Francis Bacon

Francis Bacon, Francis Bacon, Rome Guides

FRANCIS BACON

“Quando ho cominciato a dipingere”, rivelò un giorno Francis Bacon al critico David Sylvester “non avrei mai creduto che qualcuno avrebbe comprato i miei quadri”.

Chissà cosa avrebbe pensato nel maggio scorso il corrosivo artista vedendo il suo trittico ispirato all’Orestea di Eschilo battuto all’asta da Sotheby’s per la favolosa somma di 84,6 milioni di dollari.

Alcolista, omosessuale dichiarato e grande appassionato del gioco d’azzardo (tanto da aprire una bisca clandestina e da frequentare locali malfamati dove incontra la devianza metropolitana inglese), Bacon ha dipinto capolavori che rispecchiano la lucida e brutale acidità con la quale interpretava la vita: “Nasciamo e moriamo ma nel frattempo, attraverso i nostri impulsi, diamo un significato a questa esistenza senza scopo”, disse nella già citata intervista a Sylvester.

In altri casi Bacon riuscì a essere perfino più feroce, con affermazioni ciniche e quasi disumane che appaiono come una descrizione puntuale delle sue composizioni: “Noi siamo di carne, siamo in potenza delle carcasse. Quando vado dal macellaio, mi stupisco di non esserci io al posto dell’animale”. Bacon percepiva la vita come una corsa inarrestabile verso il baratro, tanto da amare follemente una frase di Jean Cocteau, che citava molto spesso: “Ogni giorno nello specchio vedo la morte all’opera”.

Dopo l’invenzione della fotografia e del cinema, secondo Bacon, era diventato impossibile vedere le cose per come esse siano realmente, ma soltanto attraverso l’aggressione che hanno già subito. La pittura dunque, a detta dell’artista, non ha più il compito di documentare la realtà, ma solo di risvegliare la sensibilità di chi la guarda, facendo emergere il soggetto a poco a poco dall’inconscio.

Pera Francis Bacon, la vita era una quotidiana lotta alla sopravvivenza ed alla ricerca di comunicazione. “Se ti eccita la vita, non può non eccitarti anche il suo opposto, la morte. Si può essere al contempo ottimisti e disperati“: le riflessioni di Bacon avvenivano spesso sul concetto del doppio, ma privato dell’apparente contraddizione, in una naturale compresenza degli opposti in cui l’angoscia esistenziale dell’uomo moderno si fonde con con una sorta di angoscia cosmica che permea tutto l’universo.

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L’EVOLUZIONE DELL’ARTE ANTICA

Sembrerebbe che Bacon fosse un seguace dell’astrattismo. In realtà, egli era convinto che la grande arte raccontasse da sempre, e in mille modi diversi, la vulnerabilità dell’esistenza umana; per questo motivo Bacon ha rinnovato radicalmente e in modo sorprendente la pittura senza mai accostarsi all’astrattismo, che in realtà detestava, ma pescando a piene mani nell’arte antica.

Egli stesso definì le sue immagini “come una specie di funambolo sulla corda tesa che separa la pittura cosiddetta figurativa da quella astratta. Si tratta di lavorare sulla figura fino a che tocchi il sistema nervoso con la massima violenza e intensità”. Era ossessionato dal Ritratto di Papa Innocenzo X di Velazquez, ma nei suoi quadri ritroviamo anche Tiziano, Parmigianino, Rembrandt, El Greco, Goya, Ingres, Monet e Degas, molti dei quali citati spesso con una vena di glaciale ironia: “La grande Crocifissione dì Cimabue? Ci penso sempre come a un verme che striscia giù dalla croce”. Solo Van Gogh veniva esaltato senza mezze misure, considerandolo “capace di essere quasi letterale e tuttavia di trasmetterci una visione meravigliosa della realtà delle cose”.

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C’erano anche artisti che proprio non erano nelle sue corde, come ad esempio Matisse, considerato troppo lirico e decorativo. “Non c’è mai molto realismo in Matisse. Per questo mi ha sempre interessato di più Picasso. Matisse non ha mai avuto la stessa brutalità realistica di Picasso, né la sua capacità di invenzione”.

Non era solo l’arte pittorica a fungere da ispirazione per l’arte di Francis Bacon. Altre fonti erano ad esempio le tragedie greche, in particolare quelle di Eschilo, le foto di uomini e animali in movimento scattate dal fotografo britannico Eadweard Muybridge, e persino i fotogrammi della Corazzata Potémkin di Ejzenstejn: secondo molti critici, il volto della bambinaia con gli occhiali rotti, che urla disperata in un celebre fotogramma di quel film, è all’origine del grido straziato dei suoi papi.

IL COLORE NERO

Nel 1949, l’anno dopo che il Moma aveva acquistato un dipinto di Bacon, lanciandolo tra i grandi della metà del Novecento, l’artista venne consacrato sulle pagine della rivista The Listener: “Nessuno dei giovani artisti contemporanei dipinge in modo grandioso come Bacon. Alcuni suoi quadri ricordano Velàzquez e, come il maestro, anche Bacon preferisce il nero”.

Il nero, che occupava allora porzioni generose delle sue tele, nascondeva in realtà un segreto che Bacon riuscì per lungo tempo a non far trapelare: per isolare lo sfondo dalle teste che ritraeva, infatti, bacon lo realizzava con un procedimento meccanico che non prevedeva l’uso del pennello. Fu l’artista Anselm Kiefer, quasi mezzo secolo, a carpire il segreto tecnico, visitando una mostra di Bacon al Centre Pompidou: ad un certo punto esclamò “Ma le tele sono state intinte nella pittura!”, scoprendo lo stratagemma che Bacon era riuscito a tenere segreto anche agli esegeti più attenti della sua opera.

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IL CAOS E IL CASO

Francis Bacon lavorò per trent’anni nel caos del suo piccolo studio londinese di South Kensington, al numero 7 di Reece Mews, ora ricostruito alla Hugh Lane Gallery di Dublino: quel disordine primordiale gli era necessario, poiché Bacon era convinto che quel caos estremo gli suggerisse delle immagini.

Nella pittura di Bacon, le muse ispiratrici furono sempre l’istinto e il caso (o la fortuna, come la definisce lui stesso). L’istinto, infatti, conduce nei territori dell’inconscio, dove la ricerca di una propria verità si fa lotta incessante; il caso, invece, offre una traccia da sfruttare e manipolare per formare sulla tela segni e immagini che possano riuscire ad esprimerla.

Per Bacon, quindi, dipingere era un’attività dominata dal caso. Una volta affermò che “nel momento in cui sai cosa stai facendo, fai un’illustrazione. Sono i segni involontari a fare la differenza, rimandando echi molto più profondi degli altri, e in quei momenti si capisce che potrebbe accadere di tutto”.

La pittura era per lui una lotta incessante tra il caso e il proprio giudizio critico: “Il caso a volte può darti un segno che sembra più reale, più simile di un altro all’immagine, ma è il tuo senso critico a deciderlo”, confidò all’amico Michel Archimbaud.

Bacon gettava i colori sulla tela non preparata e con altrettanta foga la ripuliva, usando la polvere per creare compartimenti tattili, ed i pastelli assieme ai colori ad olio per aumentare la luminosità: in questo modo, quasi magicamente, dal caos primigenio compariva un ordine cromatico di antica raffinatezza, con accostamenti cromatici audaci ma sempre equilibrati nella sapiente sinfonia luminosa.

I RITRATTI

Nelle tele di Francis Bacon si può leggere tutta la sua vita. Parlare di Bacon significa parlare del disagio esistenziale, del sentimento di caducità e claustrofobia, con corpi lacerati e deformati e bocche spesso apertissime all’affannosa ricerca di aria.

In realtà, ogni suo ritratto equivale ad un autoritratto, che fu poi il suo soggetto preferito in età avanzata. Per anni aveva infatti scelto accuratamente i propri soggetti tra gli amici e le persone che stimava e conosceva meglio. Poi, dal 1971, si dedicò sempre più spesso a ritrarre se stesso, inquadrando quel volto che, a causa delle guance pienotte, gli era valso da bambino il soprannome di “pudding face”.

A chi gli chiese il perché di questa scelta, rispose con il consueto cinismo che si era ritrovato costretto a farlo, poichè le persone attorno a lui stavano morendo come mosche, e non rimaneva nessun altro da ritrarre: “Detesto la mia vecchia faccia di budino, ma è l’unica che mi è rimasta da dipingere”.

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