Gli acquedotti romani (2/2)

Acquedotti Romani, Gli acquedotti romani (2/2), Rome Guides

GLI ACQUEDOTTI ROMANI (2/2)

La sorte degli acquedotti romani accompagnò, in un affiancamento perenne, la decadenza della città. Essi erano tuttavia ancora intatti (seppure in ovvia carenza di manutenzione) all’inizio del VI secolo, quando furono manutenuti dal re degli Ostrogoti Teodorico.

Dopo i quasi venti anni della disastrosa Guerra Greco-Gotica (535-553), però, durante la quale Rome fu più volta cinta d’assedio e stremata dalla fame, anche gli acquedotti non riuscirono a sfuggire alla devastazione, troncati dal barbaro Vitige che inferse così un colpo durissimo alla città ed alla popolazione.

Ancor oggi, in ogni caso, gli antichi acquedotti romani creano grandi suggestioni attraverso la visione grandiosa degli antichi archi infranti nella sterminata campagna romana, su cui talvolta riversarono tali e tanti fiumi d’acqua dalle loro bocche titaniche da trasformarla in un vero e proprio acquistrino.

Godendoci un video ripreso dall’alto che mostra l’ancora evidente maestosità dell’ingegneria idraulica romana, avviamoci alla scoperta minuziosa dei singoli acquedotti citati da Frontino, esaminandoli uno per uno.

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AQUA APPIA

Fino al 312 a.C. l’approvvigionamento idrico di Roma era stato garantito direttamente dalle acque del Tevere e dalle molte cisterne attrezzate a raccogliere l’acqua piovana, che gli antichi ritenevano la migliore per salubrità.

La Roma della fine del IV secolo a.C. era ormai però una grande città, una delle maggiori del Mediterraneo, e si proponeva con prepotenza alla conquista dell’Italia peninsulare. Era stata cinta da poco di potentissime mura, quelle ricostruite dopo l’incendio gallico, che erano quanto di meglio potesse la tecnica del tempo nell’arte della guerra e che, con un percorso di 11 km, racchiudevano un abitato di 476 ettari. Nuovi templi e monumenti abbellivano la città, mentre il Foro Romano era stato sgombrato dal mercato e destinato unicamente all’attività politica, giudiziaria, sacrale e finanziaria.

Nel 312 a.C. la costruzione della Via Appia si accompagnava all’espansione romana nel Sannio e preludeva alle guerre contro Pirro.

È in questo contesto di rinnovamento urbano che nel 312 a.C. i censori Appio Claudio Crasso, il medesimo della costruzione della via Appia e che sarà poi detto il Cieco, e Caio Plauzio Venoce costruirono a Roma il primo acquedotto, l’Aqua Appia, avviando quel principio di portare alla città, anche da territori lontani e con sommi costi e fatica, acqua salubre in abbondanza, per soddisfare le esigenze della vita quotidiana.

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Dei due censori, Plauzio era stato proprio quello che aveva individuato le sorgenti ed aveva eseguito il progetto, per cui gli era derivato lo stesso nome di Venoce (da vena acquifera). Essendo però morto prima di finire la censura, Appio Claudio dovette compiere da solo l’opera, non senza grandi difficoltà, cosicchè alla fine l’acqua prese il nome solo da lui.

Frontino informa con precisione che l’Aqua Appia iniziava nell’Agro Lucullano, presso la via Prenestina tra il VII e l’VIII miliario; il canale era condotto dalle sorgenti a 50 piedi sotto il piano di campagna, cioè a 15 m di profondità, ed il percorso era quasi tutto sotterraneo. Il percorso completo era di 11.190 passi (16.561 m), al termine dei quali raggiungeva nei pressi di Porta Maggiore la località denominata ad spem veterem, dove arrivavano in città anche gli altri 7 degli 11 principali acquedotti, e seguiva dapprima il crinale del Celio e quindi il versante nord-est dell’Aventino fino al Tevere, ove si trovava la Porta Trigemina e dove l’acquedotto serviva la zona portuale della città repubblicana.

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Per quanto concerne le fonti, sulle quali si è molto discusso, sembra possibile riscontrarle nelle sorgenti di Valle Maggiore, all’altezza di Monte Mentuccia, a nord della via Prenestina, ove ricadeva l’indicazione miliaria.

Sappiamo che l’acquedotto ebbe restauri ad opera di Quinto Marcio Re nel 144 a.C. (in concomitanza alla costruzione dell’Acquedotto Marcio), nel 33 a.C. ad opera di Agrippa e tra l’11 e il 4 a.C. ad opera di Augusto. Quest’ultimo ne potenziò la portata, portandola da 841 quinarie (34.000 mc nelle 24 ore) a 1.825 (73.000 mc), captando nuove vene presso il VI miliario della via Prenestina. Frontino, con precisione, ne colloca il sito a circa 1,5 km a sinistra della strada, e pare oggi possibile identificare il bacino imbrifero in quello della Cervelletta, che si pone sulla via Collatina subito dopo Tor Sapienza.

ANIO VETUS

Secondo per antichità in Roma, questo acquedotto fu costruito 40 anni dopo il primo, in seguito alla vittoria su Taranto, con il ricavato delle spoglie tolte a Pirro, re dell’Epiro. Fu costruito in tre anni, tra il 272 ed il 269 a.C., dai censori Manio Curio Dentato e Fulvio Flacco. Il nome di Anio è un chiaro riferimento al fatto che derivasse le acque dall’alto corso del fiume Aniene, ebbe poi l’appellativo di Vetus, cioè Vecchio, per distinguerlo dall’Anio Novus, costruito quasi tre secoli dopo.

La presa d’acqua derivava direttamente dal fiume, tra Vicovaro e Mandela, circa 850 metri a monte del convento di S. Cosimato. Sulla sinistra dell’alveo fu costruita una chiusa artificiale, con un muro fornito di terrapieno di controscarpa, il quale veniva a formare un laghetto lungo 230 metri e largo 165.

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Lungo la valle dell’Aniene fino a Tivoli il canale seguiva il lato sinistro del fiume, per poi svoltare in direzione in direzione di Gallicano e dei Colli Albani, prima di puntare su Roma. Il suo percorso, quasi tutto sotterraneo e lungo 43 miglia (quasi 64 km), era assai tortuoso perché, per evitare la costruzione di ponti, nell’attraversamento delle valli, il canale le aggirava con lunghissime curve.

Un magnifico ponte dell’acquedotto dell’Anio Vetus, di epoca adrianea, si trovava a monte del paese di San Vittorino: costruito in opera mista di reticolato e laterizio, questo ponte era ancora intatto nel 1965, quando superava la valle con un doppio ordine sovrapposto di 22 arcate ciascuno, per una lunghezza di 156 metri. Purtroppo, sei arcate crollarono per lo scalzamento delle fondazioni praticato dalle acque del fosso ed altre due vennero demolite nel 1982 con la dinamite dai contadini, per la pericolosità che costituivano.

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Un bel tratto dell’acquedotto originario fu scoperto nel sottosuolo all’arrivo in città, subito fuori di Porta Maggiore: aveva pareti in opera quadrata di tufo ed era pavimentato e coperto da blocchi piani, mentre uno spesso intonaco di cocciopesto (opus signinum) ne impermeabilizzava l’interno. Dentro Roma proseguiva, sempre nel sottosuolo, in direzione di Termini, fino a superare le mura repubblicane circa all’altezza di Piazza Manfredo Fanti, dove si trovava una piscina limaria. Da questa parte della città, particolarmente alta, l’acqua veniva distribuita in ogni angolo urbano, anche grazie a 35 castelli di divisione, interessando ben 10 delle 14 regioni amministrative nelle quali era diviso l’abitato. Un ramo importante tornava indietro, sul lato interno delle mura repubblicane, terminando in un castello di distribuzione presso la Porta Esquilina delle stesse mura, cioè all’arco di Gallieno presso la chiesa di San Vito.

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L’Anio Vetus, nonostante il merito d’aver portato acqua abbondante a Roma da una regione così lontana e in un’età ancora cosi antica, presentò però proprio il difetto di una non evoluta esperienza a proposito: derivando l’acqua direttamente dal fiume, esso soffriva d’estate della carenza derivata dal regime torrentizio e, soprattutto, si intorbidava in caso di piogge e di piene. In età imperiale poi, in seguito alla forte urbanizzazione alla quale andò soggetta la zona di Subiaco, finì proprio con l’inquinarsi, tanto da venire destinato soprattutto alle fontane di lavaggio.

AQUA MARCIA

L’acquedotto fu costruito 127 anni dopo l’Anio Vetus, nel 144 a.C., in appena quattro anni di lavoro, ad opera del pretore Quinto Marcio Re. Aveva un percorso di 61 miglia e 710 passi, cioè 91,400 km, e prendeva anch’esso l’acqua dall’alta valle dell’Aniene, da sorgenti purissime che per bontà sono sempre state vantate nella storia di Roma ed usate come termine massimo di paragone per tutte le acque che, da quel momento in poi, verranno portate in città. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, la descrive come la più famosa di tutte le acque del mondo e la prima per freschezza e salubrità, dono fatto dagli dei alla città di Roma.

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Il volume dell’Aqua Marcia era di 4.690 quinarie, cioè 188.000 mc nelle 24 ore, e la ricchezza delle fonti era tale che oltre 300 quinarie non venivano immesse nel canale, ma disperse. Numeri come questi fanno comprendere come mai l’Aqua Marcia vantò anche per secoli il primato di portata fra gli acquedotti romani, che verrà in seguito superato solo dall’Anio Novus.

Inoltre fu portata l’acqua in Roma ad un livello fino a quel momento impensabile, con il canale posto circa 10 metri sopra il precedente acquedotto, l’Anio Vetus, che era tutto sotterraneo; l’Acqua Marcia si sollevava invece fino a 16 metri sul piano stradale, arrivando a Roma per Porta Maggiore, così da giungere ad una quota sopraelevata nel punto più alto della città e distribuirsi più comodamente che mai per tutto l’abitato.

Per portare l’acqua ad una quota di distribuzione cosi rilevata, fu impiegato per la prima volta nell’ingegneria romana l’arco continuo, come dimostrato dalla lunga fila di arcuazioni che si rilevavano per la campagna da Roma Vecchia sulla Tuscolana fino a Porta Maggiore ed oltre fino al Viminale, per 9 km di percorso. Roma è al massimo della sua gloria, essendo vicinissimi all’epoca della distruzione di Cartagine (146 a.C.) ed al pieno affermarsi ormai di Roma nel proprio ruolo di padrona del Mediterraneo: la costruzione di una così grande opera pubblica, per qualità ed impegno finanziario (8 milioni di sesterzi), veniva a rappresentare un significativo emblema di conquista tecnica e civile davanti al mondo intero.

L’acquedotto venne restaurato all’inizio del I secolo a.C. ad opera di Caio Maricio Censorino e Lucio Marcio Filippo, discendenti di Quinto Marcio Re, e quindi da Augusto e Marco Agrippa tra l’11 ed il 4 a.C. Questi ne potenziarono anche la portata, captando nuove purissime vene sotto l’attuale paese di Agosta, che proprio da Augusto prende il nome (Augusta). L’opera di Augusto è celebrata con un’iscrizione sull’arco della Marcia che scavalca la via Tiburtina, inglobata poi nelle mura di Aureliano; sulla stessa porta, altre iscrizioni ricordano il restauro effettuato nel 79 d.C. da Tito e nel 213 d.C. da Caracalla, che ne potenziò ulteriormente la portata mediante nuove sorgenti captate presso Arsoli (Fons Antonimianus) e che ne fece derivare un ramo per le sue Terme di Caracalla. Ulteriori restauri sono documentati anche all’epoca di Diocleziano, che ne derivò poi un altro ramo, detto Aqua Giovia, per le terme da lui costruite sul Viminale.

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Le sorgenti sono indicate da Frontino al XXXVI miliario della via Valeria oppure al XXXVIII miliario della via Sublacense: siamo nella zona dei laghetti di Santa Lucia e Serena, tra Arsoli ed Agosta, ancor oggi usati dal nuovo acquedotto Marcio. Le acque delle sorgenti, che sono freddissime, si componevano in un laghetto artificiale dal quale principiava l’acquedotto: racconta Tacito negli Annales che a Nerone, che in un giorno d’estate aveva voluto baldanzosamente attraversarlo a nuoto, prese un accidente, per cui la cosa fu interpretata come manifestazione dell’ira divina, avendo egli profanato la sacralità delle fonti.

L’acquedotto seguiva dapprima la sponda destra del fiume, per poi sfiorare Vicovaro ed affiancarsi all’Anio Vetus, che però era ad una quota più bassa. Aggirate poi le montagne di Tivoli, come aveva già fatto l’Anio Vetus, ed assieme ancora all’Aqua Claudia ed all’Anio Novus quando anche questi acquedotti vennero costruiti, attraversava la regione collinare di Gallicano, superando le valli con una serie di ponti spettacolari in maggior parte ancora esistenti, come Ponte San Pietro o Ponte Lupo. Il Ponte Lupo è una delle opere più colossali che restino dell’ingegneria romana: per le gigantesche proporzioni, le grandiose masse murarie, le arcate che si sovrappongono in un intreccio di epoche diverse, la fittissima vegetazione che lo ricopre, offrono uno scenario tale da costituire una suggestione unica per il visitatore. La costruzione sbarra la valle come una diga convessa, lunga circa 115 metri, larga da 18 a 25, alta fino a 30.

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Dopo aver girato sul versante delle Capannelle ove erano le piscine limarie, puntando su Roma l’acquedotto fuoriusciva dal terreno sulla via Tuscolana, dove ancora si conserva assai bene: l’opera è in blocchi di tufo, di peperino o tufo rosso In leggero bugnato, con i piloni larghi più di 2,5 metri.

Al canale dell’acquedotto furono sovrapposti poi, alla fine dell’età repubblicana, i canali degli acquedotti Tepula e Iulia, cosi da portarli ad alta quota in città senza bisogno di costruire altre arcuazioni: guardando i resti dell’acquedotto, pertanto, sugli archi si vedono correre tre canali sovrapposti, identificabili dal basso verso l’alto come Marcia, Tepula e Iulia.

Purtroppo questa meravigliosa opera su archi è oggi assai scarsamente conservata, perché servì di base alla costruzione dell’acquedotto Felice, eretto da Sisto V sul finire del XVI secolo, il quale, essendo condotto a quota più bassa, trinciò tutta la parte superiore del monumento, riutilizzandone il materiale e mantenendo solo le fondazioni delle pile, che furono inglobate nelle nuove. L’opera antica si conserva ancora con archi integri, che valgono a darci un’idea del lavoro originario, oltre che al casale di Roma Vecchia, in vicolo del Mandrione all’incrocio con via di Porta Furba, a Porta Maggiore ed a Porta Tiburtina ove è stata inglobata nelle mura Aureliane.

La Marcia ebbe anche il privilegio di essere condotta al Campidoglio, al posto dell’Anio Vetus che invece era stato indicato dalla sacra lettura dei Libri Sibillini: la fontana terminale fu costruita sulla vetta del colle, di fronte al lato posteriore del tempio di Giove Ottimo Massimo. Un altro ramo importante dell’acquedotto Marcio era costituito dall’Aqua Antoniniana, condotta da Caracalla da fuori città, circa da Porta Furba, e che con un lungo giro a sud dell’abitato raggiungeva le terme costruite da quell’imperatore: un resto monumentale di questo acquedotto è costituito dal cosiddetto Arco di Druso, subito dentro Porta San Sebastiano, dove fu incorporato nella controporta delle fortificazioni di Aureliano.

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AQUA TEPULA E AQUA IULIA

L’Aqua Tepula fu portata a Roma nel 125 a.C. dai censori Gneo Servilio Cepione e Licio Cassio Longino. Prendeva nome dal tepore delle sorgenti, che scaturivano in zona vulcanica alle falde dei Colli Albani: il sito è indicato ancora esattamente da Frontino, che lo descrive nell’agro Lucullano in territorio di Tuscolo, all’altezza del X miliario della via Latina. Le sorgenti sono state identificate in quelle di Pantanelle e dell’Acqua Preziosa, alle pendici dei rilievi tra Grottaferrata e Marino, che presentano una temperatura appunto tiepida, essendo circa sui 16-17 gradi. 

Le sorgenti erano raccolte in un laghetto ed immesse in un canale sotterraneo in direzione di Roma, con un percorso di circa 20 km. Nel 33 a.C. Agrippa, conducendo a Roma l’Aqua Iulia che originava da vicine sorgenti, ne ristrutturò completamente l’opera in connessione con l’altra, utilizzando nuove sorgenti sotto Tuscolo, che Frontino indica al XII miliario della via Latina: esse si identificano nelle ricche vene di Squarciarelli, sopra Grottaferrata, circa 3 km a monte di quelle della Tepula.

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Il nome Iulia fu dato all’acquedotto in onore di Caio Giulio Cesare Ottaviano, ossia del primo imperatore Augusto. Il condotto incontrava la Tepula mischiando fra loro le due acque in un unico canale, che con una condotta sotterranea giungeva ad una grande piscina limaria posta fra il Vi e il VII miliario della Via Latina, cioè alle Capannelle.

Secondo le indicazioni di Frontino, la Tepula portava 400 quinarie di acqua (16.000 mc nelle 24 ore) e la Giulia 1.206 (48.000 me), cosicchè la loro somma risultava di 1.606 quinarie (64.000 me nelle 24 ore).

La Tepula e la Iulia, puntando dalle Capannelle su Roma, presentavano i canali tra loro sovrapposti e come detto, per giungere in città a quota rilevata, montavano al di sopra dell’Acquedotto Marcio, che fuoriusciva dal terreno con la sua teoria di archi continui. In questo modo si venne a risparmiare la costruzione di una nuova serie di archi, ma si dovettero rafforzare gli archi dell’Aqua Marcia con muri in opera reticolata per adeguarli a sostenere il nuovo sforzo.

Sappiamo da Frontino che il condotto originario della Tepula arrivava fino al Campidoglio, presumibilmente assieme alla Marcia. L’Aqua Iulia invece, dividendosi in 17 castelli, riforniva le regioni urbane II (il Celio), la V (l’Esquilino), la VI (Viminale e Quirinale), l’VIII (Fori e Campidoglio), la X (il Palatino), la XII (il piccolo Aventino); in origine una diramazione della Iulia portava 162 quinarie anche al Celio, prima di essere sostituita in ciò dall’Aqua Claudia.

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AQUA VIRGO

Agrippa, il genero di Augusto, si impegnò con dedizione nel mantenere l’approvvigionamento idrico di Roma e nel dotare la città di ulteriori e adeguate risorse. Ad Agrippa si deve il progetto di espandere la vecchia città, ancora chiusa nel perimetro delle mura repubblicane, nel Campo Marzio, facendo di questo il modello della nuova pianificazione urbana. Tale nuovo immenso settore cittadino, che veniva a costituire la IX e, con il Pincio, gran parte della VII regione della divisione amministrativa della città data da Augusto, fu dotato di grandi quantità di acqua da parte di Agrippa, mediante la costruzione di un nuovo acquedotto, il Vergine.

Oggi, dopo duemila anni, l’acquedotto è ancora quello che rifornisce, nel cuore dell’attuale città, la Barcaccia di Piazza di Spagna, la Fontana di Trevi e la Fontana dei Quattro Fiumi di Piazza Navona. Esso, infatti, è l’unico degli antichi acquedotti rimasto ininterrottamente in funzione, grazie al condotto quasi tutto sotterraneo, che lo ha sottratto al danneggiamento degli uomini, ed alla sapiente livellazione, che lo ha mantenuto autosufficiente nei lunghi secoli dell’abbandono da parte di ogni forma di manutenzione.

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L’acquedotto fu inaugurato il 9 giugno del 19 a.C. e prendeva le acque dalle sorgenti di Salone, un luogo palustre posto all’VIII miliario della Collatina antica, non lontano dall’Aniene. Frontino informa che era capace di 2.504 quinarie, pari a 102.000 mc di acqua nelle 24 ore, e che il sistema di captazione non terminava alle sorgenti ove principiava l’acquedotto, ma esso si alimentava anche lungo il percorso con nuove acquisizioni, con un vasto sistema di raccolta e di convogliamento delle acque di altre zone imbrifere attraversate.

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L’acquedotto ha una lunghezza di 19 km, quasi tutti sotterranei: fuoriuscendo dal Pincio passa per via del Nazzareno, ove si conserva un grande arco monumentale in blocchi di travertino sul quale l’iscrizione ricorda come l’opera fosse stata restaurata da Claudio, per poi passare nella zona di Fontana di Trevi, nei pressi della quale (Piazza Sciarra) c’era un altro arco monumentale, eretto anch’esso da Claudio per celebrare le sue vittorie sui Britanni, metà della cui iscrizione è conservata nei Musei Capitolini. Gli archi proseguivano per dov’è oggi la chiesa di Sant’Ignazio e terminavano alle Terme di Agrippa, dietro il Pantheon.

Frontino racconta che, delle 2.504 quinarie, 200 erano già erogate nel suburbio; delle 2.304 urbane, 1.457 andavano per le opere pubbliche, 338 ai privati, 509 alla casa imperiale. Sappiamo anche che un ramo raggiungeva Trastevere.

Essendo questo acquedotto rimasto in funzione, è quello che conosciamo meglio anche nel vivo del suo canale sotterraneo, anche perché, a differenza degli altri acquedotti abbandonati, è rimasto accessibile per le ispezioni ed i controlli statici. Il canale è largo in media 1,6 metri: costruito in muratura con struttura cementizia a paramento in opera reticolata, è costruito invece in galleria attraverso i banchi consistenti di tufo. Attraverso le colline suburbane raggiunge la profondità di 30-40 metri.

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Di estremo interesse è l’impianto di captazione delle sorgenti a Salone, che anch’esso è quello antico rimasto funzionante e che conosciamo per le ispezioni condottevi per ripulirlo e restaurarlo. Il sistema è costituito da una capillare tracimazione delle acque nel sottosuolo, che fluiscono per il vasto bacino imbrifero attraverso i banchi di pozzolana e di tufo vulcanico, concorrendo poco a poco a creare rivoli e polle gorgoglianti attraverso il terreno poroso e permeabile. In questo contesto sono stati costruiti, in maniera meticolosa, svariati cunicoli che, posti trasversalmente alle direttrici di falda, ne captano le acque e le convogliano come tanti ruscelli al canale primario.

Restauri furono condotti all’acquedotto da Tiberio, da Claudio, ancora da Costantino nel IV secolo, poi da papa Adriano I sul finire dell’VIII secolo, e a partire dal XV secolo da Nicolò V, da Sisto IV, da Pio IV e Pio V, da Benedetto XIV e Pio VI.

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AQUA ALSIETINA

Augusto, che aveva voluto il restauro di tutti gli acquedotti di Roma esistenti al suo tempo, nel 2 a.C. ne condusse lui personalmente uno nuovo, che prendeva le acque dal piccolo Lago di Martignano che, chiamandosi Alsietinus, diede il nome all’acquedotto stesso. L’acqua era però, come racconta lo stesso Frontino, di cattivo gusto e poco salubre, cosicchè venne destinata solo a scopo irriguo, soprattutto ai famosi giardini di Cesare a Trastevere, e per la naumachia, cioè all’edificio per gli spettacoli navali eretto dallo stesso Augusto sempre a Trastevere. L’uso dell’acqua era anzi precipuamente per questo scopo ludico del popolo romano, che Augusto celebra nell’iscrizione marmorea (Res Gestae) che ricordava le sue imprese nel suo Mausoleo funebre.

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La portata dell’acquedotto era di 492 quinarie, cioè di 16.000 mc nelle 24 ore, di cui 254 quinarie di proprietà imperiale e 138 concesse ai privati. Il percorso dell’acquedotto era lungo 22.172 passi, cioè 33 km, e quasi tutto sotterraneo: se ne conoscono solo il primo tratto, dal lago a Santa Maria di Galeria, dopo l’incrocio con la via Braccianense, e l’arrivo in città dal Gianicolo.

Il naturale abbassamento verificatosi del livello del lago di Martignano in età tardo-antica, valutato a quanto pare a ben 29 metri di differenza, lasciò a secco il canale dell’acquedotto, che fu così abbandonato: ancor oggi, il livello del lago si trova a 12 metri sotto quello dell’imbocco dell’acquedotto augusteo.

AQUA CLAUDIA

Roma era divenuta, con l’età di Augusto, una vera megalopoli, con una popolazione superiore al milione di abitanti: secondo Cassio Dione, prima di morire Augusto disse di aver ricevuto una città di mattoni e di essere pronto a lasciarla di marmo, frase molto significativa per comprendere il rinnovamento monumentale della città, dietro al quale vi era stata una straordinaria ricostituzione dell’intera struttura edilizia pubblica.

Se Augusto aveva saputo potenziare l’afflusso idrico a Roma, in modo da far fronte alle accresciute esigenze di una città divenuta unica, si deve tuttavia ai suoi successori della dinastia giulio-claudia il merito di aver dotato la città di un quantitativo d’acqua che ne permise il fasto urbanistico e l’abbondanza nei consumi da allora rimasti emblematici nella storia della civiltà.

Questo fu ottenuto con la realizzazione di opere, come l’Acquedotto Claudio e l’Anio Novus, superbe e tecnicamente perfette, che per soddisfare tale fabbisogno hanno tranciato da parte a parte il Lazio, con percorsi quanto possibile rettilinei attraverso terreni spesso assai poco propizi, conducendo profonde gallerie nelle viscere dei monti e arditi viadotti a cavallo delle valli.

I due acquedotti furono iniziati dal successore di Tiberio, Caligola, nel 38 d.C., e terminati da Claudio nel 52. Dal nome dell’imperatore che ultimò l’impresa, il più importante degli acquedotti fu chiamato Claudio; l’altro ebbe il più semplice nome di Anio dal fiume Aniene, dal quale derivavano le sorgenti, ma gli fu aggiunto dallo stesso Claudio l’appellativo di Novus, nuovo, per distinguerlo dal Vetus già in funzione ormai da più di tre secoli.

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L’Acquedotto Claudio conduceva a Roma acque particolarmente buone, captate dalle sorgenti Cerulea e Curzia, stimate appena inferiori a quelle della Marcia. L’impresa complessiva costò, come ci viene tramandato da Plinio il Vecchio, 350 milioni di sesterzi.

Le sorgenti venivano indicate da Frontino al XXXVIII miliario della via Sublacense, dove cioè sgorgano anche quelle della Marcia, seguendo per 300 passi una diramazione sulla sinistra. Lo stesso Frontino informava che il sistema di captazione si completava con allacciamenti ad altre vene in possibile interscambio con l’Acquedotto Marcio, in modo da aumentare la capacità di questo o di quello a seconda dell’occorrenza. Le sue acque erano anch’esse cosi buone che potevano stare pressoché alla pari di quella della Marcia che, ricordiamo, gli antichi stimavano la migliore di tutte: tanto che l’aggiunta non mutava la straordinaria qualità di quella.

Sempre grazie a Frontino è possibile determinare che le sorgenti proprie dell’Acqua Claudia avevano una capacità di 4.607 quinarie, pari a 184.000 mc nelle 24 ore, e che il condotto era lungo complessivamente 46.406 passi, cioè 69 km, dei quali 54 km in canale sotterraneo e 15 km sopra terra.

L’acquedotto, iniziato il suo percorso verso Roma seguendo la valle dell’Aniene, alla chiusa di San Cosimato passava con un ponte alla destra del fiume, che continuava a seguire fino a Vicovaro mantenendosi alto sullo stesso lato. Proprio sotto Vicovaro l’Aqua Claudia scavalcava di nuovo il fiume con un ponte di cinque arcate, e da qui proseguiva sulla sinistra del fiume fino a Tivoli, affiancandosi agli altri acquedotti. Resti di viadotti imponenti si conservano al fosso della Vallana ed al fosso della Noce prima di Castel Madama, dei quali il secondo lungo 135 me condotto a due ordini di arcate sovrapposte, in laterizio, dovuto ad un restauro di età severiana.

Dopo aver aggirato i monti di Tivoli ed attraversato i rilievi di Gallicano, andando verso i Colli Albani si trovano ancor oggi opere di notevole spessore, come il ponte Diruto sul fosso dell’Acqua Nera. Alle Capannelle esistono ancora oggi le grandi piscine limarie, oltre le quali l’acquedotto si rileva man mano sopra il piano di campagna, con quegli archi possenti che da duemila anni distinguono il paesaggio della Campagna Romana sul versante meridionale della città.

Dove l’acquedotto è spezzato, in sezione si vedono assai bene, nella posizione più alta, i due canali sovrapposti: il canale dell’Aqua Claudia è subito sopra gli archi, mentre al di sopra si vede il canale dell’Anio Novus.

Osservando il percorso scoperto, è facile distinguere la manutenzione dell’acquedotto in epoca imperiale (da Settimio Severo a Diocleziano) con grandi opere di rinforzo e di restauro: i pilastri e gli archi vennero rafforzati, ove necessario, sia rendendo più solidi i fornici con anelli più interni, sia rifasciando completamente i piloni e gli archi con murature piene.

Nei secoli il rivestimento di questo acquedotto è stato smantellato per riusarne il materiale nelle nuove costruzioni: quest’opera di spoglio si può valutare in particolar modo nel tratto che va da Tor Fiscale a Porta Furba, dove la via Tuscolana attraversa gli acquedotti, mentre oltre questa è un tratto di oltre un chilometro perfettamente conservato, per un’altezza di quasi 20 metri, con la struttura originaria tutta rafforzata dai tanti restauri appena citati.

Acquedotti Romani, Gli acquedotti romani (2/2), Rome Guides

Un punto caratteristico del percorso degli acquedotti è Tor Fiscale, che prende il nome da una torre del XIII secolo alta circa 30 metri, impostata scenograficamente a cavallo dell’incrociarsi degli archi della Claudia con quelli della Marcia. In questo luogo, dove passava a lato di tali arcuazioni l’antica via Latina, i due acquedotti venivano ad incrociarsi due volte, chiudendo uno spazio trapezoidale di 300 metri di asse massimo. Il posto porta anche il nome di Campo Barbarico perché in questo anello si rinchiusero, accecando le arcate degli acquedotti e fortificandovisi, i Goti di Vitige nel famoso assedio di Roma del 537, allorché con altri accampamenti cercavano di isolare la città difesa da Belisario, il grande generale di Giustiniano. Fu durante questa terribile guerra che i barbari trinciarono i principali acquedotti della città.

Continuando la descrizione del percorso dell’acquedotto di Claudio, arriviamo a Porta Maggiore, che è stata poi inglobata nelle Mura Aureliane del III secolo d.C. La porta fu concepita come una mostra monumentale degli acquedotti, per chi giungeva a Roma dalle vie Prenestina e Labicana: lo scavalcamento delle due strade ad opera dell’acquedotto di Claudio prendeva la forma di un vero arco di trionfo a due fornici, interamente costruito in blocchi di travertino in forte bugnato, alto 25 metri. Sopra gli archi, l’attico è scandito in tre fasce, entro le cui due superiori corrono rispettivamente il canale dell’Anio Novus, più in alto, e dell’Aqua Claudia, al centro. Nella fascia più alta è scolpita l’iscrizione originale di Claudio, celebrativa degli acquedotti, mentre in quella al di sotto è l’iscrizione che ricorda il restauro loro fatto da Vespasiano e, in quella ancora più bassa, il restauro di Tito.

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Un ramo assai importante dell’Aqua Claudia si staccava da Porta Maggiore in direzione del Celio, prendendo il nome di acquedotto Celimontano o Neroniano dal suo costruttore, Nerone appunto, che lo aveva portato ad alimentare una fontana monumentale che si versava nel maestoso lago artificiale che allora occupava il posto del Colosseo e nel quale si specchiava la sua Domus Aurea. Tali arcuazioni, ancora altissime, si conservano abbastanza bene lungo Via di Santo Stefano Rotondo e presso la chiesa di Santa Maria alla Navicella. L’acquedotto fu poi prolungato da Domiziano al Palatino, su due ordini di arcate spettacolari attraverso la valle di San Gregorio.

ANIO NOVUS

Assieme all’Acquedotto Claudio, come già detto, venne costruito anche l’Anio Novus. Entrambi erano alimentati dall’alto corso dell’Aniene e fu proprio l’Imperatore Claudio, inaugurandoli nel 52 d.C., a denominare questo Anio dal nome del fiume, aggiungendogli l’appellativo di Novus, per non confonderlo con l’Anio più antico, costruito più di trecento anni prima ed al quale venne ora ad aggiungersi l’appellativo di Vetus, cioè vecchio.

Le sorgenti indicate da Frontino si trovavano al miliario XLII della via Sublacense, cioè circa 6 km a monte di quelle della Marcia e della Claudia, poco a valle di Subiaco: il problema era che la zona era ricca di terre fertili e ben coltivate, che facevano facilmente intorbidare le acque, cosicchè fu necessario costruire una piscina limaria prima di immetterle nell’acquedotto, in modo da farle riposare e depurare.

Alle acque dell’acquedotto si aggiungeva, all’altezza delle sorgenti della Claudia ma dalla parte opposta del fiume, il Rivus Herculeus, derivato da sorgenti di ottima qualità.

Proprio per eliminare questi inconvenienti, Nerone decise di costruire tre laghetti artificiali, detti Simbruina Stagna, che rappresentarono anche maestosa scenografia per la sua celebre villa. Le tre dighe, costruite da Nerone a sbarramento dell’Aniene per creare questi laghi, si ponevano una sopra l’altra in modo che l’acqua dell’una travasasse nell’altra: pochi resti di esse sono stati riconosciuti alla Cartiere di Subiaco ed all’attuale Ponte Rapone, anche detto di San Mauro, poco a valle del monastero di Santa Scolastica.

Il condotto fino a Roma era lungo 58.700 passi, cioè 87 km, dei quali Frontino specificava che 49.300 (73 km) erano in canale sotterraneo e 9.400 (14 km) in opera rilevata sopra terra: gli ultimi 11 km appartenevano in realtà agli archi dell’acquedotto di Claudio, al quale come detto l’Anio Novus si sovrapponeva per giungere in città ad alta quota.

L’acquedotto, iniziando il suo percorso verso Roma, seguiva la sinistra della valle dell’Aniene, ad una quota più alta di tutti gli altri acquedotti e tagliando con superbi rettifili in galleria le anse della costa montana. Sotto Castel Madama il percorso divergeva dagli altri, aggirando da levante i poggi di Monte Pavese e Monitola, per poi raggiungerli di nuovo al ponte degli Arci, nella valle Empolitana, che superava con un grandioso ponte, lungo 300 metri e costituito da almeno 12 arcate, delle quali le cinque centrali, alte fino a 30 m, erano a due ordini: del ponte restano gli archi delle testate, con un colossale arco rilevato su enormi piloni laterizi, sotto il quale passa la via Empolitana e sopra il quale si imposta pittorescamente una torretta medievale.

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Aggirati i monti di Tivoli, l’acquedotto si portava con gli altri nella zona di Gallicano; il lungo giro attorno ai Monti Tiburtini fu però abbreviato di oltre 7 km con un’impresa colossale mediante una variante, che con un percorso quasi rettilineo tagliava da nord a sud la valle Empolitana attraverso il Passo dello Stonio (è quello oggi percorso in galleria dall’autostrada dell’Aquila).

Sul versante dei monti Tiburtini che guardano a Gallicano il ramo originale dell’acquedotto e la sua variante si riunivano in una vasta cisterna laterizia di età claudia: oltre che per far decantare le acque, la cisterna serviva anche, all’occorrenza, per aggiungere acqua ai canali della Claudia, della Marcia e dell’Anio Novus, alle cui condotte si concatenava e che scorrevano un poco più in basso.

Proseguendo sul percorso dell’Anio Novus, nella zona di Gallicano si trova il ponte più monumentale, ossia quello di Sant’Antonio, lungo circa 125 metri e alto fino a 33: è uno dei più bei ponti romani mai costruiti e mostra la struttura originaria di Claudio in opera quadrata di tufo e di calcare, con rifacimenti che giungono fino al V secolo.

Nel suburbio romano, sormontando gli archi che sostenevano l’acquedotto di Claudio, l’Anio Novus si presenta come il più alto di tutti gli acquedotti antichi, giungendo in città ad oltre 52 metri dì quota.

AQUA TRAIANA

L’età di Traiano coincise con la massima espansione dell’Impero Romano, che si estendeva oltre il Danubio, fino al Mar Rosso, al Mar Caspio e al Golfo Persico; immense nuove ricchezze giungevano ogni anno a Roma, e spesso venivano utilizzate per rinnovare il fasto della città.

Nel contesto di questa intensa attività edilizia si sviluppò anche una solerte attività per rendere ancor più efficienti e funzionali i servizi pubblici, dei quali fece parte anche la riorganizzazione delle acque urbane grazie all’Acquedotto Traiano.

Da Anguillara l’acquedotto, in direzione di Roma, si segue assai bene, in quanto fu ripristinato da Papa Paolo V all’inizio del XVII secolo: esso costeggia dapprima il fosso Arrone, fino ad incrociare la via Braccianense, che poi segue fino alla Cassia per poi affiancare via Trionfale, via della Pineta Sacchetti e via del Casale di San Pio V fino all’Aurelia antica, lungo la quale se ne possono ancora vedere alcune porzioni.

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Prima della moderna Porta San Pancrazio, dove si trovava la Porta Aurelia delle mura tardoimperiali, si trovava il castello di distribuzione, che quando fu scoperto alla fine del secolo scorso aveva ancora al suo posto sessanta condutture di piombo, molte delle quali recavano stampati i nomi di liberti di Traiano, addetti alla manutenzione dell’acquedotto. La mostra dell’acquedotto sembra fosse sotto l’attuale Casino di Villa Spada e l’opera è raffigurata in una moneta appositamente coniata da Traiano, che mostra la figura semisdraiata di un dio fluviale sotto un grande arco sostenuto da colonne. La mostra moderna è invece costituita dal famoso Fontanone del Gianicolo.

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Il percorso complessivo dell’acquedotto è valutato in 57 km e la sua portata in 118 mc nelle 24 ore. Una particolarità dell’acquedotto è stata quella di aver in parte sfruttato le sue acque, grazie al balzo di quota offerto dal Gianicolo, per fornire forza motrice ad una serie di molini da grano, certamente già esistenti nel VI secolo.

L’acquedotto fu tra quelli troncati da Vitige nell’assedio gotico del 537 e fu restaurato da Belisario su tutto il percorso. Troncato di nuovo dal longobardo Aistulfo, fu restaurato da papa Adriano I nel 772 ed ancora da Gregorio IV nell’846. L’acqua sicuramente scorreva ancora nel IX secolo e, sebbene abbia dovuto subire occasionalmente anche lunghe interruzioni nei secoli successivi, lo si cercò di mantenere sempre in funzione a servizio del Palazzo Vaticano, ad uso del quale probabilmente funzionò nel XIV e nel XV secolo: fu però solo ad opera di Papa Paolo V che fu definitivamente ripristinato, con la solenne inaugurazione avvenuta nel 1612.

AQUA ALEXANDRINA

Questo fu l’ultimo dei grandi acquedotti di Roma, costruito da Alessandro Severo nel 226 d.C., come ricordano le monete celebrative allora coniate. La crisi dell’Impero Romano era alle porte, e già aleggiava drammaticamente sul mondo antico: Roma era tuttavia ancora nel pieno della sua parabola politica e gli imperatori gareggiavano nell’abbellirla. La spettacolarità dei suoi monumenti continuava ad accrescersi, rappresentando il perfetto risultato di secoli di cultura e di colossali ricchezze.

Il nuovo acquedotto si inserisce in tanta esuberanza architettonica ed è degno dei migliori precedentemente costruiti, dotato delle nuove capacità tecniche offerte dal tempo, che grazie all’uso del laterizio permettono di condurre gran parte del Suo percorso sopraterra, mediante arcuazioni continue.

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Esso ebbe un percorso di 22 km e la sua portata si valuta in 22.000 mc nelle 24 ore. Captava le sorgenti poste a sud-est di Roma, alle falde dei Colli Albani tra Montefalcone e Monte Massimo, a nord di Colonna, che poi verranno riprese da Papa Sisto V nel Cinquecento, per portare a Roma (spesso riutilizzando i medesimi canali di captazione) il primo acquedotto dell’evo moderno, l’Acqua Felice.

L’acquedotto, che ancora si conserva quasi tutto sul suo percorso verso la città, attraversava Pantano Borghese con 177 arcuazioni, quasi tutte ancora esistenti, poi Torre Angela con 34, Valle Lunga con 50, La Mistica con 22, Tor Tre Teste con 28, Case Calde con 120, Centocelle con 140, la Marranella con 52 arcuazioni. Gli archi di Case Calde e di Centocelle raggiungono la massima altezza sul terreno, con circa 25 metri. L’acquedotto entrava a Roma attraverso Porta Maggiore.

L’acqua era diretta al Campo Marzio, passando per Viminale e Quirinale: meta ultima erano le Terme Neroniane, tra il Pantheon e Palazzo Madama, ricostruite sontuosamente dallo stesso Alessandro Severo e da lui ridenominate Alessandrine.

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