La favola di Amore e Psiche fra Roma e Mantova

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LA FAVOLA DI AMORE E PSICHE FRA ROMA E MANTOVA

Quando Agostino Chigi chiese a Raffaello di decorare la grande loggia d’ingresso della sua Villa Farnesina alle porte di Roma, la scelta ricadde su un celebre tema della cultura classica, che divenne uno dei preferiti nelle successive decorazioni delle dimore patrizie: il mito di Amore e Psiche.

L’artista collocò con grande disinvoltura gli episodi di quella storia negli spazi creati dalla struttura del finto pergolato (realizzato da Giovanni da Udine): nei dieci pennacchi compare una sequenza di scene animate da personaggi dipinti di scorcio, come se fossero realmente presenti e visti di sotto in su, mentre al centro i due momenti principali del racconto ricoprono una gran parte del soffitto, simulando una coppia di arazzi distesi tra i festoni, che snellirono almeno un paio di problematiche che aleggiavano nella testa di Raffaello.

La raffigurazione in piano delle due storie permise infatti di risolvere la difficoltà di dipingere di scorcio le figure, dato che la lunghezza della loggia avrebbe dilatato troppo le immagini rispetto a un punto di vista centrale. L’azzurro di fondo dei finti arazzi (purtroppo ossidato), inoltre, avendo una tonalità diversa dal cielo che compare dietro i festoni, ne sottolineava la sostanziale diversità.

In ognuna delle quattordici vele giocosi amorini recano i trofei di altrettante divinità dell’Olimpo, circondate da simbolici uccelli e accompagnate da alcuni animali ad esse connesse. Giorgio Vasari, nella Vita di Giovanni da Udine, narrava che quest’ultimo “si dilettò sommamente di fare uccelli di tutte le sorti, di maniera che in poco tempo ne condusse un libro tanto vario e bello, che gli era lo spasso ed il trastullo di Raffaello”.

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Non è però solo la grande perizia del pittore friulano a costituire il pregio di questa decorazione: anche Giulio Romano e Giovan Francesco Penni lavorarono alle grandi superfici, dipingendo le numerose figure degli dei dell’Olimpo con arditi effetti di scorcio. Naturalmente i disegni preparatori erano di Raffaello, mentre l’esecuzione, secondo un sistema ormai collaudato, era affidata agli allievi. Quest’opera venne realizzata tra il 1517 e il 1518 mentre si andava completando la decorazione della villa.

Tutto questo mirabile lavoro artistico venne realizzato in vista del matrimonio tra Agostino Chigi e Francesca Ordeaschi, una fanciulla veneziana che il banchiere aveva condotta con sé a Roma nel 1511; dalla loro relazione nacquero gli eredi maschi di casa Chigi, ma la loro unione fu legittimata soltanto nel 1519 con una spettacolare cerimonia alla presenza di dodici cardinali e di Papa Leone X, che per anni aveva sollecitato questo passo. Agostino Chigi volle prepararlo con cura, anche nel completamento della sua dimora: il salone al primo piano fu dipinto da Baldassarre Peruzzi con prospettive architettoniche aperte su un paesaggio illusionistico della città, mentre il Sodoma affrescò la sua camera da letto con le storie di Alessandro e Rossane, con evidente allusione alla magnanimità del Chigi nello sposare una donna di rango sociale inferiore.

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IL MITO DI AMORE E PSICHE

L’ornamento della loggia, sul tema della leggendaria storia mitologica di Amore e Psiche, veniva a dare compiutezza al sistema decorativo della palazzina.

Il mito di Amore e Psiche ha la sua origine letteraria nell’Asino d’oro, un romanzo scritto da Lucio Apuleio nel II secolo d.C. Come per altri cicli decorativi del Cinquecento, un’interpretazione assai diffusa vi ha letto un’allegoria dell’immortalità dell’anima. La bellissima fanciulla, infatti, amata dal giovane dio Amore ma osteggiata per invidia da Venere, deve subire una serie di prove molto gravose prima di potersi unire in matrimonio con lui e, quindi, essere ammessa alla vita divina attraverso il dono dell’immortalità. L’avvincente favola iniziatica narra pertanto simbolicamente i travagli dell’anima umana che, attraverso l’amore, si eleva dalla sua condizione terrena fino a giungere alla felicità eterna.

Il racconto illustrato da Raffaello risulta però frammentario, limitandosi a rappresentare le scene che avvengono in cielo. Si è spiegata questa incompiutezza con l’arresto della decorazione alla volta della loggia: nelle lunette avrebbero dovuto trovar posto gli eventi avvenuti a metà tra la terra e il cielo, e nelle pareti le vicende terrene e quelle riguardanti gli Inferi. Infatti, più di una volta i personaggi dei pennacchi indicano verso il basso, come per far riferimento a un fatto illustrato in un registro inferiore. Purtroppo non sappiamo nulla dell’intero progetto e ci resta soltanto qualche disegno, forse collegabile a storie destinate alle lunette: ad esempio, uno splendido studio di donna che regge uno specchio è stato da alcuni storici dell’arte messo in relazione con l’episodio di Psiche servita dalle ancelle nella reggia di Amore.

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Le due scene rappresentate nei finti arazzi tesi al centro del “pergolato” (come se dovessero far ombra) illustrano il trionfo di Psiche. Nel Concilio degli Dei l’assemblea dell’Olimpo, convocata per ordine di Giove, dà il consenso alle nozze e offre alla fanciulla la coppa col nettare dell’immortalità; nel Banchetto degli Dei avviene il festeggiamento degli sposi, seduti alla mensa imbandita e attorniati da tutto l’Olimpo. Entrambi gli eventi sono dipinti così da rendere per immagini un brano letterario dell’antichità classica, che il committente vuole riproporre quale modello ideale di comportamento. Il rapporto dialettico tra pittura e letteratura era d’altronde un vezzo culturale del Rinascimento: come osservò Ludovico Dolce nel suo Dialogo della Pittura (1557), “è cosa iscambievole che i pittori cavino spesso le loro invenzioni dai poeti, ed i poeti dai pittori”.

BANCHETTO E CONCILIO NELL’OPERA DI LUCIO APULEIO

Raffaello e gli artisti che dopo di lui rappresentarono la storia di Amore e Psiche si ispirarono al celebre romanzo di Lucio Apuleio. Confrontando il Concilio degli Dei e il Banchetto degli Dei dipinti nella Loggia di Psiche alla Villa Farnesina con i relativi passi del romanzo, è possibile accorgersi che Raffaello ottenne una perfetta rispondenza tra pittura e letteratura. Possiamo rendercene conto raffrontando le due immagini con i capitoli 23 e 24 del IV libro de L’Asino d’Oro:

“Così parlò Giove, e diede ordine a Mercurio di convocare immediatamente in assemblea plenaria gli dei e di render noto ch’era comminata una multa di diecimila sesterzi per chi avesse disertato l’adunanza. In seguito a questa minaccia, subito si riempì il teatro delle celesti riunioni, e Giove, che dal trono elevato in cui si sedeva dominava gli astanti, tenne questo discorso: “O dei iscritti nell’albo delle Muse, di certo tutti sapete che codesto giovane io l’ho allevato con le mie mani. Nella sua prima giovinezza ho creduto bene di dover mettere un freno ai suoi impetuosi ardori: basta già che la gente chiacchieri, e che adultèri e scandali di tutti i generi ogni giorno compromettano la sua reputazione. Ma occorre ora levargli ogni pretesto di mal fare; occorre frenare la sua giovanile esuberanza con il legame del matrimonio. Egli si è scelto una ragazza e le ha tolto la verginità. Dunque se la tenga, la possegga, abbracci la sua Psiche e goda eternamente del suo amore”. E, rivoltosi a Venere, esclama: “E tu, figlia mia, non affliggerti e non temere che un matrimonio con una donna mortale possa recar danno al rango del tuo illustre casato. Io farò immediatamente in modo che queste nozze non avvengano tra sposi di condizione diversa, ma siano legittime e conformi al diritto civile”; e subito dà ordine a Mercurio di andare a prendere Psiche e di condurla in cielo.

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Appena ella giunse, le tese un bicchiere colmo di ambrosia e le disse: “Prendi, Psiche, e sii immortale. Mai Amore ripudierà il vincolo che a te lo unisce. Da oggi voi siete uniti in matrimonio per l’eternità”. Subito vien servito il pranzo di nozze. Lo sposo, stringendo al suo petto Psiche, era sdraiato sul letto d’onore. Parimenti lo erano Giove e Giunone, e poi in ordine tutti gli altri dei. A Giove la coppa del nettare, che è il vino degli dei, la offriva il suo coppiere particolare, quel ragazzotto di campagna [Ganimede, n.d.r.]; Bacco serviva gli altri dei; Vulcano cuoceva il pranzo; le Ore abbellivano ogni angolo con rose e ogni sorta di fiori; le Grazie spargevano profumi, e le Muse facevano echeggiare la loro voce armoniosa. Poi Apollo cantò accompagnandosi sulla cetra, Venere si esibì in una leggiadra danza, seguendo il ritmo d’una musica soave, e nell’orchestra ch’ella s’era preparata le Muse cantavano in coro, un Satiro suonava il flauto, un Panisco soffiava nella sua zampogna. Così secondo il rito prescritto, Psiche sposò Amore e nacque al termine giusto una figlia che noi chiamiamo Voluttà”.

AMORE E PSICHE NELL’IDEA DI GIULIO ROMANO

L’idea di illustrare il mito di Amore e Psiche fece salda presa sugli allievi di Raffaello e fu ripresa anche da Giulio Romano, che gli dedicò una delle sale principali del Palazzo Te a Mantova, realizzando una delle sue opere più alte e raffinate, in una decorazione che (riprendendo le parole del Vasari) “appieno rivela l’ingegno, la virtù, l’arte di Giulio il quale in questa parte mostra esser vario, ricco e copioso d’invenzione e d’artifizio”.

La Sala di Psiche è un ambiente destinato ai banchetti, ed è ricoperto da una particolare volta a cassettoni con ottagoni e mezzi ottagoni che circondano un quadrato centrale. Alternati a dodici lunette, i peducci sono ornati da splendide foglie d’acanto dorate e poggiano su mensole con eleganti modiglioni, raccordate tra loro da una fascia con la scritta dedicatoria. Questa, come un nastro teso, separa le scene delle lunette da quelle che si svolgono sulle pareti, e indica la motivazione che ha spinto il committente a far compiere tale opera, ossia “HONESTO OCIO POST LABORES AD REPARANDAM VIRTUTEM QUIETI CONSTRUI MANDAVIT”: riprendendo un tema umanistico, l’onesto ozio viene esaltato come unica via per riconquistare la perduta virtù.

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L’alto zoccolo spoglio, che corre lungo i muri fino all’altezza dell’architrave delle porte, aveva in origine un rivestimento di corame color rosso e oro. Ritroviamo in questa sala la felice sintesi raffaellesca tra le dimensioni pittorica, plastica e architettonica, caratterizzata, però, da un preponderante gioco di illusioni: le finzioni scenografiche di tutta la decorazione creano, infatti, un raffinatissimo “inganno” tra immaginazione e realtà.

La storia mitica si svolge in azioni sceniche che circondano lo spettatore “sfondando” i piani delle pareti e della volta, per simulare uno spazio all’aperto che si innalza verso il cielo e si dilata all’esterno, nella natura circostante o in altri ambienti manufatti. Il punto di vista ideale è posto al centro della sala con un rigoroso impianto prospettico che ricorda, naturalmente, la struttura decorativa usata da Andrea Mantegna nella Camera degli Sposi nel Palazzo Ducale di Mantova, e gli arditi scorci del Correggio e del Parmigianino, che Giulio Romano guardò con interesse nel suo lungo soggiorno padano. Non mancano però, ovviamente, i segni dei fecondi anni romani dell’artista: ad esempio, il telaio della volta a forme ottagonali ricorda gli stucchi della loggia di Villa Madama, e la scelta di rappresentare nelle dodici vele svariati putti giocosi che suonano vari strumenti, prende spunto da quelli con gli emblemi degli dei che, nella Loggia di Psiche alla Farnesina, occupano i medesimi spazi a vela.

Come in altre sale di Palazzo Te, sul soffitto della Sala di Psiche compare l’emblema della salamandra col motto “quod huic deest me torquet” (ciò che a costei manca è mio tormento). La mitica salamandra si nutriva del fuoco della passione anziché esserne bruciata: Federico II ne fece un suo emblema, alludendo alla sua illegittima relazione con Isabella Boschetti (sposa di Francesco Boschetti e non di nobile rango), che aveva suscitato lo sdegno della marchesa madre, Isabella d’Este.

Anche qui, come nella villa romana di Agostino Chigi, il tema di Amore e Psiche sembra associarsi alle vicende amorose del committente col travagliato corso che le caratterizza, senza porsi come motivo unico per la scelta del soggetto da rappresentare. Inoltre, nella decorazione del Palazzo Te, il racconto della favola di Apuleio comprende gli episodi che non compaiono a Villa Farnesina, e vi si aggiungono sei storie di altrettanti amori tratti dalla mitologia classica come variazioni sul tema principale della stanza: il programma figurativo risulta, quindi, più complesso e articolato rispetto al prototipo raffaellesco, e riserva livelli di lettura decisamente più elaborati.

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LE INTERPRETAZIONI DELLA CRITICA

Nel tentativo di rintracciare le motivazioni che sono alla base di questo programma figurativo, così da giustificare le scelte operate da Giulio Romano nell’elaborazione del testo di Apuleio, sono state proposte interpretazioni divergenti: se alcuni critici vi hanno identificato l’ascesa dell’anima dal mondo e dal suo amore bestiale verso la rivelazione dell’amore spirituale, altri hanno decisamente rifiutato questa lettura neoplatonica, riscontrandovi soltanto un’esaltazione paganeggiante del piacere e degli illeciti amori.

D’altronde, considerando il contesto culturale in cui quelle immagini sono state prodotte, non si può semplificarne la lettura, come se il loro significato fosse immediato e trasparente, anziché molteplice e articolato. I vari soggetti sono infatti legati tra loro per differenze e similitudini, secondo rapporti di vicinanza, di sovrapposizione e di contrapposizione, presupponendo continui rimandi che costituiscono la trama unitaria dell’intero ciclo. Ci troviamo di fronte a uno di quei “lucidi inganni” che sono a fondamento della decorazione di Palazzo Te, in cui Federico II, figlio della neoplatonica Isabella ma amante di una seconda adultera Isabella, volle probabilmente autorizzare una lettura neoplatonica della favola, ma in chiave ironica.

La chiarezza espositiva di Raffaello è ormai lontana, e lascia spazio a una sovrapposizione di temi, presentati però in modo simultaneo e unitario: la decifrazione avviene secondo un percorso labirintico che compare, non a caso, nel disegno del pavimento al centro della sala. Tutto il ciclo è una metafora che invita ad accedere all’universo dello spirito, con il dedalo utilizzato per rappresentare il percorso spirituale che, attraverso le insidie e i trabocchetti del mondo, permette di raggiungere la rivelazione spirituale e la visione divina.

Chiarissimo, in tal senso, come il circuito labirintico sì associ felicemente alla travagliata ricerca compiuta da Psiche, cioè dall’Anima, fino alla gloriosa visione dell’Amore di Dio: d’altronde, la risalita dagli Inferi all’Olimpo era stata interpretata, già da secoli, come l’iniziazione che permette all’anima umana di ritrovare la sua originaria natura nel ricongiungersi alla bellezza dell’amore spirituale.

AMORE E PSICHE A CASTEL SANT’ANGELO E PALAZZO SPADA

Questo filone tematico, d’ispirazione morale e idealizzante, torna più volte nelle decorazioni di illustri dimore cinquecentesche, perdendo tuttavia quel carattere sensuale che in Palazzo Te è, invece, uno dei connotati sostanziali.

Prendiamo, come esempi più significativi, due cicli pittorici realizzati a Roma attorno alla metà del sedicesimo secolo come ornamento di due sale distinte: una si trova nell’appartamento di Papa Paolo III in Castel Sant’Angelo, l’altra al piano nobile del Palazzo Spada-Capodiferro, non distante da Piazza Farnese. Sebbene esse siano state realizzate a distanza di pochi anni, si tratta di due decorazioni tra loro interdipendenti, ed è interessante che della storia di Amore e Psiche siano stati rappresentati solo alcuni episodi, secondo una precisa scelta che si pone in relazione dialettica con le rappresentazioni della favola di Apuleio già realizzate da Raffaello alla Farnesina e da Giulio Romano al Te.

Nei due cicli compaiono infatti gli episodi che mancano nella loggia di Agostino Chigi, tanto che alcuni critici avrebbero sostenuto che nella Stanza di Psiche di Palazzo Spada-Capodiferro la scelta di dipingere le scene che Raffaello aveva progettato ma non eseguito si giustificherebbe con l’idea della costruzione del ponte che collegasse Villa Farnesina alla zona di Palazzo Farnese: un congiungimento ideale fra le due sponde, seppur architettonicamente mai realizzato.

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Le scene volute nella dimora cardinalizia sono soltanto quattro, e sono relativamente secondari. La prima rappresenta la vecchia cuoca che racconta la favola alla presenza di Lucio trasformato in asino, per consolare una giovane rapita da alcuni ladroni per ottenere il riscatto. La seconda mostra Psiche adorata come fosse Venere, mentre più dietro suo padre interroga l’oracolo di Apollo. Nella terza scena compare il corteo funebre che conduce la fanciulla sull’alta rupe, e nella quarta l’episodio di Psiche che guarda Amore alla luce di una lampada e lo fa volar via.

Lo stesso è avvenuto nella analoga decorazione di Castel Sant’Angelo, dove agli episodi appena descritti se ne associano altri quattro dal medesimo filone tematico: Psiche siede a mensa con Amore senza vederlo, Venere rimprovera il figlio disobbediente, Psiche tormentata dalle serve di Venere, la prova della discesa nel regno dei morti per riportarne il balsamo di Proserpina. Si tratta sostanzialmente di scene pervase da una sospesa malinconia, dovuta all’esclusivo svolgersi delle fasi negative della vicenda. Psiche appare triste sin da principio: è insoddisfatta della sua bellezza fisica e aspira alla bellezza spirituale. In questo programma figurativo si coglie l’intenzione dei committenti di sottolineare l’aspetto iniziatico con cui l’anima può elevarsi dalla sua dimensione terrena.

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Psiche sarebbe stata infatti generata con una natura intermedia tra quella corporea e quella intellettiva: rappresentando simbolicamente ogni buon cristiano, dovrà abbandonare le vanità mondane per intraprendere un itinerario spirituale fatto di prove espiatrici e di “opere”, che richiederanno uno sforzo personale e impegnativo. Allo stesso modo: la necessità di amare senza vedere l’amato (per fede), l’illusione di conoscere l’amore divino attraverso “il lume” della speculazione razionale, e l’ingiuria che lo stesso Amore subisce (da parte di Venere) sono tutti temi che indicano le tappe dell’ascesa dell’anima per ricongiungersi al suo Creatore e gli errori in cui si può incorrere nel compiere questo percorso spirituale.

Queste figurazioni assumono un preciso significato teologico-allegorico che allude a questioni dottrinali di grande attualità. Si tratta delle tesi circa il raggiungimento della salvezza cristiana: i riformati, sostenitori della predestinazione, la dicevano possibile col solo ausilio della fede, mentre i teologi cattolici insistevano sul valore delle opere e sul “combattimento” spirituale, quindi sull’opportunità delle “prove”. La questione è più complessa e si può riassumere in modo molto schematico: la Chiesa di Roma non riteneva sufficiente ai fini salvifici il solo atto speculativo col “lume” della fede, ma riteneva indispensabile la pratica efficace delle opere buone, poiché senza di esse non sarebbe possibile raggiungere l’Amore di Dio.

IL CONCILIO DI TRENTO

È interessante osservare che, proprio nell’anno in cui veniva realizzata la decorazione a fresco della Sala di Psiche in Castel Sant’Angelo (1545, per opera dell’allievo e collaboratore di Raffaello Perin Del Vaga), si apriva la prima sessione del Concilio di Trento per volontà di Paolo III.

In quegli anni Paolo III si dedicava con energica attività alla riforma della Chiesa, e nel contempo si preoccupava di rispondere su un piano teologico e dottrinale alle accuse formulate dai protestanti contro il cattolicesimo romano. È questo il momento in cui la stessa città di Roma provava a risollevarsi dalla grave crisi che aveva infranto la sua immagine aurea e aveva lasciato segni profondi nella vita e nei costumi dei suoi abitanti e della corte pontificia.

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È significativo il fatto che le due decorazioni prese in esame siano volute dal Papa e da Girolamo Capodiferro, ossia uno dei più influenti cardinali di Curia. Non si tratta dei gaudenti mecenati al pari di Agostino Chigi e Federico Gonzaga, ma di colti e rigorosi esponenti della Chiesa romana che, pur conducendo una vita principesca, sentono l’imperativo morale di riaffermare e visualizzare nelle loro dimore i valori spirituali del cristianesimo, seppure con modalità tipicamente umanistiche: sta nascendo la Roma della Controriforma, eppure sopravvivono ancora, grazie all’illuminata cultura di autorevoli personaggi, i frutti di quell’arte fecondissima che Raffaello aveva generato.

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