinetta era forse il gioco più classico, tanto da essere persino stato più volte immortalato da Bartolomeo Pinelli, persino in un’incisione a Trinità de’ Monti, sotto l’obelisco fatto restaurare e innalzare da Pio VI nel 1789.
Vi si radunavano a giocare appunto i robusti e rissosi scaricatori del Porto di Ripetta e i facchini di servizio presso gli alberghi, le locande e le ambasciate di Piazza di Spagna, di Via dei Condotti e di via Sistina, dove arrivavano continuamente nuovi turisti stranieri da tutte le parti d’Europa, chiamati da motivi di lavoro o di studio, o semplicemente attratti dal fascino delle bellezze di Roma. Anche in questo caso, durante le partite, veniva fuori un frasario facilmente immaginabile, che sfociava in frequenti zuffe, spesso a causa del tentativo di comunicare al compagno un’informazione sulle carte o un suggerimento per fare il punto e vincere la partita.
LE MONETE
La zuffa scoppiava facilmente anche in un altro gioco d’azzardo ricordato da Gigi Zanazzo in Usi e costumi del popolo romano: il garaghé. “I giocatori, fatta la conta, la quale deve indicare il primo di loro che “frulla’’, ossia che lancia due monete in alto, si disponevano in circolo e ciascuno deponeva in terra, davanti a sé, la somma che aveva scommesso sulla faccia che mostravano le monete dopo cadute. Se i soldi, nel cadere in terra, indicavano ambedue le armi (ossia la figura del sovrano), allora chi li aveva lanciati vinceva tutte le monete scommesse dai vari giocatori; se al contrario i soldi caduti in terra mostravano il “santo”, ossia l’esergo della moneta, allora il giocatore perdeva e faceva, come si diceva, batticulo”.
Naturalmente c’era anche chi barava, adoperando monete con le armi su entrambi i lati, e quindi vinceva sempre, finché gli altri non scoprivano il tranello: questa moneta falsa era chiamata, nel gergo dei giocatori, “er bello”.
Il garaghé era detto anche il gioco della civetta, a causa del movimento della testa dei giocatori nel seguire su e giù le monete lanciate in alto.
I GIOCHI DEI RAGAZZI
All’aria aperta giocavano naturalmente anche i ragazzi che, a parte gli intramontabili nascondarella e moscacieca, si divertivano anche con il caratteristico “salta la quaglia”, che prendeva il nome per similitudine dal saltellare che fanno le quaglie nei loro spostamenti a terra e che, in altre parti d’Italia, veniva chiamato “salto della cavallina”.
Consisteva nello scavalcare, con un agile salto, uno dopo l’altro, tutti i giocatori, disposti in fila, chini con il collo piegato e le mani sulle ginocchia, in modo da obbligare ogni saltatore, dopo aver preso la rincorsa, a poggiare le mani sulle spalle di ciascuno dei partecipanti, per poterlo sorvolare più agevolmente. Ogni saltatore, scavalcati tutti gli altri, doveva andarsi a mettere in testa alla fila e piegarsi, per essere a sua volta scavalcato da tutti i giocatori. Naturalmente il gioco dava adito a scherzi e a dispetti, come il classico calcio nel sedere inferto all’ultimo della fila, che anche in questo caso suscitava la reazione violenta dei malcapitati e molto spesso finiva in rissa.
I GIOCHI DELLE DONNE
Da quanto finora accennato, pare che tutti i giochi fossero l’anticamera della zuffa.
Un tocco di gentilezza nei giochi all’aria aperta non poteva venire che dalle donne, il cui passatempo preferito era costituito dall’altalena, detta “canofiena”.
Durante la bella stagione, in tutti i quartieri popolari di Roma, da Trastevere a Monti, da Regola a Ripa, veniva appesa, sugli architravi dei portoni, questa canofiena, fatta con una lunga e spessa tavola, tenuta da una robusta corda che, passando a doppia mandata sotto i due capi della tavola, era assicurata all’architrave, con sotto qualche straccio, per impedire alla fine di essere segata, per il continuo sfregamento, dallo spigolo della pietra.
Questo gioco era attesissimo dai giovanotti romani, che ne approfittavano per corteggiare le ragazze con la scusa di spingerle e aumentare l’oscillazione della tavola attraverso il vano del portone. Tali ragazze, che ovviamente erano perfettamente in grado di sbrigarsela da sole, ne approfittavano a loro volta per esercitare le proprie capacità seduttive, cantando allegri e maliziosi stornelli romaneschi, accompagnandosi con il cembalo o tamburello, mentre i ragazzi sbirciavano sfacciatamente sotto le gonne alzate e svolazzanti per il movimento avanti e indietro.
Ed ecco che un semplice passatempo all’aria aperta diventava un’occasione attesa per gli approcci amorosi, un gioco galeotto per la nascita di nuovi amori ed anche una palestra di esibizioni canore, di racconti fiabeschi e di piccanti barzellette.
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