L’ABBAZIA DI FARFA
A mezz’ora di macchina da Roma, seguendo la Salaria sino a Passo Corese e poi la Via Farfense, oltre la collina su cui si arrocca Fara Sabina, immersa nel verde, in una dimensione quasi onirica, troviamo nella Valle del Farfa l’omonima abbazia.
Entrando nel borgo sonnolento dalla porta est o da quella ovest, in un abitato ridotto ormai alla malinconica ombra di ciò che fu un tempo, non si avvertono più intorno quelle suggestioni di tipo mitologico-pastorale che ispirarono celebri paesaggisti come Gaspard Dughet. Ciò nonostante, si percepisce in modo palpabile il respiro secolare della storia: qui, nella arcaica e agreste Sabina, transitarono e sostarono Imperatori e Papi, da Carlo Magno a Federico I, da Onorio II a Callisto II, oltre ovviamente ad innumerevoli cardinali, baroni e pellegrini.
Data la suggestione ed il fascino particolare del luogo, non è difficile immaginare di incrociarli con i loro splendidi e sfarzosi cortei, tra dame e cavalieri, abati e duchi, vescovi e armigeri, tutti riccamente abbigliati al dorso di scalpitanti palafreni e candide mule, circondati da paggi e scudieri dalle pittoresche vesti tra vessilli e stendardi variopinti.
Secondo la tradizionale leggenda, nel V secolo d.C. il monaco San Lorenzo Siro, evangelizzatore e vescovo della Sabina, in un sito poco distante dalla attuale abbazia, sul monte Acuziano, dopo aver scacciato un pestifero dragone che infestava la zona, decise di trasformare il preesistente tempio dedicato alla Dea Vacuna (da alcuni studiosi identificata con Cerere) in una chiesa cristiana con annesso un piccolo monastero.
La chiesa venne distrutta dai pagani Longobardi nel periodo in cui essi si impadronirono di quasi tutta la Sabina, stanziando una loro fara (tribù) sulla collina vicina, da cui il nome Fara Sabina.
LA RICOSTRUZIONE DELL’ABBAZIA
La chiesa venne ricostruita quasi subito, proprio grazie alla munificenza degli stessi duchi longobardi, ormai divenuti ferventi cristiani, ed in particolare del duca di Spoleto Faroaldo II nell’VIII secolo. Faroaldo aveva infatti avuto una miracolosa apparizione della Vergine, che lo esortava a portare aiuto a dei pellegrini stranieri giunti ormai stremati nella terra sabina, nei pressi del monte Acuziano. Contemporaneamente, da tutt’altra parte del mondo, presso il Santo Sepolcro di Gerusalemme, il monaco Tommaso di Murienne ricevette anch’egli una visione divina, che lo invitava a recarsi in una terra lontana, della quale aveva avuto visione, per fondarvi un monastero ed una chiesa.
Tommaso obbedì al santo volere e, dopo aver molto vagato insieme ai suoi confratelli, sfinito giunse nella località ove sorge l’attuale basilica, ravvisandone la terra predestinata, tra amene boscaglie e fresche acque sorgive. Faroaldo, nel frattempo, venuto a conoscenza del suo arrivo, gli inviò una carovana di giumente carica di ogni ben di Dio, aiutandolo anche con generose donazioni terriere.
Nel 706 Papa Giovanni VII consacrò la risorta chiesa, mentre i Longobardi le concedevano protezione e ricche rendite. Con l’avvento dei Franchi, nel 775 Carlo Magno la pose sotto le dirette dipendenze del palatium e, all’inizio del IX secolo, le concesse l’immunità: da quel momento, le fortune dell’abbazia coincisero con quelle del Sacro Romano Impero, con i Carolingi che la ricoprirono di editti e decreti che davano a chiunque la visitasse benefici, esenzioni e privilegi.
Sotto l’alto patronato imperiale, affrancata da ogni soggezione a Roma e libera in toto dalla Curia, l’Abbazia di Farfa era esente da qualsiasi forma di tributo da corrispondere ai vescovi ed agli stessi Pontefici, tranne un simbolico censo di dieci soldi d’oro imposto da Papa Stefano IV, che tra l’altro decadde quasi immediatamente. L’abbazia divenne quindi un ineguagliabile faro culturale ed un floridissimo centro politico, i cui territori si estendevano fino alle Marche e all’Abruzzo.
Dal suo scriptorium vennero fuori codici su codici, spesso redatti in un particolarissimo e minuscolo carattere tipografico detto appunto farfense. Alla sua ricchissima biblioteca ed all’amore per la cultura di monaci ed abati si deve la conservazione di inestimabili tesori letterari, ed il celebre Regestum Farfense (una lunga cronaca che narra le vicende dell’Abbazia di Farfa dall’epoca franco-lombarda all’XI secolo) è ancor oggi una fonte preziosissima ed inesauribile per la storia dell’epoca, in grado di fornire un quadro abbastanza chiaro ed attendibile di quel travagliato e confuso periodo.
L’APICE DEL POTERE
Con ulteriori bolle e decreti, gli Imperatori ribadirono negli anni i privilegi dell’Abbazia che, sotto l’alto patrocinio sovrano, continuò sempre ad essere indipendente dal Pontefice, al quale non spettava neanche la nomina dell’Abate, che dal Papa doveva essere solo ratificata e confermata con una bolla. Vani poi risultarono nel tempo gli svariati tentativi di Roma per ridurne le franchigie giacché, da ogni controversia legale, Farfa uscì sempre vittoriosa ribadendo la propria posizione acquisita dall’epoca del Diploma di Cavillon datato 840, sino alla riconferma in data 881 di tutte “le possessiones tam in Longobardia quam in Romania (Emilia-Romagna), in Tuscia et in Ducato Spoletano”.
L’Abbazia raggiunse l’apice del suo potere e splendore nell’890: in quell’anno, infatti, intorno alla basilica maggiore dedicata a Maria Vergine ne sorsero altre cinque, ricche di preziosi marmi e rifulgenti di argenti ed ori, circondate da portici. Il borgo che le si era formato man mano intorno continuava a crescere, con le civili abitazioni destinate a tutti coloro che, con le loro attività lavorative, erano connessi alla vita della comunità monastica (fabbri, maniscalchi, carpentieri, sellai, sarti, orafi, ebanisti). I dintorni dell’Abbazia di Farfa assunsero sempre più l’aspetto di una cittadella turrita e fortificata, dotata anche di un massiccio acquedotto, costruito nel 777 dall’Abate sabino Probato e restaurato nel 1617 dall’Abate Commendatario Alessandro Procopanni.
Lo “Stato Farfense”, che possedeva anche una propria flotta ed una propria milizia, era all’epoca formato da 132 castelli, 7 porti, 4 città, innumerevoli ville e fondi, svariate fortezze ed estese proprietà terriere.
LA DECADENZA DELL’ABBAZIA
Purtroppo per l’Abbazia di Farfa, oscure nubi si addensavano all’orizzonte.
Nel IX secolo, una tremenda calamità che aveva già afflitto i paesi rivieraschi italiani piombò sul Lazio: i Saraceni, predoni feroci e temibili, attratti da Roma ed in particolare dalla ricchezza di abbazie e conventi. Oltre a saccheggiare, uccidere e devastare ogni proprietà, i Saraceni taglieggiavano anche i pellegrini romei, cioè coloro che si recavano a Roma sulle tombe degli Apostoli.
Inutile dire che nell’occhio del ciclone si trovò anche Farfa, oggetto di continui e ripetuti assalti ed eccidi dopo che i Saraceni avevano assaltato Subiaco. Per lungo tempo, l’Abate Pietro riuscì a resistere valorosamente respingendo gli assalti dei predatori, ma alla fine, stremato, decise di dividere i tesori di maggior pregio (tra cui le sacre reliquie e la preziosissima biblioteca) tra Roma, Rieti e Fermo, ritirandosi sul monte Matenano dopo aver distrutto il ciborio e interrate le preziose colonne di marmo.
Proprio sul Monte Matenano, successivamente, l’Abate Ratfredo costruirà una chiesa-fortezza dove saranno traslate le sacre reliquie di Santa Vittoria da Trebula (Monteleone Sabino), proprio per sottrarle alle sacrileghe mani degli infedeli. Una volta vista la potente architettura dell’Abbazia, però, anche gli assalitori si fermarono stupiti ad ammirarne la bellezza, al punto di decidere di installare al suo interno il proprio quartier generale per circa un trentennio.
L’incendio che ridurrà Farfa solo un cumulo di macerie fumanti, contrariamente a quanto talvolta è possibile leggere su alcuni testi, non fu opera degli Arabi ma di miserabili ladruncoli di Poggio Catino che, durante un’assenza degli occupanti, vi si introdussero per saccheggiarla ulteriormente. Lo stato del sito rimase tale per circa trenta anni, e solo nel 910 il valoroso Archiprando da Rieti scaccerà gli invasori dopo averli sconfitti vicino l’antico Ponte Buita, nei pressi delle sorgenti del Farfa, sulla via Salaria.
L’ABISSO DELLA VERGOGNA
Conclusa la terribile parentesi moresca, l’Abbazia di Farfa si riprese rapidamente sotto la guida illuminata dell’Abate Rotfredo, un uomo assai dotto che vi istituì all’interno anche una scuola medica. Il suo discepolo prediletto fu il monaco Campo, un nobile della Sabina che divenne un medico ed erborista talmente abile da preparare e somministrare al proprio Abate benefattore la pozione letale che lo uccise. Impadronitosi nel 936 dell’abbazia e del suo tesoro, comprendente anche il famosissimo cofanetto aureo tempestato di gemme dono di Carlo Magno, al fine di ottenere il titolo di Abate inviò doni ricchissimi ad un individuo ben noto per la sua mancanza di scrupoli, già marito della famigerata Marozia: re Ugo di Provenza.
L’Abbazia di Farfa, in questa fase, sprofondò in un baratro senza fondo. Da luogo di studio e di preghiera, la costruzione si trasformò in ricettacolo di turpi dissolutezze, con monaci e abati che si davano ad ogni sorta di degeneri abusi, fondendo gli ori dei sacri arredi per farne monili per le amanti e disfacendo i preziosi paramenti per ricavarne lussuosi abiti. Molte proprietà abbaziali, castelli e terre, divennero mediante finte vendite proprietà di figli naturali degli Abati stessi.
Superata finalmente questa disonorevole parentesi, ci furono diversi Abati che tentarono di riportare l’Abbazia al suo antico lustro, ma purtroppo si era ormai innescato un processo di irreversibile disfacimento.
L’ultimo notevole barlume della antica fierezza ed importanza del luogo si ebbe sotto Ugo I, Abate dal 997 al 1038. Egli lottò sia sul piano spirituale, imponendo con il Constitutum la regola cluniacense per riportare l’austerità perduta ed il rigore dei costumi, nonché combattendo sul piano politico contro la famiglia dei Crescenzi Stefaniani, bramosi di impossessarsi dei beni territoriali della basilica.
Ciò nonostante, e a dispetto di questi enormi sforzi, la perdita delle prerogative imperiali, sancita dopo la lotta per le investiture con il Concordato di Worms, infersero a Farfa la ferita mortale; l’Abbazia avrà un ultimo colpo di coda all’epoca del Barbarossa, quando vedrà la consacrazione dell’Antipapa Vittore IV, ma si trattò di un flebile spasmo di vita, quando ormai il suo ruolo si era esaurito ed era tramontato assieme all’Impero.
LA FINE DELL’ABBAZIA
Ormai preda di Roma, tenacemente controllata da vicari pontifici, l’Abbazia di Farfa vedrà tutto il proprio patrimonio inglobato progressivamente ed inesorabilmente dallo Stato della Chiesa. Bonifacio IX, nel 1400, con l’istituto della commenda segnerà il totale asservimento nepotistico di Farfa al soglio pontificio: il nipote del Papa, il cardinale Francesco Carbone Tomacelli, sarà il primo abate commendatario mentre le famiglie Orsini e Colonna, nei decenni successivi, si alternarono sulla cattedra abbaziale.
Nel XIX secolo, l’Abbazia venne letteralmente spazzata via dalla ventata napoleonica, risorgendo solo per volere di Papa Pio VII con una sparuta comunità monastica. Soppressa la commenda nel 1841 da Papa Gregorio XVI, essa venne posta sotto la giurisdizione dei vescovi di Rieti e di Poggio Mirteto, mentre con la costituzione del Regno d’Italia sarà incamerata dallo Stato e venduta all’asta nel 1872. Solo nel 1919 essa ritornerà alla vita religiosa ad opera dei monaci di San Paolo Fuori le Mura di Roma.
La chiesa oggi visitabile risale al XV secolo. Dell’antica basilica carolingia restano solo poche memorie, testimoni mute di tanti splendori e miserie: otto colonne di granito e marmo cipollino, alcuni affreschi sulle pareti, i resti dell’ara pagana riciclata ad altare, il pavimento del IX secolo, la massiccia Torre di Lotario (unica torre campanaria superstite delle due originarie), la lapide dell’Abate Siccardo (841), e l’antica abside semicircolare usata come cripta, in cui si può ammirare anche un mirabile sarcofago di età adrianea.
All’esterno, come una mirabile quinta scenografica naturale, la Sabina fa da inimitabile verdeggiante fondale.
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