DONNA OLIMPIA MAIDALCHINI – LA PIMPACCIA
“Mia cara Olimpia, mettiti in pompa, che sto grilluccio der Marchese sempre zompa”.
Così canta Alberto Sordi nel suo film “Il Marchese del Grillo”, ma in questo caso Olimpia è diventata una donna di teatro e la vicenda è ambientata in una colorita Roma papalina di inizio Ottocento. Olimpia, nella storia del dispettoso marchese, è stata inserita grazie alla popolare operetta di Berardi-Mascetti. Non c’è romano che non ricordi la battuta “Olimpia, mesci a me” del carbonaio ubriaco, risvegliatosi (per un sadico scherzo, preso pari pari dal prologo della Bisbetica domata di Shakespeare) nelle dorate stanze del palazzo.
L’Olimpia di fantasia della celebre operetta romana, compagna di giuochi a volte crudeli del fantasioso Marchese del Grillo, altro non è se non il ricordo di una celebre Olimpia, rimasta ben viva nell’immaginazione del buon popolo romano: Donna Olimpia Maidalchini, maritata Pamphili, cognata di papa Innocenzo X, così potente da essere soprannominata da molti “la Papessa”.
Quando ancora il cemento non aveva invaso le pendici del Gianicolo e il candore delle ville spiccava fra il verde dei boschetti e dei giardini, nelle notti di tempesta un carro dalle ruote di fuoco, guidato dal fantasma di una donna discinta e urlante, superando Porta San Pancrazio si precipitava verso Trastevere. Era il fantasma della “Pimpaccia”, condannata a non poter mai raggiungere la meta prefissata, un giardino ricco di piante rare nei pressi di Santa Maria in Cappella, con il Tevere frusciante fra le canne della riva e magari nel bel mezzo la Fontana della Lumaca, ideata dal Bernini ma considerata troppo modesta per il palazzo di Piazza Navona. Prima di raggiungere quel sognato giardino, dove il suo spirito avido avrebbe trovato eterno riposo e conforto, il carro fiammeggiante sprofondava e portava negli abissi infernali l’ululante fantasma dai capelli di fiamma.
DA PAOLO A GIOVANNI BATTISTA
Da ragazza, la sfortuna sembrava godere nell’accanirsi contro di lei. Aveva perduto il marito Paolo Nini ed era fuggita dal convento per sottrarsi alla monacazione: le monache, diciamoci la verità, furono benedette dal Signore nel potersi levare di torno quel mezzo diavolo, che una volta si era nascosta alcune tortore sotto l’ampia gonna per poi ammettere dinanzi alla Badessa e al proprio confessore di aver provato un infinito piacere a quel “frullare d’ali sotto le vesti”.
Quell’attempato gentiluomo viterbese, Paolo Nini, non era proprio il suo ideale: lei aspirava a ben altro che a un nobile di provincia. La sua ambizione non trovava altra scena che Roma: una volta vedova e libera da ogni vincolo, la nostra Olimpia prendeva sonno pensando a chissà quali strade la sorte avrebbe potuto aprirle.
Villa Lante di Bagnaia fu galeotta. Cantavano al sole le fontane quando le si parò davanti un nobile romano non di primo pelo: Pamphilo Pamphilj. Diciamoci la verità, non fu certo un colpo di fulmine: Olimpia si limitò a pensare che convolare a nozze con quell’uomo dal volto non troppo attraente avrebbe significato lasciare l’aria stantia di Viterbo per respirare quella più frizzante di Roma.
Nell’ultima sosta prima di entrare in città, alla Storta, guardando i travicelli del soffitto della locanda, Olimpia si sorprese a pensare al fratello di suo marito, Monsignor Giovanni Battista, e si chiese con un pizzico di malizia perché mai in gioventù egli fosse stato soprannominato “brava spada”. Egli, che era stato avvocato concistoriale e uditore di rota, accolse quella cognata non certo bella, ma dal portamento assai maestoso e dallo sguardo tagliente, nel suo bel palazzo di Piazza Navona. Tra i due scoppiò da subito un’immediata intesa, tanto che quando lui fu nominato nunzio a Napoli si portò dietro fratello e cognata, mostrando come avesse bisogno del calore della famiglia.
Bisogna però relegare fra le calunnie la diceria che Camillo, il figlio di Olimpia, non fosse in realtà del marito Pamphilo ma proprio di quella “brava spada” che di lì a poco sarebbe diventato Papa. Tra Donna Olimpia e suo cognato c’era solo un intrigo di trame e sotterfugi, ma probabilmente nulla di più, a dispetto dei pettegolezzi delle malelingue popolari. Nel pieno dell’estate del 1644, Monsignor Giovan Battista Pamphili fu eletto Papa con il nome di Innocenzo X, anche grazie alla calura e alla malaria che avevano sgominato i potenziali avversari, che non vedevano l’ora di raggiungere le loro ville nei Castelli Romani.
Ora, la tradizione voleva che il popolo romano si recasse a dare l’assalto al palazzo del Cardinale eletto in conclave e facesse man bassa di tutto ciò che trovava a portata di mano. Quel giorno, una turba esagitata trovò Donna Olimpia sul portone spalancato: entrati, prelevarono tutto quanto fosse disponibile, ma rimasero assai delusi, poiché Olimpia, appena avvisata dell’avvenuta elezione, aveva fatto nascondere gli oggetti più preziosi fra i panni bagnati di bucato, togliendoli alla vista del popolino. Tutti però apprezzarono assai la buona grazia della signora Olimpia, che li aveva ricevuti e li aveva lasciati liberi di arraffare senza opporre alcuna resistenza.
LA SETE DI POTERE DELLA “PIMPACCIA”
Papa Innocenzo X si ritrovò fin da subito a gestire parecchie grane: il giansenismo, le ostilità politiche fra Francia e Spagna, il potente Cardinale Mazzarino che gli remava contro e l’ostilità della famiglia Barberini, a cui apparteneva il suo predecessore Urbano VIII. Nel frattempo, sua cognata era solo preoccupata di arricchirsi, come annotato dallo stesso Pasquino:
Per chi vuol qualche grazia dal sovrano,
aspra e lunga è la via del Vaticano;
ma se è persona accorta
corre da Donna Olimpia a mani piene
e ciò che vuole ottiene.
È la strada più larga e la più corta.
Tutti a Roma erano consci dell’avidità della donna. Donna Olimpia non amava il Bernini, che aveva esaltato in opere immortali le api dei Barberini, ma bastò che il celebre scultore le facesse pervenire un modello in argento massiccio della Fontana dei Quattro Fiumi perché Olimpia lo mettesse in buona luce agli occhi del cognato. E così Piazza Navona, corte d’onore del Palazzo Pamphili, ebbe l’ornamento magnifico della stupenda fontana.
L’altra caratteristica di Donna Olimpia era la gelosia, sfrenata e incontenibile. Non ci volle molto perché suo figlio Camillo ottenesse il cappello cardinalizio, diventando così il cardinal nipote, o come si diceva all’epoca il “cardinal padrone”, ossia un vero e proprio factotum del Papa. Purtroppo per la madre, però, appena due anni dopo Camillo si tolse il berretto cardinalizio e prese in sposa in sposa la bella Olimpia Aldobrandini, decisamente molto appariscente: conoscendo la predilezione di Papa Innocenzo X per le maggiorate, cosa che la giovane Olimpia Aldobrandini era di certo, la nostra Donna Olimpia scatenò la sua ira funesta, prontamente ricambiata. Suocera e nuora si detestavano, ma fu la prima ad averla vinta, almeno inizialmente: stanca di vedere lo sguardo del Pontefice indugiare sul seno tornito della moglie del nipote, invitò con forza la giovane coppia a trasferirsi a Frascati.
Non passarono che pochi mesi, prima di vedere Donna Olimpia dare di nuovo in pubbliche escandescenze, dopo essere venuta a sapere che Papa Innocenzo X aveva nominato “cardinal padrone” un membro della famiglia Astalli senza nemmeno consultarla. E siccome quel che è troppo è troppo, la Curia stessa suggerì al Santo Padre di far cambiare aria all’ingombrante cognata, che furibonda fu costretta a tornarsene nel bel castello di San Martino al Cimino, dono papale: qui Donna Olimpia rimpianse le feste e gli spettacoli nel suo teatrino di corte, ma fu un esilio di breve durata, durante il quale ella fu rimpianta forse solo dalle prostitute romane, in favore delle quali (probabilmente dietro congrua bustarella) aveva attenuato i rigori pontifici.
UN MESTO FINALE
La vita del Papa e di sua cognata stava però imboccando un sentiero impervio. Camillo era tornato con la sua bella Olimpia Aldobrandini ad abitare la bella villa che Alessandro Algardi gli aveva costruito nell’altipiano gianicolense del Bel Respiro. Intanto, il papa Innocenzo X moriva, in una lunga agonia che non fu confortata dalle preghiere dei suoi parenti, i quali non badavano altro che a far bottino. Quando il Papa morì, il 7 gennaio 1655, sua cognata invece di pregarne la memoria fece portar via una cassa di monete che era sotto il letto del defunto. Prima di uscire dalla camera, poi, si guardò in giro e vide una candela ardere in un candelabro di bronzo: lo sostituì con uno di legno e si portò via anche quello.
Nessuno si occupò della salma papale, che finì in un magazzino fra i topi: quando a Donna Olimpia venne richiesto un contributo per le spese delle esequie, lei ebbe l’ardire di rispondere che lei fosse soltanto una povera vedova. A queste parole irrispettose, Pasquino schiumò:
Finita è la foia
di quella poltrona
di piazza Navona
chiamatele il boia.
Finita è la foia,
è morto il Pastore
la vacca ci resta
facciamole la festa
cavatele il core.
È morto il Pastore.
Di fronte a queste parole, probabilmente, Camillo Pamphili sentì rimordersi la coscienza: trasse quindi lo zio dalla sua sepoltura provvisoria e gli eresse un monumento funebre nello splendore marmoreo di Sant’Agnese in Agone.
Papa Alessandro VII, membro della famiglia Chigi, bandì la squallida Olimpia dalla sua città, questa volta per sempre. Lei si recò dapprima a Orvieto e quindi a San Martino al Cimino, con la scusa di sfuggire ad una pestilenza che devastò anche Viterbo. Quel che è certo è che, fra quelle solide mura, una volta perduto il proprio potere, Donna Olimpia non provava più alcun piacere nel vivere, ormai prossima ad una vecchiaia squallida e maledetta.
La leggenda racconta che venne trovata morta con le mani aperte, a dimostrazione di come sia inutile accumulare ricchezze per poi morire soli: non si può portare nulla con sé una volta attraversato il ponte fra questo mondo e l’Aldilà.
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Povera Pimpa, trattata malissimo dastorici famelici e invidiosi
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