Le antiche carceri di Roma

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LE ANTICHE CARCERI DI ROMA

Andando a scartabellare fra le fonti e i documenti che trattano della Roma Antica, sembra possibile affermare che i luoghi di pena e detenzione, nella Città Eterna, furono inversamente proporzionali alla importanza e alla grandezza della città.

Si pensi, ad esempio, alle Regiones augustee, che furono ben gestite sia per quanto concerneva l’edilizia e l’urbanistica pubblica e civile, sia per la manutenzione delle strade, la condotta delle acque, la tenuta della rete fognaria, l’annona, la riscossione di tasse e tributi e l’ordine pubblico. All’epoca del primo imperatore romano abbondavano i teatri e le terme, i luoghi pubblici (sacri e profani) erano ben curati, e l’arredo urbano era arricchito di talmente tante statue, colonne, vasche e fontane che esse furono definite, a detta di alcuni sarcastici cronisti, “quasi più numerose degli stessi romani”.

La situazione delle carceri, invece, era assai meno florida, con quasi soltanto un unico nome citato dalle fonti e ripetutamente menzionato, tanto da persistere nel corso dei secoli: ci si riferisce ovviamente al Carcer Tullianum, detto anche Mamertino.

IL CARCERE MAMERTINO

La costruzione di questo edificio, carico di storia e di dolore, risalirebbe addirittura ad Anco Marzio, il quarto Re di Roma, lo stesso che, secondo la tradizione, fondò il porto di Ostia, così denominato da Ostium, ovvero la foce del Tevere, il fiume sul quale il suddetto re costruì il primo ponte di Roma, il Ponte Sublicio.

Il nome originario dell’edificio carcerario dovette discendere probabilmente da Tullus, ossia sorgente, poichè Anco Marzio lo fece elevare su una sottostante cisterna.

Le notizie sul Carcere Tulliano sono abbastanza accurate: nella sua parte superiore vi venivano custoditi i detenuti in attesa di giudizio, mentre nella parte inferiore sostavano i condannati, la maggioranza dei quali (forse anche per questo motivo nella Roma antica scarseggiarono gli edifici carcerari) erano colpiti da sentenza capitale da eseguire sul posto. Una volta uccisi tramite strangolamento, o spesso semplicemente deceduti a causa dei tormenti e delle privazioni derivanti da una disumana detenzione, i corpi venivano gettati nella Cloaca Massima, e da lì avviati verso il Tevere ed il Mar Tirreno.

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Quello del lancio nella Cloaca non era certo l’unico modo di disfarsi dei corpi. Svetonio lasciò scritto infatti che uno dei luoghi di accesso al Campidoglio erano le Scalae Gemoniae, che collegavano il Foro Romano con le vicinanze del Carcere Mamertino: scendendo nel dettaglio, Svetonio narrò che lungo la scala in questione furono spesso trascinati con un uncino i cadaveri dei giustiziati, di solito di notte o nel primissimo mattino, che venivano poi gettati nel Tevere, evitando così il rischio dell’intasamento delle fognature.

Senza dubbio il luogo era malsano e molto umido e, come detto, spesso si moriva di stenti più che per un’esecuzione vera e propria. Giugurta, tradottovi in catene da Caio Mario nel 107 d.C., vi morì di fame, mentre Vercingetorige riuscì invece a sopravvivere al suo interno per ben sei anni, fino al ritorno di Giulio Cesare nell’Urbe nel 46 a.C.

SAN PIETRO E SAN PAOLO

Una delle vicende più note connesse al Carcere Mamertino è però, senza alcun dubbio, la presunta detenzione nella suddetta prigione di San Pietro e San Paolo.

È necessario, al riguardo, fare una precisazione storica. La presenza di Paolo a Roma è accertata attraverso gli Atti degli Apostoli che danno notizie sull’arrivo del Santo di Tarso, entrato nella nostra città nell’anno 61 d.C., ma gli stessi Atti degli Apostoli non nominano Pietro. In aggiunta a ciò, nella sua Lettera ai Romani, dell’anno 58 d.C., l’apostolo delle genti salutò i vari componenti della comunità, ma fra questi ancora una volta non ricordò San Pietro.

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Non è ovviamente questo blog il luogo per approfondire una problematica assai delicata e controversa ma comunque, sebbene apparentemente manchino fonti documentali certe sulla presenza di Pietro a Roma, non possiamo non tenere in debita considerazione tutte le tradizioni e le prove antiche e persistenti attestanti i soggiorni di San Pietro nella Città Eterna, tra le quali un ruolo privilegiato ha proprio quella riguardante l’imprigionamento nel Carcere Tulliano o Mamertino, dove il detenuto sarebbe riuscito a convertire venticinque soldati, oltre ai suoi carcerieri Processo e Martiniano.

Un’altra tradizione, ad essa conseguente, racconta che Pietro, fuggito dal reclusorio, avesse perso all’inizio della Via Appia la fascia che circondava il suo piede, piagato dalle pesanti catene che lo avevano tenuto imprigionato, e che proprio in quel sito fu edificata nel IV secolo, fu edificata una piccola chiesa detta San Pietro in Fasciola, dedicata successivamente ai Santi Nereo e Achilleo, le cui spoglie riposano otto l’altare.

L’episodio più famoso di questa narrazione è quindi ricordato subito fuori Roma nel punto in cui oggi si dividono la via Appia Antica e l’Ardeatina. Nei pressi di quell’incrocio sorge la chiesetta del Quo Vadis, nel luogo in cui a Pietro, in fuga da Roma, sarebbe venuto incontro il Signore che gli avrebbe detto “Vengo a Roma per essere crocifisso di nuovo”. Al che Pietro tornò sui suoi passi e andò a incontrare la morte.

La documentazione sulla morte di Pietro e Paolo è abbastanza accurata. A Paolo, in quanto civis romanus, fu evitata la crocifissione e venne decapitato in zona Tre Fontane mentre il suo corpo fu sepolto in un cemeterium sul quale fu elevata la basilica che da lui trasse nome. San Pietro, invece, catturato e portato forse per una seconda volta al Mamertino, venne crocifisso a testa in giù nei giardini di Nerone sul Colle Vaticano. La sua tomba sarebbe stata quindi rinvenuta nel corso di una campagna di scavi effettuata nelle grotte vaticane, e più precisamente nel cemeterium costantiniano posto in corrispondenza all’altare delle confessioni, esattamente in linea con il baldacchino berniniano.

Fra i particolari tradizionalmente accettati vi è infine quello della data della morte dei due apostoli, avvenuta nello stesso giorno: il 29 giugno del 67 d.C., nel corso della prima persecuzione neroniana.

LA MOLE ADRIANA COME CARCERE

La destinazione d’uso del Carcere Tulliano rimase immutabile almeno fino al V secolo e altrettanto lo fu la denominazione che lo indicò spesso come Carcere Mamertino.

Tra la fine del V e i primi decenni del VI secolo, però, Teodorico avviò una serie di consistenti restauri alla città di Roma, includendo il Mausoleo di Adriano fra le opere difensive e adattandolo a carcere. Dalla guerra greco-gotica in poi, la Mole Adriana divenne, oltre che luogo di difesa militare, sinonimo di sede carceraria. Per esempio, nel 983, alla morte di Ottone II, il partito antimperiale capeggiato dall’Antipapa Bonifacio VII fece catturare il pontefice Giovanni XIV rinchiudendolo in Castel Sant’Angelo e lì, dopo quattro mesi di segregazione, facendolo uccidere probabilmente tramite l’uso di veleno. Il Liber Pontificalis aggiunge poi particolari agghiaccianti: i Romani odiavano talmente quel Papa che, dopo la sua morte, infierirono contro il suo corpo con le spade, denudandolo e trasportando poi il suo corpo fino alla statua equestre di Marco Aurelio in Laterano (all’epoca definito Caballum Constantini), prima che la salma venisse pietosamente sepolta.

Il Castello continuò, nei secoli, ad essere considerato luogo di detenzione ed esemplare esecuzione: dopo il fallimento della congiura del gennaio 1453, anche Stefano Porcari fu imprigionato da Papa Niccolò V e condotto nell’ex Mausoleo di Adriano per esservi torturato, giudicato, “esemplarmente ucciso” ed appeso per i piedi agli spalti, onde scoraggiare i Romani dall’abbandonarsi a simili ribellioni.

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LE CARCERI ALTERNATIVE

Nel Medioevo, con l’accrescersi del degrado cittadino, si moltiplicarono anche i luoghi di pena, con un’evidente proliferazione di nuclei autonomi di potere. Ad offrircene la prova è ancora una volta il Liber Pontificalis, il quale ci ricorda, ad esempio, che quando nel 768 fu eletto Papa Stefano III si scatenarono vere e proprie vendette trasversali contro i sostenitori del partito longobardo imprigionati in vari monasteri, in più di un caso dotati di stanze di tortura in cui si mozzavano mani e lingue.

L’VIII secolo fu anche l’epoca del cosiddetto cellarium, un carcere probabilmente ricavato da una delle numerose caserme ancora presenti nella seconda Regione Augustea, detta Celimontana: in quel luogo fu catturato, imprigionato e torturato il prete longobardo Waldipert, messo di Re Desiderio, che si ritrovò con occhi e lingua strappati.

Sempre nell’VIII secolo, con l’aumento del degrado e con la proliferazione dei poteri religiosi e civili, si decise di reperire un altro luogo di detenzione nella zona del Foro Boario, fra la Bocca della Verità e Santa Maria in Cosmedin. Per quanto concerne poi il IX secolo, le fonti menzionano altresì il Carcer ad Elephantum, forse presso la Chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, e la cosiddetta Custodia Cannapariae, altra sede di contenzione presso la quale venivano collocati i detenuti in attesa di giudizio.

I SAVELLI

Questo moltiplicarsi delle prigioni, sintomo di rarefazione e di moltiplicazione dei poteri, spinse sempre più i potenti privati a farsi giustizia da soli e quindi a custodire nelle loro case e torri merlate i nemici delle loro famiglie.

La famiglia dei Savelli, divenuta progressivamente più potente fra il Trecento ed il Quattrocento, detenne per oltre due secoli il significativo incarico, affidato sempre ad un suo esponente, di Maresciallo della Curia Romana. Esso le dette pertanto, oltre alla custodia del Conclave, anche la gestione di una parte del sistema carcerario dell’Urbe e anche questo fu un metodo per privatizzare i luoghi di detenzione.

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L’edificio adibito dai Savelli a carcere, dal XV fino al XVII secolo, fu situato in un grande stabile posto tra Via del Monserrato e Via del Pellegrino, più noto come Corte Savella, ove spesso furono rinchiusi i rei dei delitti minori per la cui sorveglianza i marescialli ebbero il permesso di mantenere una milizia privata di cinquecento uomini. Nel 1598, sostò presso la Corte, in attesa del supplizio, anche la celebre Beatrice Cenci, appartenente ad una delle più potenti famiglie romane.

La Corte Savella, come le altre carceri, era angusta, insalubre e volta solo a tiranneggiare i condannati, tanto che Innocenzo X la fece chiudere nel 1655 e sostituire con il nuovo, più moderno bagno penale, situato in via Giulia.

TOR DI NONA

Il nuovo stabilimento voluto dal Papa Pamphilj segnò altresì il tramonto della Torre di Nona, originariamente nata come fortificazione delle Mura Aureliane fra la Porta Flaminia e la Posterula Domitia, divenuta fortezza degli Orsini attorno a Monte Giordano.

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Il nome della torre, derivato da annona, ossia deposito di derrate alimentari, divenne presto sinonimo di un famigerato carcere privato, questa volta appannaggio della famiglia Orsini, che venne poi nel XV secolo trasformato in prigione pubblica e pertanto affittato al “soldano del Papa per ventiquattro ducati d’oro”. Il soldano o capitano di Tor di Nona era un nobile al quale il Pontefice affidava la gestione delle carceri.

La torre contava tre piani, era di forma quadrata e sulla sommità merlata ogni mattina pendevano i corpi degli impiccati al cui collo era legato un cartello con la motivazione della sentenza, il tipo del reato e il nome della vittima.

I PRIVILEGI DEI CONDANNATI

Come facilmente immaginabile, la condizione dei condannati era solitamente assai penosa; l’unico modo per alleggerirla era tramite l’uso del denaro, magicamente in grado di “ammorbidire” la detenzione.

Un caso assai celebre, raccontato dalle cronache del tempo, riguarda la già menzionata Beatrice Cenci, a quel tempo detenuta: in occasione di una celebre alluvione del Tevere nel 1598, infatti, le venne offerta la grazia in cambio della ricostruzione a sue spese di un ponte travolto dalla piena, ancora oggi indicato come Ponte Rotto. Il Papa, però, che aveva tutte le intenzioni di incamerare interamente il cospicuo patrimonio dei Cenci, rifiutò la grazia e la fece decapitare, con la scusa del ritenere troppo infamante il delitto di parricidio di cui la giovinetta sembrava essersi macchiata.

A testimoniare però la detenzione assai leggera di Beatrice Cenci rispetto a quelle dei suoi contemporanei, restano le ricevute del pagamento dei pasti fatti pervenire alla reclusa da ristoranti cittadini fino all’interno della Corte Savella: in questo modo, è possibile sapere che ella mangiasse spesso pietanze di pesce come le seppie del Tevere in guazzetto, e che le venne portato persino un sorbetto di frutta lavorata con la neve fatta venire dalle montagne d’Abruzzo in appositi otri di pelle che, mantenendola più a lungo, ne evitavano lo scioglimento.

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IL GIUSTIZIALISMO DI SISTO V

Con il feroce Papa Sisto V i detenuti, per effetto della radicale lotta contro i malviventi, raggiunsero a Roma un numero impressionante, che alcune cronache definiscono compreso fra i 6000 e i 7000, forse esagerato ma indicativo delle considerevoli proporzioni del fenomeno carcerario.

In ogni modo Tor di Nona, al tempo di Papa Sisto V, non riuscì più a contenere i troppo numerosi ospiti suddivisi fra Castel Sant’Angelo, il Sant’Uffizio e taluni altri locali ricavati dalle Terme di Diocleziano, non divenute ancora oggetto del superbo recupero michelangiolesco.

Alle celle il Papa diede spesso nomi singolari, volti a evocare la condizione dei rei: Inferno, Purgatorio, Paradiso, la Zoppetta, la Monachina, la Paliana (così chiamata poiché nel 1561 ospitò un Colonna di Paliano), la cella Fiorentina, la Conserva e soprattutto la Vita, cella da cui si veniva fuori solo per essere tradotti al supplizio. Di questa resta ancor oggi il ricordo nella biografia di Benvenuto Cellini, che uscì vivo da quel luogo, dopo esservi stato rinchiuso da Papa Paolo III, solo grazie all’intercessione di Girolamo Orsini.

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