Il Marchese del Grillo

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IL MARCHESE DEL GRILLO

Ogni romano che si rispetti conosce a memoria qualche aneddoto sul Marchese del Grillo, personaggio a metà strada fra Zorro e Rugantino, che si divertiva a sconvolgere con le sue beffe ed i suoi scherzi il quieto vivere di Roma: le pigne tirate in testa agli ebrei che passavano per strada, le monete arroventate distribuite con generosità al poveri, per non parlare dell’estrosità di quel giorno che, invitato a pranzo da un nobile e presentatosi sporco e cencioso, fu sbattuto fuori, solo per ritornare nella sala del banchetto con splendide vesti indosso e con in mano un ancor più ricco vestito, stracolmo di cibi e bevande, per spiegare in tal modo come l’invito non fosse stato per lui ma “per le sue vestimenta”.

Secondo la tradizione, però, l’episodio più clamoroso è quello che riguarda un povero carbonaio di nome Giachimone Baciccia. Un giorno il nobiluomo romano lo trovò ubriaco, steso sui gradini più bassi d’una scalinata. Lo fece allora trasportare nel suo palazzo, qui lo fece rivestire con abiti principeschi, riverire e scarrozzare per la città. Alle deboli proteste del carbonaio che tentava di affermare la propria identità, il Marchese lo accusò di essere uscito di senno, minacciando di farlo rinchiudere in manicomio. Dopo un giorno e una notte di baldoria, quando ormai il malcapitato Baciccia aveva preso gusto alla nuova vita, lo fece ubriacare di nuovo e lo lasciò steso sugli stessi gradini dove lo aveva raccolto, come a dire che la vita stessa è in realtà un sogno increscioso.

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REALTÀ O FINZIONE?

Queste, e molte altre, le sue beffe: rapide e imprevedibili, dissacranti e surreali, spesso argute, più spesso crudeli.

Ma è veramente esistito questo personaggio che, dall’alto della sua ricchezza e potenza, architettava scherzi con squisita arte ironica, ribelle a ogni regola? È certamente esistito, ma separare la realtà dalla leggenda è tuttavia impresa ardua.

Tutti gli scrittori che ne hanno affrontato la figura, da Giovagnoli a Gigi Zanazzo a Ceccarius, dopo aver ripercorso la sequela di scherzi da lui architettati o a lui attribuiti, concludono il discorso tra reticenza e imbarazzo, non essendo riusciti a stabilire con esattezza il suo nome, la data precisa della nascita e sotto quale Pontefice sia avvenuta la sua morte. Sottoposte al vaglio di una critica più rigorosa le poche notizie possedute si rivelano manchevoli e contraddittorie. Si ha l’impressione che quanti hanno affrontato l’argomento non abbiano fatto altro che copiarsi a vicenda, e ripetere stancamente episodi già noti, al punto che qualcuno ha finito col chiedersi se il bizzarro Marchese sia realmente esistito, e non sia piuttosto un personaggio leggendario creato dalla fantasia popolare.

Interessanti, in tal senso, le conclusioni del Giovagnoli: “Quantunque non mi sia riuscito di apprendere, per quante ricerche abbia fatte, il suo nome né la data precisa della sua nascita, ho potuto verificare dalle affermazioni recise de’ suoi discendenti che egli è un personaggio storico realmente esistito, e che molte delle bizzarre avventure, dalla leggenda popolare unite al suo nome, fan parte effettivamente delle gesta compiute da quest’uomo che io sarei disposto a chiamare l’ultimo e il più stravagante dei feudatari romani”.

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LA CASATA DEL GRILLO

Dalle parole dell’autore, sembra chiaro che sia esistita una casata del Grillo. Il Bertini, nella sua Storia delle famiglie romane, riferisce che i Del Grillo erano originari di Gubbio, insigniti del titolo di Marchesi e stabilitisi a Roma nel XVII secolo. Nel 1641 un Carlo del Grillo fu Conservatore in Campidoglio e Priore dei Caporioni, mentre nel 1646 lo fu Antonio del Grillo.

Le notizie sono però decisamente contraddittorie.

Una traccia rinvenuta nell’Archivio Capitolino induce infatti a collocare altrove questa provenienza. In un rogito del notaio Campana, datato 18 maggio 1574 si legge infatti “Francesco, fu Giovanni del Grillo, della diocesi di Fiesole”. Il dedalo si ingarbuglia ancor di più leggendo un documento del 1689 che afferma come Cosimo, Pierfrancesco Maria e Onofrio del Grillo vennero dichiarati per decreto del granduca “essi et altri discendenti, nobili originari fiorentini”. Cosimo del Grillo, nel testamento del 20 luglio 1710, nei rogiti del notaio Francesco Vanni, istituisce erede universale dei suoi beni suo nipote Bernardo del Grillo, figlio di Onofrio. Questo Bernardo del Grillo fu custode della Porta Portese, mentre un Domenico del Grillo fu cavaliere del Giglio nel 1745. Un altro Onofrio del Grillo fu Consigliere nel 1758. Questo Onofrio del Grillo morì il 6 febbraio 1787 e fu l’ultimo della casata. Lasciò infatti un’unica figlia, Virginia, che sposò Girolamo Capranica; essa, non avendo figli, con atto del notaio Palombi dell’11 gennaio 1831 istituì erede il nipote Giuliano Capranica, con l’obbligo di assumere il nome e lo stemma dei Del Grillo.

Come potete capire, il dedalo genealogico è complesso e articolato.

Di un ramo dei del Grillo parla anche l’abate Francesco Valesio nel suo Diario di Roma. L’abate riferisce nel 1703: “È stato carcerato in Spagna il ricchissimo Marchese del Grillo, che qui possiede Monterotondo e Anguillara, sotto pretesto volesse fuggirsene in Portogallo”. E come non vedere un vago sentore di beffa tra le righe di un’altra notizia, datata 29 febbraio 1708? ”Si pubblicò falsa notizia che fosse morto alli Bagni di Lucca il Marchese del Grillo, con avere lasciati li suoi beni a quei Sovrani ne’ stati de’ quali egli li possedeva”.

LE CARICATURE

Il Codice Ottoboni, ospitato all’interno della Biblioteca Vaticana, contiene una serie di 99 caricature di vari personaggi, eseguite da Leone Ghezzi e databili fra il 1744 ed il 1746. In mezzo ad abati galanti, prelati con la pappagorgia e mercanti gozzuti o gobbi, fissati con un tratto graffiante e impietoso, spuntano due grottesche figure che fanno al caso nostro.

Sotto la numero 96 c’è infatti scritto “Ill.mo Duca Grillo, huomo ricco assai, ma altrettanto bisbetico. La mattina fa visita a tutti i caffè e magna a quattro persone e pare goda ottima salute, peraltro si fa onore; marcia con bellissimi cavalli e bei legni, e delle volte è generoso e delle volte stretto, secondo che il cervello gli cricca. Fatto da me cav. Ghezzi il dì 8 novembre 1744”.

Sotto l’altra, invece, la didascalia recita: “Marchese del Grillo, padrone della Torre del Grillo con tutto il palazzo che sta sotto Monte Cavallo, ed anche dell’acqua la quale è perfettissima, che il volgo e i medici chiamano “acqua del grillo”. È un cavaliere ricchissimo tanto di denaro che di gioie, ma è tanto sordido che va per Roma a piedi e veste come un birbo, come si vede qui sopra; tanto nel tavolino che nel baullo sono borse di oro e di argento tutte con moneta, ed io cav. Ghezzi avendolo veduto alla processione del Corpus Domini nella chiesa del Gesù, tornato a casa, me ne sono lassato la memoria nell’ottava del Corpus Domini del mese di giugno 1745”.

IL PALAZZO DEL GRILLO

Da ciò viene la conferma dei due differenti rami della famiglia Del Grillo nella prima metà del 700, ma non ci viene fornito un nome preciso. Il Palazzo del Grillo si trova a Roma nell’omonima salita, e ad esso è annessa un’imponente torre di origine medievale, più volte rimaneggiata. Il palazzo, che ha stupendi ambienti settecenteschi e un giardino a più livelli con un teatrino ornato da putti di stucco, ha ospitato nel piano rialzato lo studio del pittore Renato Guttuso, mentre in quello nobile ha abitato per alcuni anni il soprano Anna Moffo.

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Meno noto è il luogo della tomba della famiglia Del Grillo. A San Giovanni de’ Fiorentini, nella prima cappella a destra entrando, v’è, tra vari stemmi spuri, una lapide latina che indica “il sepolcro dei Marchesi del Grillo”. Spulciando nell’Archivio del Vicariato risulta che vi furono seppelliti a metà Settecento due Marchesi del Grillo: Cosma nel 1711 e Bernardo nel 1757. Il primo potrebbe essere quello citato dallo scrupoloso abate Valesio in un altro passo del diario, datato 1709: “il palazzo Riario alla Longara, dove abitava il cardinal Grimani, è stato preso a pigione dall’agente del Marchese del Grillo, et hora s’addobba con tutta sollecitudine, dovendo venire a Roma il medesimo con la moglie che già prese in Genova et, essendo d’umore stravagante, la prima sera che doveano andare a letto assieme, vedendo che la dama voleva andare a dormire con la cuffia, come era suo costume, egli si pose la parrucca e, stato in un canto della stanza, la mattina per tempo prese le poste e se ne andò a Milano, non havendolo potuto indurre a ritornare le preghiere de’ parenti e degl’amici che lo arrivarono per strada”.

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Lo stravagante umore del Marchese in questione potrebbe risultare una buona traccia. Altri Autori, però, ci suggeriscono strade diverse: Giovagnoli fa nascere il nostro Marchese fra il 1730 e il 1740 (quindi non può essere il personaggio nominato dal Valesio) e parla insistentemente di un Bernardo del Grillo scapolo impenitente, che morì verso la metà del Settecento. Ora, il testamento di questo Bernardo, datato il 17 febbraio 1746, mostra una vena di bizzarria nell’inventario dell’eredità: oltre ad un numero infinito di orologi d’oro e d’argento (da saccoccia, da tavolo, da tavolino, con casse d’ebano o di altro legno), egli possedeva “non meno di venti tavoli di pietra con i piedi dorati, quattro piccoli di verde antico di un sol pezzo, altri due parimenti piccoli, tutti di un sol pezzo, di pietra nera, altri con i piedi di leone, sette dorati, uno di pietre connesse con piedi di noce.., inoltre un gran numero di bastoni con pomi d’oro, e di tabacchiere d’argento d’ogni specie”.

Chi è quindi il nostro Marchese del Grillo? Possiamo forse azzardare la supposizione che sia esistito non uno solo, ma una moltitudine di Marchesi Del Grillo, tutti burloni, stravaganti e un po’ pazzoidi, quasi fosse una caratteristica di famiglia. Una pruriginosità del comportamento che li portava a superare il limite, un modo di essere poi riassunto dalla fantasia popolare in un unico personaggio emblematico.

Una cosa comunque appare certa: questo fantomatico Marchese è vissuto nella Roma del Settecento, e quella che lo colloca nell’Ottocento è una variante tarda e approssimativa della tradizione.

IL MARCHESE DEL GRILLO E GLI EBREI

Che la comunità ebraica fosse, sotto certi punti di vista, invisa al ceto nobile, anche a causa del denaro preso a usura per coprire necessità di smisurata rappresentanza, è un fatto risaputo. I più aperti benevolmente li tolleravano, e l‘autorità papale vedeva nella sacca del ghetto un residuo storico di tempi antichi da sopportare, circoscrivendone la possibile influenza, ma senza infierire troppo, anche per salvare la faccia davanti alle nazioni europee.

Non mancavano comunque continui motivi d’attrito fra il popolino e la comunità ebraica, vista a volte come quinta colonna di chissà quale nemico, ed ancor più spesso come capro espiatorio. I commercianti cristiani accusavano “i traffichini del ghetto” di danneggiare i loro interessi con la mancanza di correttezza e talvolta di solvibilità: si trovano a tal proposito numerose querele e reclami indirizzati all’autorità papale. Il popolo lamentava la cupidigia dei mercanti ebrei, e i nobili avevano tutto l’interesse a soffiare sul fuoco, risultando spesso debitori di usurai israeliti.

Dal canto suo, l’autorità chiudeva molto spesso un occhio e talvolta persino tutti e due, soddisfatta del fatto che il popolino potesse sfogarsi in questo modo. Gli Ebrei divenivano quindi il capro espiatorio del malgoverno, della corruzione e della scandalosa disparità sociale dell’epoca, con una ristretta classe di nobili e privilegiati e un sottoproletariato mal nutrito, ignorante e rissoso.

Le “giudiate”, ossia le rappresentazioni di farse sulla “mala genìa degli ebrei” che si davano a volte nei teatri, e le “corse dei giudei” durante i giochi carnevaleschi obbediscono proprio a questa politica di basso sfogo, provvidenziale valvola sapientemente sfruttata dal potere. Ecco dunque che anche la leggendaria e clamorosa antipatia del Marchese del Grillo verso gli ebrei, vittime privilegiate di molti dei suoi scherzi, obbedisce agli umori dell’epoca.

All’ebreo Anania vendette i mobili del suo palazzo (un bajocco al pezzo) ma poi l’obbligò, secondo contratto, a comprare un comò di spille da balia. Lo scherzo più famoso è però un altro: a un artigiano commissionò un mobile civettuolo, pattuì il prezzo e, giunto al dunque, ritirò il mobile, ma gli diede la decima parte del dovuto. Quello protestò e lo citò in tribunale, ma il Marchese corruppe i giudici i quali gli dettero ragione, ma in pieno giorno le chiese del centro suonarono a morto, e si videro bandi sui muri, fatti affiggere dal burlone, con l’annunzio della morte di “Madama la Giustizia”.

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GLI SCHERZI DEL MARCHESE

Leggendo le cronache dell’epoca, è possibile facilmente comprendere come fosse la Roma del Settecento: una città degradata e sordida, di non più di centomila abitanti, che si aggiravano tra immani rovine antiche e splendide quinte barocche. Era la Roma del coltello, della fame, delle risse, della superstizione che faceva assalire e ridurre a brani le vesti di un frate morto in odore di santità, degli affogati a Tevere, dello spettacolo esemplare della mazzuola e squarto a Piazza del Popolo.

Nella Città Eterna spadroneggiava la Corte Pontificia, ancora splendida nei suoi cortei ma ormai friabile e molle, priva ormai di quel prestigio politico necessario a svolgere un ruolo di primo piano nel concerto delle nazioni. Nei palazzi si rinchiudeva una classe nobile rapace e ignorante, dedita al lusso e allo spreco di patrimoni fondiari, alla vuota concorrenza di macchine di fuoco e sfoggio di livree.

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Roma era una città stagnante, ammorbata dagli scarichi delle immondizie, asfittica di commerci, priva di un benché minimo tentativo di riforma economico-sociale: una specie d’inferno dantesco a più gironi sui quali brulicava una folla di procacciatori e accattoni, di prostitute e lenoni, di prelati e libertini.

È su questo scalcinato palcoscenico che scattano le beffe del Marchese del Grillo, a loro modo atroci e violente, strambe e imprevedibili. Esse rappresentano un capovolgimento della realtà, una sarcastica ribellione, la drammatica ricerca di un universo parallelo. Ecco come dovrebbero essere intesi i suoi celebri scherzi: un grido d’opposizione, un affronto, una scommessa, una rivalsa, un sogno di rivolta incarnato in una specie di eroe intoccabile, cui tutto è permesso.

Non per nulla più di una tradizione lo fa addirittura figlio del Papa! Sia quel che sia, a dispetto degli indizi lasciati qui e là come molliche di pane, l’identità del nostro Marchese del Grillo resta misteriosa. Forse anche questo fa parte del suo gioco finale, l’ennesima beffa ai danni dei curiosi.

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