Vittoria Colonna

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VITTORIA COLONNA

Vittoria Colonna nacque in anni di odio e guerra: la famiglia Colonna trascinò infatti la sua lotta con gli Orsini, barcamenandosi in un’Italia invasa da francesi e spagnoli.

Vittoria nacque a Marino nel 1490, nel feudo colonnese, proprio due anni prima della salita al soglio pontificio di Papa Alessandro VI Borgia. Suo padre era il celebre uomo d’arme Fabrizio, gran conestabile del Regno di Napoli: fu proprio lui che, a soli tre anni, la promise in sposa a Ferdinando Francesco d’Avalos, marchese di Pescara, suo coetaneo, legando così Vittoria ad un destino amoroso già segnato fin dalla tenera età. A diciannove anni avvennero le nozze, celebrate ad Ischia con gran fasto, con i cronisti a descrivere Vittoria vestita con “una veste di broccato cremisi e velluto con rami d’oro sovrapposti, ed una cuffia di stoffa d’oro, e, sopra, un berretto di stoffa cremisi con eguale ornamento d’oro massiccio, come la sua cintura. La severa bellezza di lei era in armonia col reale corteggio: sei nobili donzelle vestite di damasco turchino chiaro stavano al suo seguito”.

Questa “severa bellezza” nel giorno del matrimonio fa pensare che Vittoria Colonna non fosse veramente bella, nonostante i cronisti dell’epoca si sforzassero ad esaltarne “gli occhi color nero e come rivestiti tutt’intorno di lucido avorio”, le mani con dita molto lunghe e piccole unghie rosee, ed i “seni tondeggianti, più candidi dello stesso brillante argento, che a guisa di colombe giacenti si gonfiano a dolci intervalli”.

Molti altri cronisti erano più critici circa l’aspetto fisico di Vittoria Colonna, come ad esempio Filonico di Alicarnasso, che diceva chiaramente: “per non essere di gran beltade posseditrice, s’ammaestrava alla letteratura, provvedendosi così di beltà immarcescibile e non atta a mancare, come fan le altre, e a sfiorire con l’intervallo del tempo, che tutto divora e strugge”.

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L’AMORE PER FERDINANDO

In questo modo Vittoria Colonna, così “priva di beltade” ma innamoratissima del suo sposo, iniziò a coltivare il proprio amore per la poesia, coinvolgendo in quel gioco anche il marito Ferdinando, ancora non votato alla guerra. “Quando ancora la carriera delle armi e le facili avventure non lo avevano completamente trascinato per altre vie, si compiacque, poetando secondo la moda del tempo, di rendere omaggio alle qualità e ai gusti intellettuali della sposa”. I due vivevano sereni nel castello aragonese, sull’isolotto di fronte a Ischia Ponte, in una sorta di solitudine arcadica, a volte però vivacizzata da liete brigate e conviti letterari.

Vittoria era profondamente innamorata del suo cavaliere fiero e leggiadro, da lei definito “quel suo bel sole abbagliante, vivendo un suo sogno d’amore, del quale era convinta che anche il marito fosse preso. Lui però, assai bello, con il naso aquilino e la barba rossiccia, sembrava fatto apposta per piacere alle donne e non le fu pertanto troppo fedele, tanto che i cronisti raccontavano che “per una dama da lui ingravidata, in sua casa erano discordi et in maligno odio avvilupati fra loro”.

Alla fine, quando nel 1511 lo vide partire ambasciatore di Napoli per la corte di Madrid, Vittoria finì per tirare un sospiro di sollievo. “Vanne lieto, mio sol, vanne sicuro / con lieto augurio ovunque il ciel ti guida”, scrisse probabilmente in quella circostanza. L’esperienza fu però, per Ferdinando, assai travagliata: nel 1512 si ritrovò infatti, sotto le insegne del Re di Spagna, agli ordini del suocero nella spedizione contro i Francesi e il Duca di Ferrara, con il grado di capitano dei cavalleggeri. A Ravenna fece la sua prima amara esperienza, venendo ferito e finendo prigioniero con Fabrizio Colonna: la notizia che egli fosse comunque salvo fu di grande consolazione per Vittoria, come testimoniato da un’epistola in versi straordinariamente appassionata scritta in quella occasione. Il lupo, però, perde il pelo ma non il vizio: in quei mesi di prigione, Ferdinando non ebbe pensieri solo per la moglie, ma anche e soprattutto per la bella Delia, damigella della duchessa, come del resto confermano alcune lettere inviate a Mario Equicola, compiacente ruffiano.

Ciò nonostante, Ferdinando scrisse a Vittoria un appassionato “dialogo d’amore” in versi e, una volta liberato dalla prigionia, egli corse fra le braccia della sua amata, trascorrendo con lei a Napoli un periodo di grande felicità: Vittoria, a distanza di anni, avrebbe sempre ricordato “la grande gioia ch’ella ebbe nel rivedere il liberato consorte al ritorno da questa sua prima spedizione, nella quale tanti animosi passi aveva egli già mosso verso il sommo della gloria”.

Vittoria viveva però una storia d’amore tutta sua, tutta incentrata sulla “divinizzazione” del marito, che per audacia e valore primeggiava tra i più illustri capitani al servizio di Carlo V. Fu proprio lui ad andare ad assediare Francesco Sforza nel castello di Milano, e fu proprio in questa occasione che morì, il 25 novembre 1525, forse avvelenato o più probabilmente per una ferita mal curata. Aveva solo trentasei anni: Vittoria, avvertita da un messaggero qualche giorno prima, era partita da Napoli in gran fretta, ma a Viterbo l’aveva raggiunta la notizia della sua morte.

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LA PERMANENZA A ROMA

Tornata immediatamente a Roma, Vittoria si sentì finalmente libera di divinizzare questa sua virtuosa ed infelice passione, saldando in un’unica immagine amor sacro e amor profano, per citare l’amato Tiziano Vecellio ed il dipinto conservato alla Galleria Borghese. Così nel suo “Trionfo della Croce” Vittoria s’immaginava di volare nella luce verso di lui, assimilato ad una sorta di Dio cristiano. Da allora, fino alla sua stessa morte, la vita di Vittoria sarà tutta segnata dall’amore per Dio.

Vittoria Colonna trascorse ancora qualche anno a Napoli, prima di fissare la sua dimora a Roma, interrotta solo da qualche viaggio, fra Ischia, Viterbo e Orvieto. Inizialmente, andò a vivere nel monastero di San Silvestro in Capite, affidato alle Clarisse ma possesso dei Colonna; voleva addirittura prendere i voti, ma le venne impedito dapprima da Papa Clemente VII e poi da Papa Paolo III: entrambi i Pontefici avevano infatti compreso che Vittoria Colonna potesse essere più utile alla Chiesa da “laica” che da religiosa.

Così Vittoria s’impegnò in un’opera di particolare apostolato, quello della redenzione delle prostitute: diventeranno le celebri “convertite”, che daranno anche il nome ad una celebre strada. Si dedicò “con ogni sforzo a tor di vita lussuriosa, vituperosa et profana molte cortigiane famose, allontanandole da postriboli, lupanari et bordelli, togliendo con quel mezzo parimente l’occasione che Cavalieri, Principi, Ambasciatori e Prelati fussero tanto sfacciatamente avvolti in visite tanto vili”. Fu un’opera di redenzione delle cortigiane, dunque, ma con il fine di togliere agli uomini ogni possibile occasione di peccato di lussuria, ben memore delle scappatelle del suo Ferdinando.

Ne nacque così una vera e propria crociata, bandita dal cortile del monastero di San Silvestro, dove Vittoria era solita conversare con artisti come l’incisore Valerio Belli, il miniaturista Giulio Closio ed il letterato Pietro Bembo. L’argomento era spesso l’amore, ma inteso in chiave spirituale e religiosa, In una totale pace dei sensi.

MICHELANGELO BUONARROTI

Tale clima non venne scosso nemmeno dall’arrivo di Michelangelo Buonarroti all’interno del circolo culturale, nel 1538: tra i due sorse una profonda ed affettuosa amicizia che durerà nove anni, fino alla morte di Vittoria. Su questo rapporto, critici e biografi diedero spesso una definizione di carattere smielato, quasi si trattasse di una sorta di love story segnata da una casta e reciproca rinuncia alla sessualità.

Con ogni probabilità, il rapporto era più elaborato e più complesso. Senza voler scendere nel dettaglio della presunta omosessualità di Michelangelo, l’artista concretizzò per certo il suo rapporto con Vittorio Colonna in una serie di rime scritte immediatamente prima e dopo la morte di lei, nelle quali si evidenziava la funzione “salvifica” che Vittoria assunse nei confronti dell’artista. “Per voi si scriva, voi che il viver mio / volgeste al ciel per le più belle strade”.

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Indipendentemente dal fatto che Vittoria Colonna potesse avere su Michelangelo una sorta di magnetismo di redenzione, è certo che il Maestro ebbe per lei un rispetto indissolubile, certamente dettato da una profonda amicizia intellettuale. Le lettere scritte da Vittoria, non più in versi ma in prosa, testimoniavano d’altronde i sentimenti di lei verso di lui: tra di esse spiccava il ringraziamento per il dono di un disegno della Pietà dove, tra l’altro, gli profetizzava che nel giorno del Giudizio Universale lui sarebbe assurto alla gloria divina del Paradiso: “Et ve dico che mi alegro molto che l’angelo da man destra sia assai più bello, perché il Michele poserà voi Michel Angelo alla destra del Signore nel dì novissimo”. Da parte sua, quale contraccambio, Michelangelo la immortalò nel gruppo di beati che apparivano nel suo Giudizio Universale della Cappella Sistina.

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LA MORTE DI VITTORIA COLONNA

Vittoria Colonna morì il 25 febbraio 1546 nel palazzo del conte Cesarini all’Argentina, dove la moglie Giulia Gonzaga Colonna la ospitò per assisterla personalmente negli ultimi giorni di vita. In quegli ultimi istanti fu presente anche Michelangelo, al quale Vittoria Colonna porse la mano in segno di addio. Fu allora che lui compose quelli che furono forse i suoi versi più famosi: “Come portato ho già più tempo in seno / l’immagin donna del tuo volto impressa / or che morte s’appressa / con privilegio Amor ne stampi l’alma”.  

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