LA BENEDIZIONE DEGLI ANIMALI A SANT’EUSEBIO
Se il 17 gennaio vi capitasse di passare per via Principe Amedeo, all’angolo con Piazza Vittorio, potrete notare con ogni probabilità un curioso assembramento di animali nel bel mezzo del traffico. Si tratterà perlopiù di cani al guinzaglio, gatti tenuti in braccio o negli appositi trasportini, con l’aggiunta magari di qualche canarino e pappagallo e degli immancabili cavalli alla briglia delle botticelle guidate dai vetturini.
Non stupitevi se noterete un prete nell’atto di benedirli, poiché il 17 gennaio, a Roma, si celebra la festa degli animali, ovvero quella di Sant’Antonio Abate, il loro protettore.
SANT’ANTONIO ABATE
Ma perché proprio Sant’Antonio? L’abate del IV secolo, asceta nel deserto a ridosso del Mar Rosso, è ricordato prima di tutto per le tentazioni subite da parte delle legioni di Satana, che inviò contro il santo molteplici e disperate visioni umane e bestiali. Si tratta anche del santo notoriamente invocato per tutelare la salute del proprio corpo, specialmente contro quella afflizione ancora nota come Fuoco di Sant’Antonio.
Nelle campagne, però, gli era anche affidata la protezione del bestiame, tanto che ai piedi delle sue immagini apparve, fin dal VII secolo, un roseo porcellino, come simbolo di salute e floridità, ed i suoi ritratti si moltiplicarono nelle stalle e nelle case di campagna, proprio nell’atto di benedire gli animali domestici.
LA CERIMONIA DELLA BENEDIZIONE
Roma ha mantenuto viva questa tradizione, e la benedizione degli animali è ancora una cerimonia celebrata nel suo apparato religioso. Certo, una volta era molto più imponente, mentre oggi è celebrata a stento davanti alla Chiesa di Sant’Eusebio, dove è stata dirottata per motivi di traffico dalla vicina chiesa di Sant’Antonio.
Un tempo, era il sagrato di quest’ultima chiesa a fungere da scenario per una vera e propria sagra, con una varietà di quadrupedi che in gran parte arrivavano dalla Campagna romana: buoi, asini e cavalli dei tipici carretti da vino, bardati e infiocchettati, maialini e agnelli, galline e conigli. E ancora, le carrozze dei nobili tirate da magnifici cavalli e le vetture dei servizi pubblici tirate a lucido per l’occasione. La cerimonia si trasformava spesso in un vero e proprio spettacolo di fauna campagnola per i produttori di bestiame ed in uno sfoggio di abilità alla guida da parte dei cocchieri delle famiglie patrizie: era una festa di colori sovrapposta a una cerimonia religiosa, una scena di costume che incantava gli stranieri di passaggio nella Città Eterna, come ad esempio il grande scrittore tedesco Goethe, che definì la festa “una specie di saturnale” rievocandone l’antico spirito pagano.
“La chiesa del santo sorge in un piazzale così vasto che sembra quasi un deserto, ma oggi era più che mai tutto pieno di animazione. I cavalli e i muli, con le criniere e le code intrecciate di bei nastri, alcuni dei quali splendidi, vengono condotti davanti alla cappelletta a poca distanza dalla chiesa; e qui un prete, munito d’un grande aspersorio, spruzza energicamente e senza risparmio l’acqua benedetta, raccolta in secchie e tinozze, contro le brave bestie, talvolta con maliziosa intenzione di eccitarle. I cocchieri devoti portano ceri grandi e piccoli, i padroni mandano offerte e regali, affinché gli utili e preziosi animali siano preservati per tutto l’anno da ogni infortunio. Anche gli asini e gli animali cornuti, non meno utili e preziosi ai loro proprietari, prendono la loro modesta parte alla cerimonia della benedizione”. Goethe fa affiorare una punta di ironia e di sarcasmo nella sua descrizione, ma sottolinea con cura lo spirito religioso della cerimonia: non è un caso in effetti che questa benedizione degli animali si riallacciasse ad un’analoga cerimonia pagana in onore di Diana, che si svolgeva probabilmente proprio nella zona dell’Esquilino.
Fin dalle prime ore del mattino iniziava la sfilata di tutti i quadrupedi, dal più umile ronzino al più superbo cavallo, adorni di ricche gualdrappe e ammantati di panni scarlatti, con fiori attorno al collo e fiocchi e pennacchi sulle criniere, tra due ali di folla fino alla chiesa. Sono le scene immortalate nella litografia del francese Thomas del 1823, nell’acquerello di Bartolomeo Pinelli del 1831 e nell’olio del danese Wilhelm Marstrand del 1838. Sui documenti dell’epoca si leggono descrizioni come queste: “è un gran sollazzo pei romani vedere tanti e sì nobili destrieri appaiati sotto un sol cocchio, ire superbi e mansueti, le girate dei canti a tempo, alzando in bell’arco i piè davanti, rizzando le orecchie e squassando le piume variopinte dei loro pennacchi, mentre il cocchiere, col suo sigaro in bocca, con tante redini in pugno, col calcetto della frusta appoggiato sui galloni, siede con un’agevolezza come se guidasse due vecchi e docili cavallucci”.
In particolare alla fine del Governo Pontificio, lo spettacolo raggiungeva il proprio culmine verso mezzogiorno, quando giungevano nei pressi della chiesa i cavalli del Servizio Postale. L’impresario del servizio di diligenza fra Roma e Civitavecchia, partendo da piazza Nicosia dove aveva le sue scuderie, cavalcava alla testa di una lunga fila di cavalli montati dai postiglioni nel loro pittoresco costume: cappello di feltro nero con larga trina di oro, alti stivali, calzoni di pelle gialla, giubbetto verde con risvolti rossi e fascia rossa al braccio, su cui era fissata una placca metallica con lo stemma pontificio. Il corteo andava a rilevare, fra lo schioccare delle lunghe fruste dei postiglioni ed il tintinnio delle sonagliere, il Ministro delle Poste, ed infine raggiungeva l’Esquilino e la chiesa, alla quale il Ministro stesso offriva un lungo cero.
LA LOTTA PER LE BENEDIZIONI
Naturalmente, un semplice cero (per quanto di notevoli dimensioni) non era sufficiente: la benedizione comportava anche un’offerta in denaro per la Chiesa di Sant’Antonio, che andava da quelle più modeste, spesso in natura, da parte dei contadini a quelle copiose in denaro da parte dei nobili. Talvolta si crearono veri e proprio incidenti diplomatici in tal senso, come quando il 17 gennaio 1702 l’ambasciatore dell’Imperatore d’Austria, per non mischiarsi alla massa che affluiva alla chiesa dell’Esquilino, fece benedire i suoi cavalli in una cappella di Sant’Eligio de’ Ferrari, lasciando l’offerta alla relativa Confraternita dei Fabbri-Ferrai, scatenando le proteste dei sacerdoti di Sant’Antonio che videro in tale azione una sorta di “concorrenza sleale”.
Dopo questo evento, la lotta per il privilegio di benedire gli animali divenne particolarmente serrata, al punto che nel 1831 si ebbe un intervento ufficiale del Cardinale Vicario, che giunse a minacciare la sospensione a divinis per chiunque, al di fuori della chiesa di S. Antonio all’Esquilino, benedicesse gli animali. La confraternita di Sant’Eligio dovette a quel punto accontentarsi della facoltà di benedire soltanto i propri animali e di celebrare la festa di Sant’Antonio, ma senza alcuna solennità e senza poter ricevere elemosine.
L’aspetto finanziario della benedizione, che diventava così a tutti gli effetti la motivazione primaria della stessa, colpì anche la fantasia e l’estro del poeta dialettale romanesco Giuseppe Gioacchino Belli, popolano devoto ma scanzonato, che creò un suo celebre sonetto incentrato sulla figura di un prete affaccendatissimo a benedire e ancor più a raccogliere oblazioni:
Nostròdine cor zanto madrimonio
sem’iti a visità Ssanta Pressede,
e doppo a Ssammartino, e doppo a vede
a benedì le gubbie a Ssant’ Antonio.
Er prete era quel pezzo de demonio
de don Pangrazzio, e stava in cotta in piede
a aspettà co l’asperge che la fede
je portassi le bestie ar mercimonio.
Porchi, somari, pecore, cavalli,
s’ainàveno tutti in una turma,
pieni de fiocchi bianchi e rossi e gialli.
E don Pangrazzio, facenno una toppa
de quadrini, strillava a quella ciurma:
“Fiji, la carità nun è mai troppa”.
Tanto era l’afflusso di animali che la processione si prolungava per tutto un ottavario, permettendo così a tutti i proprietari di animali del suburbio di poter usufruire della benedizione, mentre di riflesso la chiesa riceveva più abbondanti elemosine. In tal modo questa festa finiva praticamente per unirsi all’inizio del carnevale, dando più ancor significato al vecchio adagio popolare che qualifica Sant’Antonio con “maschere e rumore”.
Ecco perché, nel caso in cui (in realtà assai frequente) nella celebre Corsa dei Berberi si verificassero irregolarità, il ricco palio destinato come premio al vincitore veniva mandato alla chiesa di Sant’Antonio. Era il coronamento delle elemosine, e c’è da stare certi che molti sacerdoti della chiesa pregassero proprio per questo, alla faccia della competizione sportiva e del “vinca il migliore”!
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