Gli orologi di Roma

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GLI OROLOGI DI ROMA

A Roma esistono dei guardiani con strani occhi, attenti scrutatori a cui nulla è sfuggito delle vicende storiche della città: sono gli antichi protagonisti del vivere quotidiano, gli orologi monumentali che abitano i campanili, gli edifici e le strade di Roma. Ce ne sono davvero di ogni tipo e forma, classici e bizzarri, come se un maestro orologiaio impazzito ne avesse inventati a ritmo frenetico.

Passeggiando per gli angoli della Città Eterna, è possibile trovare ad esempio l’orologio barocco che si pavoneggia con i suoi ori e stucchi, esattamente come farebbe un militare graduato con le medaglie sulla sua divisa, magari osservando tutti dall’alto in basso, dalle cime di una torre o di un campanile, altezzoso ed altisonante.

Magari, a pochi passi, potrebbe esserci un orologio solare, un tipetto dalla personalità più complessa ed arzigogolata, austero ed orgoglioso del suo lungo passato, dalla vita scandita da ritmi ben precisi ed immutabili, ossia quelli solari, in un continuo inseguirsi di luce ed ombra.

Questo breve articolo vuole presentarvene solo alcuni, non volendo in alcun modo avere l’ardire di definirsi esaustivo.

GLI OROLOGI NELL’ANTICA ROMA

Le meridiane esistevano fin dai tempi dell’Antica Roma. In verità, fino al III secolo a.C., per misurare il tempo i Romani si servirono di un vero e proprio “impiegato speciale”: era il banditore del Console della Curia Ostilia, che con una tromba annunciava il mezzogiorno.

Poi i Greci, e più precisamente Anassimene Milesio, inventarono la meridiana, definito “un instrumento per la distribuzione delle ore su un quadrante solare”. La meridiana arrivò nell’Urbe per merito di Lucio Papirio Cursore, che secondo Plinio la “fece collocare nel tempio di Quirino, dodici anni prima della guerra contro Pirro”.

Fu poi la volta dell’orologio ad acqua, che risolse il problema di sapere che ora fosse durante la notte o in caso di cielo nuvoloso o di notte: secondo gli storici, esso fece la comparsa nella vita pubblica romana per iniziativa di Publio Cornelio Scipione Nasica, che fu censore nel 159 a.C. e che installò tale orologio all’interno del Foro Romano. I Romani, che apprezzarono lo sforzo sebbene ritenessero (forse a ragione) che il meccanismo fosse stato in realtà inventato più di un secolo prima da Ctesibio, ingegnere di Alessandria d’Egitto, denominarono immediatamente questo oggetto “orologio da notte” o “orologio d’inverno”.

Siccome però spesso l’acqua congelava o evaporava, a questo orologio vennero ben presto affiancate le clessidre a sabbia, fondamentali anche per lo svolgimento della vita pubblica e dei processi ai tempi dell’Antica Roma, poiché era grazie ad esse che veniva misurato il tempo concesso a ciascun patrocinatore per perorare la propria causa. Nascerebbe proprio da qui la canonica frase in latino “dicere ad clepsydram”, ossia parlare per un tempo predeterminato.

L’HOROLOGIUM AUGUSTI

A dispetto di quanto appena accennato, il primo vero orologio pubblico monumentale della Roma Antica venne installato dall’Imperatore Ottaviano Augusto. Nel 10 a.C., per commemorare da un lato la conquista dell’Egitto e per celebrare dall’altro lato le conquiste della Gallia e della Spagna, l’imperatore trasportò a Roma dalla città di Eliopoli un obelisco egiziano in granito rosso, alto poco meno di 30 metri, erigendolo poi in Campo Marzio. La grande meridiana era posizionata al centro di una superficie di 160 x 75 metri, costituita da un vasto prato e da lastre di travertino, sulla quale era disegnato un quadrante con le scritte in bronzo; oltre ad esplicare la sua funzione di orologio solare, l’obelisco era orientato in modo tale da far cadere la sua ombra sulla non lontana Ara Pacis il 23 settembre di ciascun anno, giorno del compleanno dell’imperatore e coincidente con l’equinozio di Autunno.

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Per comprendere chi ebbe l’idea e come fosse davvero realizzata questa meridiana solare, è necessario rifarci alle parole di Plinio. “All’obelisco che è nel Campo Marzio il divino Augusto attribuì la mirabile funzione di captare le ombre del Sole, determinando così la lunghezza dei giorni e delle notti. Fece collocare una lastra di pietra che rispetto all’altezza dell’obelisco era proporzionata in modo che, nell’ora sesta del giorno del solstizio d’inverno (21 dicembre) l’ombra di esso fosse lunga quanto la lastra, e decrescesse lentamente giorno dopo giorno per poi ricrescere di nuovo, seguendo i righelli di bronzo inseriti nella pietra: un congegno che vale la pena di conoscere, e che si deve al genio del matematico Facondo Novio. Quest’ultimo pose sulla punta del pinnacolo una sfera dorata, la cui estremità proiettava un’ombra raccolta in sé, perché altrimenti la punta dell’obelisco avrebbe determinato un’ombra irregolare (a dargli l’idea fu, dicono, la testa umana). Questa registrazione del tempo da circa trent’anni non è più conforme al vero, forse perché il corso del Sole non è rimasto invariato, ma è mutato per qualche motivo astronomico, oppure perché tutta la Terra si è spostata in rapporto al suo centro, oppure semplicemente perché lo gnomone si è inclinato a causa di terremoti o a causa di inondazioni del Tevere che hanno provocato un abbassamento e/o spostamento dell’obelisco, anche se si dice che se ne siano gettate sottoterra fondamenta profonde tanto quanto è alto il carico che vi si appoggia”.

Con la caduta dell’Impero Romano, si perdono le tracce del celebre Horologium Augusti. Dagli scarsi documenti in nostro possesso, si può intuire che l’obelisco fosse ancora in piedi (sebbene ovviamente non in perfette condizioni) ai tempi di Carlo Magno, e che probabilmente fu abbattuto tra il X e l’XI secolo.

Verso la metà del Settecento esso venne riportato alla luce per volere di Papa Benedetto XIV, che nel 1748 incaricò del lavoro il romano Nicola Zaballi, all’epoca a capo dei Sampietrini. Solo con Papa Pio VI, però, esso fu eretto nuovamente poco distante dal luogo del ritrovamento, in Piazza Montecitorio, dopo averlo restaurato con frammenti della Colonna di Antonino Pio (la cui splendida base è oggi conservata ai Musei Vaticani). L’architetto Antinori volle ripristinare anche la sua funzione di gnomone, e propose di predisporre sul selciato della piazza una serie di selci guida, ma lo gnomone non tornò mai funzionante ed oggi resta solo un mirabile monumento a memoria del primo Imperatore romano.

SANTA MARIA IN ARA COELI

Balzando di colpo al tardo Medioevo, è possibile iniziare a parlare di orologi meccanici a Roma. Secondo la tradizione, il primo costruttore degli orologi da torre a Roma fu il maestro Ludovico da Firenze, che nel dicembre del 1412 installò sulla Basilica di Santa Maria in Ara Coeli il primo orologio pubblico di Roma, aiutato anche dal maestro Pietro da Milano, che vi collocò la campana pro horis pulsandis.

Esso divenne, a tutti gli effetti “l’orologio del popolo romano”, perché regolava la vita comunale, ma non si rivelò un’impresa semplice preservarne il corretto funzionamento nel corso degli anni: si decise persino di istituire l’apposita categoria dei Moderatores Horologii, con funzione di tecnici sovrintendenti.

Molte famiglie, nominate con apposito Breve Pontificio, si avvicendarono nella manutenzione dell’orologio: i primi furono i nobili Domenico e Fabio della Pedacchia, il cui palazzo era a brevissima distanza dalla chiesa, e l’incarico durò fino al 1806, quando l’orologio fu rimosso dalla facciata della Basilica (nella foto si vedono due frammenti di facciata più chiari, a sinistra del portone e sulla sommità dello stesso, raffiguranti la prima e la seconda posizione dell’orologio suddetto) per essere sistemato sulla torre campanaria di Palazzo Senatorio, in Campidoglio.

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In quell’occasione fu costruito un nuovo meccanismo, realizzato dall’orologiaio romano Raffaele Fiorelli. Ecco come, all’inizio del XIX secolo, l’erudito Francesco Cancellieri descriveva il meccanismo dell’orologio: “Questi orologi sono rimarchevoli per la nuova disposizione data alle Ruote, mercè la quale possono levarsi, una per volta, per pulirle, senza aver bisogno di decomporre tutta la Machina”. Il meccanismo, completamente modificato nel 1922, svolge ancora egregiamente il suo lavoro.

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ALL’ITALIANA O ALLA FRANCESE?

No, non stiamo parlando di baci, ma di lancette.

La particolarità di tutti gli orologi di Roma, infatti, è che un tempo essi erano regolati all’italiana e non alla francese. La differenza era piuttosto consistente: il sistema italico o “alla romana”, creato dalla Chiesa attorno al XIII secolo, prevedeva che la giornata andasse dall’Ave Maria della sera (circa mezz’ora dopo il tramonto) a quella successiva, articolandosi in sei ore ripetute per quattro volte. Il vantaggio principale di questo metodo è che rendeva facile calcolare le ore di luce residue, dato che bastava sottrarre da 24 l’ora segnalata dal numero di rintocchi del più vicino campanile; l’inconveniente fondamentale di tale sistema era invece che, dato che l’ora del tramonto cambia durante l’anno, lo stesso momento della giornata era individuato con ore diverse al variare delle stagioni.

Un tentativo di passare al nuovo sistema si ebbe nel 1798, quando un editto del Senato ordinò che “tutti gli orologi esposti alla pubblica vista saranno regolati col nuovo metodo. Il ministro di Polizia è particolarmente incaricato dell’esecuzione di questa legge”. Il suddetto nuovo metodo era quello definito popolarmente “alla francese”, che è in pratica lo stesso in uso ai nostri giorni.

Caduta la Repubblica Romana, Papa Pio VII diede immediatamente ordine “che si ritornasse all’antico”, ma questa scelta durò ben poco, poiché nel 1846, per volontà di Papa Pio IX, il vecchio sistema venne definitivamente sostituito con il nuovo. A dimostrazione della volontà papale in tal senso, il primo orologio ad entrare in funzione con le nuove modalità fu quello del Palazzo del Quirinale, in data 7 novembre 1846.

Il nuovo metodo non piacque a tutti i cittadini romani, abituati ad un ben preciso stile di vita basato anche su modi di dire trascinatisi per secoli, come ad esempio “tenere il cappello alle ventitrè” ad indicare la protezione degli occhi di fronte ai radenti raggi del sole prossimo al tramonto. A questo proposito, il poeta dialettale Giuseppe Gioacchino Belli diede voce al popolo romano con uno dei suoi celebri sonetti:

E intanto er zanto padre ha la corata

d’arimette l’orloggio a la francese

Un papa! ammalappena ar quarto mese

der papatico suo! Brutta fumata!

Disse bene er decan de Lammruschini

dr decan de Mattei: «Semo futtuti:

qua ttorneno a reggnà li giacubbini».

Sto sor Pio come vòi ch’iddio l’ajuti

quanno ce viè a imbrojà ppe li su’ fini

sino l’ore, li quarti e li minuti?

PIAZZA SAN PIETRO – MERIDIANA E OROLOGI

A proposito di orologi romani, basta recarsi in Piazza San Pietro per farne una vera e propria scorpacciata.

Iniziamo con la meridiana, che decora il selciato della piazza e che può essere considerata l’orologio solare più grande del mondo. Essa fu ideata nel 1817 dal Monsignor Filippo Luigi Gilij, che utilizzò come gnomone il mastodontico obelisco di granito rosso, alto 40 metri se si comprende il basamento, trasportato a Roma dall’Imperatore Caligola nel 37 d.C.

Per comprenderne il funzionamento, è sufficiente rifarsi alle parole dello storico Luigi Lotti. “Una fascia di granito sul selciato va in linea retta da un punto situato a destra della base dell’obelisco fino al di là della fontana di Carlo Maderno. I due dischi marmorei alle estremità della fascia stanno ad indicare i due luoghi dove, a mezzogiorno vero, l’ombra della croce cade nei due giorni solstiziali dell’anno: 22 giugno e 22 dicembre. Il primo disco di marmo indica il solstizio in Cancro, il secondo il solstizio in Capricorno. Fra questi due estremi altri cinque dischi indicano il passaggio del Sole nei segni zodiacali accoppiati: Leone-Gemelli, Vergine-Toro, Bilancia-Ariete, Scorpione-Pesci e Sagittario-Acquario. I dischi, dopo il 1817, furono cambiati una volta nel 1852, quando furono posti sulla piazza i primi lampadari a gas, un’altra volta nel 1880 al tempo di Leone XIII ed un’ultima volta nel 1924”.

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In aggiunta alla gigantesca meridiana, è sufficiente sollevare lo sguardo verso la maestosa Basilica di San Pietro per notare i due splendidi orologi meccanici ai lati della facciata della chiesa. Furono realizzati nel 1786 da Giuseppe Valadier, con i quadranti dotati di una strepitosa superficie smaltata recentemente restaurata; visti dalla piazza essi non sembrano così grandi, ma ognuno di essi ha in realtà un diametro di quattro metri.

La particolarità di questi due orologi, ritornando a quando accennato prima sull’ora “alla romana” e “alla francese”, è che essi sono completamente diversi. Quello sulla sinistra segna infatti l’ora come si è soliti fare in epoca moderna, ossia alla francese; quello sulla destra invece ha una lancetta sola e scandisce l’ora italica, contando le ore dal momento del tramonto fino al tramonto successivo, quando viene raggiunta la ventiquattresima ora.

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Valadier decise di posizionare in questo modo gli orologi per trovare soluzione a un problema di cui già il Bernini s’era occupato, ossia la dinamizzazione della facciata della Basilica, che con l’allungamento deciso da Carlo Maderno sminuiva la grandiosità della cupola ed appiattiva la prospettiva. Purtroppo per il celebre Gian Lorenzo, la costruzione dei due campanili fu un vero fiasco, e fu proprio il Valadier a “tamponare l’emergenza”, utilizzando i due orologi allo scopo di rialzare la facciata lateralmente e di incorniciare visivamente la cupola.

GLI IDROCRONOMETRI

Siamo partiti parlando dell’orologio ad acqua ai tempi dell’Antica Roma, e proseguiamo con un altro orologio ad acqua, ma questa volta di epoca ben più moderna.

Nel XIX secolo, infatti, Roma ne fu abbellita da ben tre esemplari. L’ideatore di questi veri e propri gioielli fu un eminente meccanico orologiaio, Giovanni Battista Embriaco, frate domenicano originario di Sanremo. I tre orologi furono collocati uno al Pincio, dove tuttora è possibile ammirarlo (quando non oggetto di vandalismo), il secondo in fondo al cortile di Palazzo Berardi Muti in via del Gesù, ed il terzo nel palazzo del Ministero delle Finanze: quest’ultimo è purtroppo scomparso da molti anni, da quando è stata tolta dal centro del cortile l’aiuola con l’orologio alimentato dall’acqua della fontana.

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L’idrocronometro del Pincio venne collocato in mezzo ad un laghetto artificiale, ideato dall’architetto Ersoch, nel 1867. L’orologio funziona mediante un meccanismo nel quale l’acqua dà impulso al pendolo e carica il movimento e le suonerie, riempiendo alternativamente due bacinelle. Presentato nel 1867 all’Esposizione di Parigi, esso riscosse un grande successo.

Quello in Palazzo Berardi Muti è invece collocato all’interno di una nicchia a conchiglia che poggia sul fondo di una fontanina a due invasi, con una piccola foca di marmo immersa nell’acqua.

Giovanni Battista Embriaco ebbe un successo clamoroso, tanto da venire addirittura convocato da Napoleone III nel castello imperiale di Saint-Cloud per illustrare le sue invenzioni.

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PICCOLE SORPRESE

Il tempo non è stato generoso con gli orologi della Città Eterna. Dopo il 1870, con la presa di Porta Pia, le conseguenti demolizioni urbanistiche ed i profondi rinnovamenti cittadini, molti orologi di Roma scomparvero nel nulla.

A Piazza Colonna, ad esempio, Palazzo Wedekind (sede del quotidiano Il Tempo) presenta nell’alto della sua facciata un orologio: l’orologio si trova lì dal 1879, ma esso venne piazzato al posto di altri due che ornavano la parte superiore della facciata dal 1838, quando il palazzo fu costruito dall’architetto Pietro Camporese il Giovane.

Sposandosi in quartieri più periferici, è possibile scovare piccole memorie storiche cadute in un parziale oblio. È il caso della meridiana che decorava l’ex Villetta Ramazzini in via Portuense 457, divenuta comunità di recupero per tossicodipendenti e ora fortunatamente restaurata, popolarmente soprannominata proprio “la Palazzina della Meridiana”.

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Alcune meridiane continuano quindi, ancor oggi, ad ornare palazzine e villini del primo Novecento, magari accompagnate da motti latini o proverbi popolari: è il caso della meridiana a tre facciate posta all’imbocco di Via Tre Orologi, ad angolo con Via Ulisse Aldrovandi, segue in pratica il corso completo del sole fino al tramonto, quando compare l’epigrafe SINE SOLE SILEO.

Basta poi recarsi in Viale Regina Margherita 269, nella palazzina ad angolo con Via Morgagni, per vedere due meridiane disposte ad angolo: sotto la prima di esse si legge HORAS NON NUMERO NISI SERENAS (“non conto che le ore serene”), mentre sotto la seconda PERPETUO VOBIS HORA BEATA FLUAT (“per sempre per voi il tempo scorra felice”), in una sorta di doppio augurio ai condomini e ai passanti.

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Sugli orologi della Città Eterna ci sono anche parole non più visibili, che però raccontano in modo perfetto il sarcasmo tipico del popolo romano. Il caso più eclatante riguarda l’orologio posto sotto il bel campanile a vela sulla sommità sinistra del Palazzo del Monte di Pietà: la leggenda narra che, nel XVIII secolo, l’orologiaio non fu soddisfatto del compenso ricevuto, e quindi alterò i complicati congegni incidendo sull’orologio i seguenti versi: “Per non esser state a nostre patte / Orologio del Monte sempre matte“. La scritta fu cancellata dalle Autorità, ma l’orologio rispetta ancor oggi perfettamente le direttive del suo costruttore: non segna mai l’ora giusta, facendo ammattire gli abitanti del rione.

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