A PASSEGGIO A ROMA CON STENDHAL
Il piacere dello svago, un’innata curiosità ed il personale gusto per la commozione fecero vibrare le corde dell’animo di un sensibile intellettuale ed acuto osservatore di Roma quale fu Henry Beyle, maggiormente noto al pubblico dei suoi affezionati lettori con lo pseudonimo di Stendhal.
“Vengo a vedere i monumenti e la bellezza della natura”, rispose lo scrittore francese (secondo una dichiarazione appuntata nelle Promenades dans Rome) alla Polizia dello Stato Pontificio che era solito effettuare controlli sugli stranieri prima di concedere loro l’accesso in città.
Stendhal, in realtà, rinnovò in più occasione l’esperienza del soggiorno romano. La prima visita venne effettuata nell’autunno del 1811, ed essa fu nulla più che una breve sosta che però lo impressionò immediatamente attraverso la suggestiva contemplazione di quei monumenti che rappresentavano da un lato la magnificenza storica della Città Eterna, come il Colosseo, e dall’altro un’evidente testimonianza del potere spirituale emanante dalla sede papale, come nel caso della Basilica di San Pietro.
Ansioso di approfondire tradizioni e costumi della città, Stendhal tornò a visitare Roma nell’inverno fra il 1816 e il 1817, alloggiando probabilmente presso la locanda gestita da Giacinta Cesari in Piazza di Pietra, poco distante dalla Dogana Pontificia. Sempre in inverno, stavolta fra il 1823 e il 1824, Stendhal decise di recarsi nuovamente a Roma, mentre l’ultima vacanza romana è databile all’autunno del 1827, quando nell’occasione scelse di risiedere lungo Via Gregoriana, in un’abitazione che lo stesso Stendhal definì essere stata precedentemente la residenza di Salvator Rosa.
In realtà, la sua innata vocazione da turista non lo abbandonò mai, spingendolo a tornare a frequentare una città che, fra le solennità delle proprie rovine e la schiettezza di un popolo ben disposto alla briosa conversazione, rendeva l’animo del nostro scrittore partecipe di una singolare esperienza interiore, capace di ristabilire il difficile equilibrio fra corpo e anima. È per questo motivo che, quando venne nominato console con sede a Civitavecchia, Stendhal non potè resistere all’irrefrenabile desiderio di rifuggire la noia dell’incarico nello Stato Pontificio, godendo di nuovo in più occasioni delle sue passeggiate romane. Eccolo di nuovo nel 1831 a Palazzo Cavalieri e nel 1834 a Palazzo Conti, nei pressi di Piazza della Minerva, per non parlare delle altre residenze rintracciabili attraverso l’analisi dei suoi quaderni di appunti, che lo videro assiduo frequentatore del Caffè al pianterreno di Palazzo Ruspoli al Corso, abitante in una residenza a Monte Cavallo (oggi il Colle Quirinale) o pernottante in Via delle Vignacce, in un’area oggi assai prossima a Piazza Montecitorio.
Uno scrittore come Stendhal, caratterizzato da una spiccata propensione all’egotismo e da una quasi patologica necessità di codificare nella scrittura ogni esperienza personale, fosse essa mondana oppure interiore, non poteva certo sottrarsi alla tentazione di testimoniare in forma scritta le proprie impressioni da viaggiatore: ecco da dove nasce il corposo ammontare di opere da lui realizzate, che a seconda dei casi e dei momenti si profilano sotto forma di diario (Rome, Naples et Florence), di cronaca (Chroniques italiennes) o di vero e proprio erudito resoconto storico e artistico (Promenades dans Rome).
In realtà, a dispetto di quello che oggi può sembrare un rapporto entusiastico sulla Città Eterna, Stendhal visse Roma in forma decisamente contraddittoria. Da un lato rimase affascinato dalla gloriosa storia dell’antichità ben rappresentata dalle rovine, dall’altro si rivelò profondamente critico a riguardo del dispotismo esercitato dal potere ecclesiastico. “Ho passato venticinque giorni ad ammirare e a indignarmi”, scrisse su Rome, Naples et Florence in una nota datata 4 gennaio 1817, evidenziando al lettore la netta dicotomia e rammaricandosi del fatto che la sede della potestà pontificia fosse stata fondata sulle vestigia di una gloriosa civiltà antica.
Al quadro deludente di una città morta, afflitta dalla decadenza e dall’inciviltà, tratteggiata nelle note del suo diario, si contrappose l’accurata descrizione di Roma offerta dalle Promenades, redatte fra il 1828 e il 1829, come un fittizio resoconto degli itinerari giornalieri attraverso i resti dei monumenti capitolini, corredato di aneddoti, riflessioni personali e notizie storiche, frutto evidente di un approfondito studio sulla città.
L’accesso all’Urbe avveniva attraverso la Porta del Popolo, punto dal quale era necessario orientarsi seguendo una delle tre diramazioni stradali rappresentate da Via del Babuino, Via del Corso e Via di Ripetta, che percorrevano quella che Stendhal definì la “Roma moderna”, per distinguerla dalla parte più antica. La città più recente si estendeva in pianura ed il centro abitato, all’epoca delle passeggiate di Stendhal, era compreso all’interno di un perimetro delineato dallo stesso scrittore nelle sue pagine: a sud il Colle Capitolino e la Rupe Tarpea, a ovest il fiume Tevere e a est il Pincio e il Quirinale. Sugli altri colli di Roma, come il Celio o l’Aventino, regnavano all’epoca silenzio e solitudine.
A Roma, Stendhal riuscì immediatamente ad ambientarsi all’interno del clima appassionato e vivace dei suoi abitanti, godendosi le reazioni schiette e talvolta violente dei cittadini, acuite dalla difficile convivenza con i capricci dei nobili e dei potenti prelati. Nell’animo ardente della plebe romana, Stendhal vedeva una sorta di “naturale propensione repubblicana”, un innato ed insidioso carattere satirico, assai facile all’umorismo e allo sberleffo, che rese il suo soggiorno nella Città Eterna non solo come un piacevole svago, ma anche come un motivo di riflessioni sui caratteri propri del costume cittadino.
Accanto a questi stereotipi popolari, che Stendhal conobbe grazie alla sua frequentazione di rioni come Monti e Trastevere, sorgeva una metropoli concentrata politicamente attorno al despotismo clericale. Ogni emanazione di potere ed ogni regolamentazione in materia legislativa sembrava provenire dalla cupidigia clericale, avvertita da Stendhal come una minacciosa presenza, al contempo ossequiata ed avversata dal popolo romano.
L’EMOZIONE DI PASSEGGIARE PER ROMA
A dispetto di queste incongruenze, Stendhal ebbe l’opportunità di ricevere da Roma un irripetibile equilibrio interiore. In svariate circostanze lo scrittore potè godere una vita comoda e agiata, godendosi le rilassanti passeggiate fra i viali del Pincio o nei panorami che si affacciavano sulla città da luoghi mirabili come San Pietro in Montorio o il Priorato dei Cavalieri di Malta. Sensibile ai mutamenti della luce, quasi al pari del pittore Monet, Stendhal amava contemplare le cupole di Roma in quelle giornate ondivaghe, nell’alternanza di ombra e di luminosità, quando il vento allontanava le nuvole e lo sguardo poteva disperdersi in lontananza, verso la campagna romana. Nei suoi appunti, lo scrittore esaltava soprattutto “il tempo dell’Ave Maria”, quando il sole declinava e le campane riecheggiavano per le strade cittadine, offrendo effetti luminosi che nemmeno Parigi poteva regalare.
Lo scrittore francese fu un esperto conoscitore degli aspetti artistici di Roma: la minuzia dei particolari e le descrizioni esaurienti con cui tratteggiò i capolavori della pittura, dell’architettura, della scultura e dell’archeologia sono il risultato di lunghi studi, di una notevole e continua erudizione, che indusse lo Stendhal turista ad estendere le conoscenze acquisite durante le proprie passeggiate, ampliandole con nozioni storiche e culturali che lo trasformarono dapprima nello Stendhal appassionato e poi nello Stendhal esperto, anche attraverso le letture delle prime precoci guide turistiche dell’epoca.
Stendhal si rivela però un narratore emotivo e sentimentale: in molteplici occasioni, di fronte alla contemplazione dei ruderi e delle architetture romane, egli congiunse al piacere estetico un sentimento di commozione, con il cuore gonfio di fronte a quelle testimonianze di un mondo perduto.
Fu senza alcun dubbio soprattutto nel Colosseo che nell’animo di Stendhal sorsero vibrazioni fortissime, che lo indussero alla nostalgia e al rimpianto. In una nota del Journal, nel 1811, lo scrittore si lasciò andare ad una commossa confessione: “ero solo in mezzo al Colosseo, udivo cantare gli uccelli che fanno il nido fra le erbe delle arcate più alte, e non ho potuto trattenere le lacrime”. Un’analoga predisposizione interiore ispira nelle Promenades la vista del monumento, rischiarato dal chiaro di luna: “abbiamo goduto di uno spettacolo meraviglioso e per nulla malinconico: era come una sublime tragedia, non come un’elegia”.
Un ultimo dettaglio che fuoriesce distintamente dalle cronache di Stendhal è il rumore delle fontane, la limpidezza del brusio dell’acqua nel silenzio circostante, quello che lo scrittore definisce “continuo rumore”, in grado di fare da sottofondo onirico alle passeggiate.
I viaggi a Roma, fra mito e cultura, immaginazione e storia, rappresentarono per Stendhal il perfetto nodo di congiunzione fra antico e moderno, un’esperienza viva e concreta con la quotidianità cittadina, fosse essa quella nobile di Palazzo Torlonia o quella più plebea di Trastevere: tutto ciò apportò allo scrittore nuove conoscenze sul costume e sul carattere degli Italiani, che vennero esaminati attraverso un’osservazione acuta che fu sempre a metà strada fra una competenza intellettuale ed una sensibilità interiore, che permise a Stendhal di descrivere Roma come “un insieme di luoghi che parlano al nostro spirito”.
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