Pasquino e i suoi fratelli

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PASQUINO E I SUOI FRATELLI

Apparentemente, niente più di un torso di marmo quello arroccato sul piedistallo all’angolo di Palazzo Braschi nella piazza intitolata al suo nome, Pasquino. Ha poca importanza che esso raffiguri un gladiatore o Ercole impegnato in una delle sue fatiche o un soldato di Alessandro Magno che sostiene il suo capitano svenuto mentre si bagna nel fiume Cidno o ancora Aiace che trascina fuori dalla mischia le spoglie mortali di Achille o persino Patroclo morto sorretto dall’amico Menelao.

Per noi Romani, conta ben poco che la scultura sia stata attribuita da alcuni studiosi a Athenodoros (uno dei tre scultori del Laocoonte) o a Glykon (il copista dell’Ercole Farnese), e che secondo la tradizione Michelangelo Buonarroti avrebbe detto che la statua era all’altezza dell’Apollo del Belvedere.

Quel che conta, per il popolo romano, è che Pasquino sia una “statua parlante”, così soprannominata per la tradizione che ha visto i Romani affiggere per secoli su di essa frasi di scherno e satire, rivolte perlopiù a personalità politiche ed ecclesiastiche. Pasquino è divenuto, nei secoli, l’emblema della “satira scultorea”, tanto che anche gli epigrammi e gli scritti satirici apparsi di volta in volta sulle altre statue di Roma sono stati accomunati nella cumulativa espressione “pasquinate”.

La statua denominata Pasquino venne alla luce a Roma nel 1501, quasi per caso. Il cardinale Oliviero Carafa aveva da poco comprato dagli Orsini l’edificio che sorgeva dove si trova oggi Palazzo Braschi e si era adoperato per far lastricare il fondo della piccola piazzetta: nel bel mezzo dei lavori, dal fango dove era sepolto venne tirato fuori un antico torso marmoreo. II cardinale, gran mecenate, volle superare i colleghi porporati, che avevano abbellito le proprie case con frammenti di arte antica, e fece collocare questa statua monca su un piedistallo.

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IL NOME “PASQUINO”

Come mai, però, questa scultura venne denominata Pasquino? Su questo nome si sono sbizzarrite varie interpretazioni. Teofilo Folengo, nel suo Baldus dal latino maccheronico, affermava che un fantomatico mastro Pasquino gestisse un’osteria nei paraggi; l’umanista Celio Curione sosteneva che si trattasse di un barbiere; secondo altri, egli era invece un sarto avente una bottega in zona.

Una nota di merito va alla tesi di Giacomo Mazzocchi, che faceva risalire il nome a un modesto maestro di scuola che insegnava grammatica latina agli alunni del ginnasio: costoro, per fargli uno sberleffo, lo immortalarono dando il suo nome a quel tronco di statua, sulla quale presero l’abitudine di affiggere i loro epigrammi il giorno di San Marco Evangelista, ossia il 25 aprile. Si trattava di certami recitati dagli studenti alla fine di una processione che partiva quel giorno da San Lorenzo in Damaso, facendo capo al torso di statua addobbato per l’occasione in modo da raffigurare personaggi del mondo antico.

Col passare degli anni, tali eruditi epigrammi lasciarono il posto a maldicenze, a frecciate di volta in volta più violente e scritte in volgare verso personaggi in vista, attacchi infarciti di ingiurie e oscenità che esaltavano l’arguzia popolare e borghese contro una corte romana, suddivisa in molteplici fazioni facenti capo a singoli prelati influenti. Per costoro l’elezione di un Papa si trasformava in un vero e proprio campo di battaglia, e le invettive affisse a Pasquino un mezzo propagandistico nella campagna elettorale, finalizzata a mettere in buona luce solo chi non era oggetto di quegli improperi in rima.

Quella su Pasquino non era infatti mai un’opposizione al potere in senso lato, e non aveva quindi l’obiettivo di ribaltare il sistema scuotendolo dalle fondamenta: il suo scopo era piuttosto quello di favorire l’inserimento nelle gerarchie di specifici personaggi, che spesso incaricavano di “sputtanare” (scusate il romanesco…) i diretti concorrenti alla scalata ai vertici del potere.

PAPA ADRIANO VI

Poeti talvolta discreti e più spesso mediocri misero così a disposizione la propria penna in questo “mercato della pasquinata”, affissa nel più rigido anonimato ma riconosciuta poi come produzione clandestina di scrittori di nome raffinato come Pietro Aretino e Giovan Battista Marino. In occasione della morte di Leone X, ad esempio, Pietro Aretino si impegnò per la candidatura di Giulio de’ Medici scrivendo più di quaranta sonetti sui 39 cardinali in conclave dal 27 dicembre 1521.

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Come si venne a sapere che era stato eletto Adriano di Utrecht, che assunse il nome di Adriano VI, l’Aretino vomitò inequivocabili ingiurie sul “ladro collegio” con terminologia davvero molto esplicita:

Canaglia vil, nimica a Cristo e a noi,

sotterratevi vivi da per voi,

or che disfatto avete voi e noi,

e se bravate noi,

noi in cul chiavato avemo tutti voi,

se in cul chiavate, monsignor, voi noi.

Pasquino si scatenò in una serie di satire cosi irriguardose nei confronti del nuovo Papa che questi ne ebbe abbastanza; non potendo però sfogarsi direttamente con l’autore, vista l’anonimato delle pasquinate, si racconta che Adriano VI diede l’ordine di prendersela con il torso stesso di Pasquino, facendolo a pezzi e gettandolo nel Tevere. A dissuaderlo dovrebbe essere stato il duca di Sessa, il quale, a quanto raccontò Paolo Giovio, “con impegno civile e arguto, disse che ciò non si doveva fare, soggiungendo che Pasquino, ancora nel più basso fondo del fiume, a uso delle rane, non avrebbe taciuto”.

CONTRO CARDINALI E PAPI

Le pasquinate, sempre più volgari, seguitarono come mezzo di propaganda nel gioco del potere usato per screditare avversari dentro e fuori la Curia: il cardinale di Santa Fiore divenne uno “spregio di natura che lo fe’ cacando dentro un orinale”, il cardinale di Burgos fu definito un tale “miserrimo stronzetto che se deve fare un peto col cul lo smezza”, e persino Papa Paolo III fu vittima di un epitaffio irriverente:

In questa fossa a guisa di orinale

giace Paolo avar, Sandro scortese;

e tu viator, pissagli addosso e vale.

Pasquino sembrava avere paraocchi equini: i grandi eventi europei trovavano scarsa eco nella satira pasquinesca, e al limite venivano visti in un’ottica romana, interpretati con insulti rivolti all’imperatore e ai sovrani.

Se l’epoca d’oro di Pasquino sembrò terminare nel 1566 quando, in piena Controriforma, Nicolò Franco per le sue frecciate contro Pio IV venne arrestato dal suo successore Pio V e fatto impiccare, non per questo la “voce” di Pasquino si zittì. Segretari, curiali insoddisfatti e portaborse di cardinali papabili avevano sempre modo di farsi sentire, magari in un tono satirico dimesso. Sotto accusa divenne a quel punto il nepotismo pontificio e progressivamente la divertente invenzione comica derivata da Pietro Aretino cedette il posto a un moralismo basato solo su vecchi luoghi comuni.

Il gusto per l’anonima infamia riprese forza nel XVII secolo, nella fanghigliosa lotta tra religiosi, e si rianimò ancor più nel Settecento su temi più salottieri. Di riflesso, divennero più feroci anche le rappresaglie papali contro gli autori di pasquinate: sotto Benedetto XIII vennero comminate addirittura “la pena di morte, la confisca dei beni, l’infamia del nome per chiunque, senza distinzione di persone, clero compreso, scrive, stampa, diffonde libelli che abbiano carattere di pasquinate”.

Per fortuna del nostro povero torso marmoreo e dei suoi anonimi compari, furono solo vacue parole. Durante il conclave del 1829, nel quale venne eletto Pio VIII, Pasquino venne sorvegliato a vista dai gendarmi: uno spiegamento di forze e di impegno che non servì in alcun modo a metterlo a tacere.

Era impossibile imbavagliare Pasquino, che tra l’altro aveva ben cinque aiutanti a fargli da spalla: altre cinque “statue parlanti”, che componevano con lo stesso Pasquino la cosiddetta Congrega degli Arguti. Stiamo ovviamente parlando di Marforio, Madama Lucrezia, il Facchino, l’Abate Luigi e il Babuino.

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MARFORIO

Marforio si trovava vicino al Carcere Mamertino quando cominciò il suo colloquio con Pasquino: il nome forse gli derivò dal vicino Foro di Marte o dalla famiglia Marfoli, che abitava da quelle parti nel Medio Evo. Nel 1587, Sisto V ritenne che fosse la statua ideale per guarnire una delle sue fontane e lo fece trasportare a Piazza San Marco; Marforio non fece nemmeno in tempo a mettervi radici, perché venne spostato sul Campidoglio, in una fontana addossata alla muraglia dell’Aracoeli. Vi restò mezzo secolo, fino a quando Papa Innocenzo X, avendo concluso la fabbrica del Palazzo Nuovo, lo destinò al cortile, dove ancora oggi si trova, visibile all’uscita del percorso dei Musei Capitolini.

Marforio è il più ciarliero dei compagni di strada di Pasquino, che infatti più volte lo chiama “fratello”. È proprio lui che, probabilmente per bocca dell’Aretino, strepita di rabbia contro il collegio dei cardinali colpevole di aver appena eletto Adriano VI:

Ma il popul cieco e stolto

dovria per far vendetta d’i suoi mali

far passar pet le picche i cardinali.

Né sarieno anche eguali

le pene al merto, ma bisogneria

trargli in Ispagna coll’artiglieria;

canaglia brutta e ria,

ch’ha fatto un papa senza saper come,

fiammingo, mai non visto e senza nome.

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MADAMA LUCREZIA

La terza statua parlante è Madama Lucrezia, quel grosso busto un po’ malridotto situato attualmente a lato della Chiesa di San Marco, che secondo la tradizione rappresenterebbe una sacerdotessa di Iside o forse la dea stessa, sebbene una tradizione antica vedesse in essa un ritratto prosperoso dell’imperatrice Faustina, un tempo di proprietà di Lucrezia d’Alagno, amante di Alfonso d’Aragona e in seguito votatasi alla religione e benefattrice fino alla morte. II busto finì per assumere il suo attuale nome divenendo un vero e proprio personaggio della Città Eterna, con l’omaggio di ragazzi e ragazze che la addobbavano ogni primo di maggio con nastri colorati e trecce d’aglio, truccandola come una gran dama.

La nostra Lucrezia non dette mai particolare prova di grande loquacità, non mostrandosi particolarmente pettegola. Durante la repubblica del 1799, il popolo romano buttò a terra il suo busto, che cadde a faccia in giù. Il giorno dopo sulle sue spalle apparve scritto, a caratteri cubitali, “Non ne posso veder più”.

Più di due secoli prima, nel 1591, la stessa Lucrezia aveva parlato di nuovo: Papa Gregorio XIV, sentendosi morire, si fece trasportare al Palazzetto Venezia sperando di riprendersi, grazie anche ad un alto steccato attorno alla residenza che attutisse i rumori circostanti. Quando, a dispetto di tutto, il Pontefice morì, Lucrezia freddamente sentenziò: “La morte entra anche attraverso i cancelli”.

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IL FACCHINO

Il Facchino, che fa bella mostra di sé sulla fontana all’angolo tra Via Lata e Via del Corso, sarebbe in realtà un acquaiolo che trasporta un barile dal quale sgorga l’acqua; la tradizione racconta però che, quando un tempo si trovava proprio lungo Via del Corso, incastrato nell’angolo del palazzo del Banco di Roma, un’iscrizione lo dichiarava dedicato ad un facchino chiamato Abbondio Rizio, famoso per le sue bevute, ovviamente non di acqua.

Di qui il nome dato alla fontana e alla statua, che più che “parlare” fu spesso oggetto di voci altrui, un po’ come fece il poeta barocco Giovan Battista Marino che, nella sua Galeria, lo immortalò nello scherzoso contrasto del Facchino che amava il vino e che però offrì l’acqua ai passanti:

O con che grato ciglio,

villan cortese, agli assetati ardenti

offri dolci acque algenti;

io ben mi meraviglio

se vivo sei, qual tu rassembri a noi

come in lor mai non bagni i labbri tuoi.

Forse non ami i cristallini umori,

ma di Bacco i liquori.

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L’ABATE LUIGI

L’Abate Luigi é la statua sfigurata e mutila rappresentante un antico personaggio togato che si trova in un angolo di Piazza Vidoni, dopo essere stata all’interno del Palazzo Vidoni e poi nel cortile di Palazzo Chigi. La sua caratteristica è quella di “perdere spesso la testa”, oggetto di burla da parte di ragazzi (e non) da oltre un secolo, tanto che un celebre epigramma ricorda questa profanazione e il conseguente cambiamento di faccia, che ha finito per trasformare l’Abate Luigi in una sorta di metaforico camaleonte politico, in linea con il suo ruolo di “statua parlante”:

O tu che m’arubbasti la capoccia,

vedi d’ariportalla immantinente;

sinnò, voi véde? come fusse gnente,

me manneno ar Governo. E ciò me scoccia.

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IL BABUINO

L’ultimo membro della Congrega degli Arguti è il Babuino, il brutto sileno della fontana posta sull’omonima via, cosi deforme da essere paragonato dai Romani ad una scimmia.

Come statua parlante ebbe potente voce in capitolo, tanto da vedere spesso i propri versi contrapposti a quelli di Pasquino, in un’esilarante contesa satirica fra “babuinate” e “pasquinate”. Il Babuino sembrava avere proprio il dente avvelenato nei confronti del rivale posto nel rione Parione, affidando il proprio sfogo a versi pieni di bile come i seguenti:

Dunque vi andra per la citta latina

sempre Pasquin Pasquino trionfante,

in sala decantato et in cucina,

come se Babuin fosse un birbante

e non havesse anch’ei presso le sponde

del fonte caballin sfidato il Dante…

Venite, o suore, ad intrecciar la fronte

di questo tal, che la tartarea prora

fe navigare l’apollinea fonte.

Ancora Babuin, tal volta ancora

passeggi Babuin le nostre carte

e fregi il nome tuo voce canora.

Se quest’onore a lui talun comparte,

a pari di Pasquin saprà le gesta

ridir del Quirinale, a parte a parte.

LE ULTIME SATIRE

Con questa congrega di chiacchieroni, Pasquino seguitò a sparlare di Papi e cardinali fino al crollo del regime pontificio. L’ultima pasquinata ufficiale in tal senso risalì al 18 settembre 1870, ma per una volta, anziché essere affissa su Pasquino, venne piazzata all’interno della Basilica di San Pietro. Ad un vecchio ombrellaccio appoggiato all’acquasantiera vennero appesi i seguenti versi:

Santo Padre benedetto,

ci sarebbe un poveretto

che vorrebbe darvi in dono

questo ombrello. È poco buono

ma non ho nulla di meglio.

Mi direte: “A che mi vale?”,

Tuona il nembo, Santo Veglio;

e se cade il temporale?

Ovviamente, l’ultima parola rievocava il caduto potere temporale del Santo Padre dopo la breccia di Porta Pia.

A dispetto di questa formale fine della critica papalina, le pasquinate hanno seguitato per oltre 150 anni a far bella mostra di sé, non solo e non tanto in epoca odierna, ma anche e soprattutto durante il ventennio fascista, in cui il diritto di critica (e soprattutto di satira) era quasi ridotto al lumicino. La più nota pasquinata del secolo scorso fu quella che apparve in occasione della visita di Hitler a Roma nel 1938, quando la citta fu addobbata di archi trionfali di cartapesta in onore del Fuhrer:

Povera Roma mia de travertino!

T’hanno vestita tutta de cartone

pe’ fatte rimira da ’n imbianchino!

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