LA FAMA DI MEO PATACCA
“È lo sghero più forte der fero”.
Con queste scarne parole assai evocative Giuseppe Berneri, nel suo poemetto eroicomico del 1695, descrive Meo Patacca, quando egli era ormai un personaggio già vivo e presente nella tradizione popolare romana. Un paladino casereccio, un cavaliere di cappa e spada rusticano, baldanzoso e fiero nella sua imperturbabile sicumera, che si dimostra anche in grado di vincere con onore una giostra cavalleresca sul Campidoglio, la “Giostra del Saracino”, che vede in campo i cavalieri cristiani contro i Mori.
Meo Patacca sa destreggiarsi abilmente con il pugnale e con la spada, con mosse e finte da provetto spadaccino, ma anche con la fionda, con cui coglie infallibilmente nel segno persino a cento metri di distanza. Ma va a bersaglio anche con la lingua, dando all’avversario risposte “a ciccio di sellero”, con battute sferzanti e doppi sensi taglienti e mordaci. Fra i Rioni di Roma in cui è il popolo a farla da padrone, come Trastevere e Monti, Ponte e Borgo, Trevi e Parione, rivali tra loro per secolare tradizione, la figura di Meo giganteggia come un colosso.
Con il suo fongo (un cappello a larghe falde) sulle ventitré e il ciuffo di capelli raccolto nella reticella, alla stregua di uno dei Bravi di Alessandro Manzoni, con l’elegante giacchetta di velluto a coste, la fascia colorata alla vita, i calzoni corti stretti al ginocchio, le calze color carne e le scarpe con fibbia sferragliante, “er greve” (come ce lo presenta il Berneri nel primo canto) cammina a testa alta con aria da malandrino, fionda, saracca (spada) e pugnale al fianco, strascicando i piedi e incrociando leggermente i passi, come per falciare il terreno davanti a sé.
Meo è il signorotto del Rione Trastevere: quando passa lui, tutti si devono scansare rispettosamente, e quando parla, con quella cadenza lenta, declamatoria e un po’ cantilenante, tutti devono star zitti. Quando fa i suoi discorsi a Campo Vaccino, con le sue arringhe declamate con ciceroniana veemenza, stando ritto in piedi su un tronco di colonna, Meo Patacca marca le parole con il canonico raddoppio delle consonanti iniziali, che trasformano il suo eloquio in una via di mezzo fra la potenza minacciosa di Cesare e l’alterigia del vero “Romano de Roma”.
VIENNA O ROMA?
Alla notizia dell’assedio di Vienna da parte dell’esercito ottomano Meo Patacca, tutto preso dal furore sacro del novello crociato, arringa la sua masnada di bulli e li incita a partire, per andare Vienna e dare una lezione alla “feccia der monno, li Turchi indegni”. L’arringa naturalmente avviene al Foro Romano, luogo in tempo di gloria e forte politica, ma al tempo ridotto dallo scorrere dei secoli a Campo Vaccino, dove i bulli romani, fin dal Seicento, si affrontavano con violente sassaiole.
Quando i nobili romani versano “er sapone nelle mani der capotruppa de la gente sgherra”, ossia il denaro necessario a finanziare la spedizione con un’insolita generosità dettata dal desiderio di liberare una Vienna cristiana dall’assedio dei turchi, Meo Patacca si dichiara pronto a partire. Venuto però a sapere subito dopo che, nel settembre del 1683, Vienna è stata liberata dal famoso principe Giovanni Sobieski, fa subito il gesto di restituire l’ingente somma, ma i generosi nobiluomini non vogliono saperne di riavere indietro il danaro; a questo punto, incassata la somma, Meo Patacca decide di devolvere tutto il malloppo ai grandiosi festeggiamenti indetti per i giorni seguenti a Roma, in onore della liberazione di Vienna, con gli sgherri romaneschi immediatamente pronti ad abbandonarsi alla baldoria.
I TRIONFI
Il titolo completo del poemetto di Giuseppe Berneri era, in realtà, “Meo Patacca, ovvero Roma in festa nei Trionfi di Vienna”.
I “trionfi”, nella accezione etimologica della parola, erano i carri mascherati, sui quali si muovevano, per mezzo di macchinari nascosti, quadri viventi e complicati e spettacolari congegni. A Roma, come del resto anche a Firenze o a Napoli, questi “trionfi” rappresentavano un’antica eco dei carri di trionfo romani, facendo la loro comparsa soprattutto in tempo di Carnevale e scatenando una feroce rivalità fra i vari Rioni che si sfidavano nel preparare le macchine più belle e fantasmagoriche, in grado di far trasecolare il pubblico avido di spettacoli.
Probabilmente, il trionfo più celebre della storia italiana fu quello presentato a Firenze alla fine del Quattrocento, durante le feste di Carnevale, raffigurante il “Trionfo di Bacco e Arianna”: per esso Lorenzo il Magnifico scrisse una famosa ballata omonima, uno dei più scintillanti e poetici Canti Carnascialeschi da lui composti.
Nel Meo Patacca, i Trionfi hanno naturalmente per tema obbligato la figura del Turco, che diventa una vera e propria maschera teatrale, trasformata in capro espiatorio per la sfrenata ilarità del popolo romano. Nel poemetto del Berneri, illustrato dopo più d’un secolo, nel 1822, da 52 tavole di Bartolomeo Pinelli, vediamo il popolo romano della fine del Seicento scatenato contro la maschera del Turco, mentre un Meo Patacca esuberante e compagnone si dà da fare perché la festa riesca bene.
Il Turco, portato in giro per Roma da Meo Patacca e dai suoi sgherri romaneschi, era una specie di Re del Carnevale, rappresentato da qualche burlone scapestrato o più probabilmente dallo “scemo del quartiere”, allocco ignaro e credulone che veniva raggirato con l’inganno dai più intraprendenti buontemponi della città. Era lui che doveva subire, volente o nolente, le burle spesso pesanti del pubblico, per poi finire alla gogna fra le risate generali.
GLI EBREI AL TEMPO DI MEO PATACCA
In realtà, il poemetto di Meo Patacca racconta una delle pagine più cupe e vergognose della storia di Roma. Nello specifico, il dodicesimo canto del Meo Patacca è uno sconcertante documento storico, che testimonia l’inumano trattamento a cui erano sottoposti gli Ebrei a Roma. L’eroe di Berneri, che pure, da buon bullo romano, è sempre cavalleresco con le donne e con i deboli, trova perfettamente naturale che gli Ebrei siano trattati da esseri inferiori, e quando arriva al Ghetto assediato dagli sgherri romani “non si contiene di farci a prima vista una risata”. Solo quando si accorge che le cose si mettono troppo male e che il popolo sta cominciando ad ammucchiare fascine per dar fuoco alle porte del Ghetto, si decide a “raffrena una tanta impertinenza”.
Questo dettaglio nel dodicesimo canto fa quindi comprendere come le porte del Ghetto servissero non solo ad essere sprangate ogni notte durante il coprifuoco, sotto la vigile sorveglianza di “uno sbirro portinaro”, ma anche a difendere gli Ebrei dagli eventuali assalti, che i romani inferociti sferravano contro il Ghetto con il più futile pretesto, come quello di aver partecipato all’assedio di Vienna, a fianco dell’esercito ottomano, nel 1683.
È sempre il poemetto di Meo Patacca a raccontare uno dei “divertimenti” preferiti degli sgherri e dei teppisti romani della fine del Seicento, purtroppo proseguito fino al 1870, anno di riapertura del Ghetto Ebraico di Roma. Il popolo la chiamava “la caccia all’ebreo per le vie di Roma”: adocchiata la preda, i giovinastri in vena di gazzarra gli “davano lo strillo” gridando come forsennati “Dagli all’ebreo! Dagli allo Jaccodimme!”. Il grido veniva ripetuto come un’eco da un vicolo all’altro e il povero ebreo, braccato come una lepre dai segugi, cercava scampo in qualche casa amica o in un sottoscala, ma il più delle volte veniva preso e sottoposto a dispetti e angherie le più umilianti.
Una delle torture a cui venivano sotto posti gli ebrei, dopo l’affannosa caccia all’uomo, come è documentato dalle ottave del Berneri e dai disegni di Bartolomeo Pinelli, era la botte, dentro cui il poveretto veniva fatto rotolare, ad imitazione di Attilio Regolo. La folla, che accorreva immancabilmente, assisteva alla scena sbellicandosi dalle risate.
LA FAMA DI MEO PATACCA
Meo Patacca, naturalmente, ha una ragazza: si chiama Nuccia, ed è ovviamente una focosa e fumantina Trasteverina, gelosa e attaccabrighe.
Per una simile donna, ovviamente, deve esserci un rivale: è Marco Pepe, o Marco Spacca, lo smargiasso spaccone, il fanfarone che sbraita, minaccia, le promette a tutti e poi, alla resa dei conti, scappa come una lepre. Il nome Spacca lo rivela diretto discendente della maschera del Capitan Spacca, molto in voga nel Seicento sulle scene teatrali, come Scaramuccia di Tiberio Fiorilli e Capitan Spavento di Francesco Andreini.
Già solo questo dettaglio fa capire come la fortuna di Meo Patacca nel XIX secolo sia stata legata a tutti gli effetti al teatro, e specificamente al nome di un attore di straordinaria capacità scenica, Filippo Tacconi (1805-1870), soprannominato Pippo er Gobbo, che portò in scena tutte le riduzioni teatrali del Berneri. Il giornalista francese Mercey, nel 1840, sulla “Revue des Deux Mondes” annotava che il Meo Patacca del Berneri era uno dei libri favoriti del popolo romano, in particolare fra le categorie popolane come macellai, carrettieri, vetturini, scaricatori di porto e soprattutto fra i bulli.
Il più fanatico di questi bulli era Checco er Carettiere, bullo di Testaccio, che era solito fare con i colleghi bulli omeriche gare di forza, a chi riuscisse a portare sulle spalle il peso maggiore. Ovviamente, molto spesso queste scommesse assumevano caratteristiche di leggenda mitologica, degna talvolta delle dodici fatiche di Ercole. Una volta Checco, che si vantava di essere diretto discendente di Meo Patacca, fece una scommessa con un mugnaio di via Garibaldi. Il mugnaio, che era abituato nel suo mulino a portare sacchi di farina sulle spalle, si incollò due quintali di farina e li trasportò per cento metri. Secondo la versione leggendaria (ed obiettivamente un po’ improbabile…) della storia, Checco, senza scomporsi, disse che lui era l’erede diretto di Meo Patacca: fece salire il mugnaio in groppa al suo cavallo, quindi si chinò sotto la pancia dell’animale e con uno sforzo sovrumano, si drizzò sulle poderose gambe incollandosi cavallo e cavaliere!
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Fighissimo!
Mi chiedevo come mai mio padre usava chiamare un suo amico “Patacca” …scherzando.