IL PASTICCIACCIO DI GADDA
Il primo periodo romano di Carlo Emilio Gadda durò nove anni, dal 1925 al 1934, sebbene esso fu inframmezzato da frequenti viaggi per l’Europa, con soggiorni in Francia, in Belgio ed in Germania, nonché da una serie di passaggi in Vaticano per quella che lo stesso Gadda definì “occupazione ingegneresca”.
Il 14 febbraio 1926, Gadda scrisse all’amico drammaturgo Ugo Betti: “In Roma Imperiale non mi trovo malaccio, sebbene la cucina al burro sia difficile da ottenersi, perché questi moriammazzati prediligono l’olio”. Nella stessa lettera, Gadda parlava delle sue giornate romane come quelle “di un viaggiatore in cuoiami o altro gorgonzolesco faccendiere”.
Al di là dei canonici neologismi di Gadda, che facevano parte del suo stile letterario, è bene soffermarsi per un attimo su quella “Roma Imperiale” nella quale lo scrittore “non si trovava malaccio”: si tratta della stessa Roma che, venti anni dopo, farà da scenario al suo Pasticciaccio, pubblicato dapprima nel 1946 a puntate sulla rivista fiorentina Letteratura e successivamente, dopo una revisione completa, nel 1957 in un apposito volume.
Il Pasticciaccio è ambientato nel 1927 e, seppure alcuni richiami siano fievoli ed appena accennati, Gadda non potè fare a meno di inserire qualche accenno agli anni dell’era fascista. Quello che però maggiormente colpisce, nell’opera dello scrittore, è l’uso della terminologia dialettale, dettaglio da lui stesso trattato in numerose interviste: “Noi viviamo in un’epoca di così rapidi trapassi culturali ed espressivi, anche nell’ambito del gergo dialettale, che è un po’ un sogno sperare che un vasto pubblico possa seguire di anno in anno la problematica dell’espressione. Il gergo romano di oggi non è più quello del ’27: l’aggettivo “fanatico”, che oggi va di gran moda, all’epoca non esisteva, ed è lo stesso per “fusto”, che oggi sente dire di continuo”.
In un’altra intervista, Carlo Emilio Gadda esaminò, con la consueta schiettezza, il proprio rapporto con il dialetto romanesco: “Ho subito il fascino del romanesco nel suo momento più inventivo. A me, che non sono romano, anche una frase consacrata in un determinato senso apparve sempre nel suo insorgere originario. Il fatto che io abbia usato anche il romanesco nel mio lavoro narrativo, quindi, è da considerarsi come un tributo di simpatia vitale per questo valore idiomatico”. Ed insisteva esaltandone le caratteristiche peculiari: “La parlata romana è accessibile, in una sua struttura media, anche all’orecchio settentrionale e meridionale. Inoltre alcune manifestazioni della moderna cultura, come ad esempio il cinema, hanno oggi a Roma la loro officina prevalente”.
IL RITORNO A ROMA
Gadda tornò a Roma nell’ottobre del 1950 come giornalista praticante. Nel 1955, però, stufo del lavoro radiofonico ed amareggiato del fatto di essere stato buttato in un minuscolo loculo accanto al gabinetto in seguito alle sue insistenze per avere un ufficio personale, si dimise per riprendere a lavorare al Pasticciaccio, pungolato in tal senso dall’editore Garzanti. Per giungere alla pubblicazione definitiva, però, Gadda dovette subire una lunga serie di ulteriori vicissitudini: l’abbandono dell’impiego, il trasferimento nella zona di Monteverde Vecchio per allontanarsi in modo definitivo dagli ex colleghi RAI, le fughe dagli spasmodici contatti di narratori desiderosi di attaccar bottone.
Così, in pressochè totale solitudine e confortato soltanto dall’assenza dell’odiato telefono, Gadda ricominciò con solerzia il lavoro interrotto a Firenze. Il problema fondamentale fu non solo correggere e raddrizzare il romanesco, operazione che venne svolta in collaborazione con l’amico poeta Mario Dell’Arco, ma anche e soprattutto revisionare il romanzo tramite una decisa riscrittura, per renderne più funzionale la struttura e liberarlo da quelle “impalcature alluvionali e lutulente”, come le definì lo stesso Gadda, che appesantivano la struttura originaria.
LA TRAMA
Il Pasticciaccio ha una prima parte organica, condotta con limpida concatenazione dei fatti e contrassegnata da una logica stringente. Ad un certo punto, però, il tessuto narrativo si rompe ed il romando si scompone in una digressione di episodi, a metà strada fra i sogni ed i deliri: la sensazione forte e netta che si ha leggendo il romanzo è che la personalità di Gadda sia progressivamente esplosa, saturando le pagine col suo peso di personaggio d’eccezione, con le sue rabbie, i suoi dolori, i suoi bizzosi ricordi personali ed il suo caratteristico gusto dell’etimologizzare.
Ecco quindi le aperture di parentesi ed il pacato e talvolta ironico commento manzoniano, pronti ad infrangersi contro gli scoppi improvvisi e furiosi, contro le girandole di invettive nei confronti di Mussolini o nel bel mezzo le sottolineature burlesche e stizzose. I personaggi iniziano fin da subito ad essere indagati con una curiosità implacabile, con una nota di sottofondo che evidenzia un certo compiacimento dell’Autore, che punta il dio verso i loro difetti fisici o caratteriali, trasformandoli per alcuni attimi in vere caricature. Lo stesso Gadda, d’altronde, è visibile in piccoli camei caratteriali, come in alcune raffigurazioni del Commissario Ingravallo e del Commendatore Angeloni.
Nella seconda parte dell’opera, la mania dell’analisi e della scomposizione finisce per prevalere, isolando in uno splendido crescendo il sogno del Brigadiere, il saggio sull’importanza degli alluci nella pittura italiana, le figure bestiali del cane alla catena o della gallina defecante, in un uragano di particolari iperrealistici colti con aderenza impressionante in un turbine di follia ed inverosimiglianza.
Tutta questa trama è tenuta assieme dal collante del romanesco e delle invenzioni linguistiche di Gadda: soluzioni sintattiche sorprendenti e singolari rievocazioni storiche, in un’esperienza dotta e laboriosa che si traduce in un linguaggio personalissimo, letteralmente unico.
A cominciare proprio dalla parola “Pasticciaccio”, che obiettivamente non è una vera e propria espressione romanesca, ma una creazione partorita dalla mente di Gadda al posto del ben più dialettale “fattaccio”. La Roma di Gadda è una città al contempo vivida e allegra, caotica e indisciplinata, in cui si legge distintamente l’amore dell’Autore per i suoi monumenti, il suo cielo, i suoi tramonti incomparabili e soprattutto i versi del poeta dialettale Giuseppe Gioacchino Belli, verso il quale Gadda era letteralmente trascinato: “La verità dialettica del Belli comprende e comporta il mito plebeo della città, dei suoi modi e delle sue genti: lo incorpora nel poema non solo come antitesi, ossia per farne bersaglio di una possibile satira, ma anzi lo colora e lo promuove a materia epica, cara all’animo nostro pur nella irridente amarezza delle luci o nel sarcasmo del motteggio”.
LA CUPEZZA DI GADDA
Leggendo il Pasticciaccio, vi legge fra le righe la basilare pietà e comprensione umana di Carlo Emilio Gadda verso il genere umano, che si delinea in una serie di espressioni dolorose che sembrano declinare un’acuta cognizione del dolore. In pubblico, come svelò più volte nelle sue interviste, Gadda detestava l’abuso dell’aggettivo “umano”, bollando le effusioni sentimentali come “una fastidiosa stracciosità dell’anima”.
Per comprendere esattamente cosa si intenda con queste poche parole, basta in realtà soffermarsi su una delle descrizioni create dall’Autore, quella legata all’interrogatorio di Ines Cionini: “Una ragazza piuttosto provveduta del suo, con du meravigliosi occhi nel volto, luminosissimi e lucidi: ma incredibilmente sudicia e scarruffata, una ventata di selvatico. Emanava, con il notato olezzo, in senso vero e fondo della vita dei visceri, della fame e del calore animale. L’idea che è propria delle stalle, delle fienaie: e diserta le ossute prammatiche. Non aveva di che soffiarsi il naso, né rasciugarsi quel pianto: levò la mano come per contenere col solo gesto ciò che dalla solitudine immiserita del suo volto avrebbe potuto sgorgare, a render perfetta la crudeltà degli attimi, il gelo e l’irrisione dell’ora che ne è la somma”.
Le pagine del Pasticciaccio sono talvolta impietose, dominate dalla grande collera, dal rancore verso la vita e da una certa vocazione al linciaggio fisico e morale. Di fronte al corpo dell’uccisa Liliana, Gadda sembra quasi intenerirsi in uno stupendo episodio, dove i tristi ed orridi particolari di un’intimità violata sono riscattati dal pathos intenso di una scrittura quasi trasfigurata. Basta scorrere in avanti di poche pagine, però, per ritrovare il medesimo personaggio trasformato in una femmina ridicola e demente, con la pietà trasformatasi in una sorta di feroce autopsia.
LA REVISIONE
La revisione del Pasticciaccio con l’aiuto di Dell’Arco durò circa due anni. Il romanzo uscì nel 1957 incompiuto, così come lo saranno anche La cognizione del dolore e La meccanica.
Gadda disse più volte che, per completare il suo romanzo, avrebbe avuto bisogno di scrivere ancora una cinquantina di pagine. D’improvviso però, nel 1967, rispondendo ad una domanda di Alberto Moravia sul Corriere della Sera, diede una spiegazione diversa, dichiarando: “Il rifiuto del finito è dovuto al consapevole desiderio di chiudere in apocope drammatica il racconto che tendeva a deformarsi. La correzione delle bozze ci ha intricato in una tale forteto da veder fiorire dappertutto, con le spine e con il sangue, il fiore attossicato della disperazione e della rinuncia”.
Di fronte allo sguardo incredulo di Moravia, Gadda si getto sullo schienale della poltrona e disse: “Sono stufo di questo Pasticciaccio, di questa boiata! Tu però non scriverlo, perché dovrebbe essere il mio capolavoro…”.
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