LA TORRE DI PAOLO III
La costruzione del monumento a Vittorio Emanuele II prima, e la valorizzazione del colle Capitolino poi, hanno radicalmente modificato questa importante zona del Rione Campitelli. L’inquietante impatto ambientale dell’immensa mole del Vittoriano fu avvertito già all’indomani della inaugurazione nel 1911: oggi il monumento è divenuto uno dei simboli più innegabilmente fotografati dai turisti in visita alla città, ma in fondo i Romani non si sono mai del tutto abituati al colpo d’occhio scenico che si creò come sfondo della “nuova” Piazza Venezia.
Finalità diverse e culturalmente antitetiche furono quelle che spinsero il Governo d’allora all’intervento “liberatore” delle pendici tufacee del colle, per restituire il Campidoglio “nell’aspetto in cui doveva apparire nell’età prima di Roma, quando con le sue balze rocciose si affacciava sul deserto Campo Marzio”: ecco le parole certo un po’ retoriche, come il momento imponeva, di Antonio Munoz, autorevole Ispettore Generale delle Antichità e Belle Arti di Roma, incaricato della direzione artistica di quei lavori nel 1931-43.
Ovvio che i fautori della completa trasformazione del Campidoglio minimizzassero i danni arrecati al patrimonio artistico dai picconi demolitori, dando ad intendere che quei luoghi fossero soltanto dei “vicoli fetidi e angusti, tra le cui misere casupole occhieggiava un pezzo di ferrigna rupe”.
GLI EDIFICI DISTRUTTI
Qual era realmente il tessuto urbano, e quali edifici di pregio vennero sacrificati?
Sin dal Medioevo, il Campidoglio venne letteralmente circondato da costruzioni che si raggruppavano attorno al colle come se fossero un unico circuito viario: il vicolo della Pedacchia, la salita di Marforio, via Tor de’ Specchi, fino alla sinuosa e carrozzabile via delle Tre Pile, che ne raggiungeva la sommità. Tra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento, il quartiere si arricchì di alberghi e osterie, di botteghe di carbonai ed ombrellari, di contadini e commercianti di campagna, che affollavano soprattutto il mercato domenicale che si svolgeva a Piazza Montanara.
Sul vicolo della Pedacchia c’era la chiesa barocca di Santa Rita da Cascia, sorta sul sito della più antica San Biagio de Mercato, rinnovata nel 1665 su progetto di Carlo Fontana: fu demolita nel 1927 e ricostruita nel 1940 in via Montanara, lasciando sul luogo originario solo i resti del piccolo campanile romanico e della cappella dei Boccabella, con piccolo affresco trecentesco.
Il palazzetto dei Pedacchia, dal nome della famiglia che per secoli ebbe il privilegio di regolare l’orologio sulla facciata di Santa Maria in Aracoeli, fu acquistato da Pietro da Cortona nel 1649 e da questi completamente ristrutturato: fu demolito nel 1888, distruggendo anche il cortile con porticato e la sovrastante loggia che si apriva sul giardino.
Su via delle Tre Pile c’era la cosiddetta Casa di Michelangelo (da non confondere con l’omonimo fabbricato, anch’esso demolito, in via de’ Fornari, abitato dall’artista sino alla sua morte nel 1564), edificio rinascimentale demolito nel 1872, ma del quale esiste ancora oggi il solo prospetto interno, ricomposto nel 1941 lungo la Passeggiata del Gianicolo.
Su via Tor de’ Specchi esistevano due caratteristiche chiesette barocche: Sant’Andrea in Vincis, risalente al XII secolo e totalmente ristrutturata nel XVIII secolo su disegno di Carlo De Marchis, e San Nicola de’ Funari, avente anch’essa origini antiche e rinnovata nel 1747 da Carlo De Dominicis con pregevoli decorazioni a stucco. Entrambe le chiese furono abbattute nel 1929.
LA TORRE DI PAOLO III
La più illustre vittima delle demolizioni fu però senza alcun dubbio la Torre di Paolo II, detta anche “Villa Capitolina”. Papa Paolo III Farnese (1534-49), infatti, amava soggiornare i mesi estivi a Palazzo San Marco, alla ricerca di un’aria più salubre: nell’aprile 1536, in occasione dell’ingresso di Carlo V a Roma, fece erigere nella piazza antistante un arco trionfale “effimero”, ossia provvisorio, su disegno di Antonio da Sangallo. In quella circostanza il Papa si rese conto che il Monte Caprino (come volgarmente era chiamato il Campidoglio) aveva una sola via d’accesso verso il Foro, e null’altro che una mulattiera verso la città: il corteo imperiale fu dunque costretto ad aggirare il colle senza riuscire a salirvi, con evidente soddisfazione di chi non aveva dimenticato l’affronto subìto nove anni prima, nel Sacco dei Lanzichenecchi alla città.
L’imbarazzo per quanto avvenuto indusse dunque Paolo III a trasformare ed abbellire rapidamente il Campidoglio, su progetto del grande Michelangelo Buonarroti, anche se non ne vide il compimento, per il perdurare dei lavori.
Nello spazio compreso tra il giardino del convento dell’Aracoeli ed una sua abitazione privata, in un luogo ameno e panoramicissimo, il Papa fece erigere negli anni 1535-37 una grandiosa torre ad opera del ferrarese Jacopo Meleghino. Si tratta di un nome decisamente meno appariscente rispetto a Michelangelo ed allo stesso Antonio da Sangallo, che infatti lo definì ironicamente “architetto da motteggio”, mettendo in dubbio le sue qualità professionali. Il Meleghino, in effetti, fu una figura minore nel novero degli artisti che operarono a Roma nel XVI secolo, e fu probabilmente scelto in quanto rivestì la carica di Tesoriere del cardinale Alessandro Farnese, prima che questi fosse eletto Papa con il nome di Paolo III.
L’architettura austera e l’originario coronamento di merli guelfi sorretti da beccatelli erano volutamente ispirati al vicino Palazzo di San Marco, ma una doppia loggia sovrapposta a tre arcate di ordine dorico, rivolta verso il Campidoglio, alleggeriva l’insieme, conferendo alla Torre una leggiadria tutta particolare.
La Torre di Paolo III fu collegata nel 1546 ad commodiorem transmigrationem da un passaggio coperto che, scavalcando il vicolo della Pedacchia e via di San Marco, ricreava sulla piazza, seppur in forme più modeste, il celebre arco di trionfo di Carlo V.
LA TORRE DOPO LA MORTE DI PAOLO III
Dopo la morte del Papa Farnese, Giulio III la riservò come abitazione di prestigio ai cardinali titolari della chiesa dell’Aracoeli; successivamente Paolo IV, nel 1556, la accordò ai Frati Minori poiché il loro adiacente convento era divenuto insufficiente.
La Torre ed il contiguo palazzo tornarono nuovamente in auge come residenza estiva grazie a Papa Pio IV, che li fece decorare da Taddeo e Federico Zuccari, con “un fregio colorito a fresco in una di quelle sale”; sulla sommità fu costruita un’altana, da cui si godeva l’incomparabile vista a 360° dell’Urbe che si estendeva fino ai Colli Albani.
Papa Pio IV aveva in realtà in mente un grandioso progetto urbanistico, rimasto però soltanto sulla carta: il suo scopo era difatti quello di unire la Chiesa di San Silvestro al Quirinale con Palazzo San Marco attraverso un percorso a gradinate in modo che “la prima e l’ultima fussi coperta, e quella nel mezzo scoperta, e che di poi si facessi una dirittura che andassi fino a San Marco”.
Fu Papa Sisto V a restituire definitivamente la Torre ai Francescani, che la tennero sino al dicembre 1885. Ottenuto il possesso della Torre Paolina, il Governo ne decretò la demolizione il 5 gennaio 1886; il giorno seguente, festa dell’Epifania, mentre i fedeli erano inginocchiati per la tradizionale benedizione del Santo Bambino, i lavori non si fermarono neppure per un attimo, disturbando la funzione con il tonfo dei picconi e il frastuono delle macerie che precipitavano a terra.
Fu un momento storico, ben riassunto dallo scritto del 1909 di Domenico Gnoli: “Il monumento nazionale che sta sorgendo sul Campidoglio, opera del compianto architetto Sacconi, è il più insigne monumento dell’età nostra, testimonianza solenne della patria rivendicata a libertà. Molto però si è distrutto in Roma, dal 1870 in poi, che si poteva salvare. Non si è avuta alcuna cautela di conservate quelle parti ch’era possibile, o almeno, quando altro non sì potesse, farne trarre fotografie e disegni, non inutili materiali di studio”.
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