MARCO ANTONIO
Tra loro correvano diciannove anni. Più vecchio Marco Antonio, aitante, nel pieno della virilità, dall’aria ardita e spavalda; malaticcio, bello di faccia e di proporzioni ma non alto, circospetto e freddo d’animo Ottaviano.
Il primo aveva seguito Cesare in Gallia ed era stato il suo alter ego nei primi due anni della guerra civile contro Pompeo: a Farsalo (48 a.C.) comandò l’ala sinistra, ma non fu né a Tapso in Africa (46 a.C., né a Munda in Spagna (45 a.C.), dove si compirono gli ultimi atti della guerra civile, quando trentamila pompeiani vennero trucidati. A Munda, infatti, Cesare si era portato dietro l’appena diciottenne Ottaviano.
Tornato a Roma, Cesare celebrò il trionfo, in un’esaltazione di vittorie e onori decisamente rispondente al merito e alla fortuna. Statue, templi, inscrizioni a lettere d’oro all’indirizzo di Cesare sommersero Roma come le piene del Tevere nei mesi d’inverno. Ebbe tutte le magistrature: dittatura, consolato, censura, maestà tribunizia, comando degli eserciti. Gli mancava soltanto il titolo di re, ma si trattava solo di un riconoscimento formale, che non avrebbe aumentato di un’unghia il potere che già possedeva.
Il giorno dei Lupercalia, festa antichissima che risaliva alla Roma Regia, Marco Antonio nel Foro Romano gli pose in testa una corona di foglie di alloro intrecciate con la bianca fascia del diadema, che era il simbolo sacrale dei re. Gli applausi del popolo furono però assai tiepidi, sicché Cesare, con la prontezza che lo distingueva, afferrò la corona e la gettò in mezzo alla folla.
LA MORTE DI CESARE
Per i congiurati, però, la scelta era stata già presa. Un mese dopo, alle idi di marzo del 44 a.C., lo pugnalarono proditoriamente all’interno della Curia di Pompeo. Marco Antonio, che lo accompagnava, era stato allontanato per decisione di Bruto, che non voleva fosse ucciso insieme con Cesare. C’era tuttavia un particolare che aleggiava nelle dicerie di Roma, ossia che Gaio Trebonio, suo compagno d’armi in Gallia, avesse cercato di aggregarlo alla congiura. Secondo molti, quindi, Marco Antonio non aderì, ma sapeva. Perché allora non avvertì Cesare?
Ottaviano era ad Apollonia, in attesa di partire con Cesare per la campagna contro i Parti. Appresa la notizia della morte, lasciò l’Illirio, sbarcò a Brindisi e giunse a metà aprile in Campania, per incontrare sua madre Azia, nipote di Cesare essendo figlia della sorella di lui, Giulia. Fu lì che apprese la grande notizia: Cesare, nel testamento, l’aveva nominato suo erede e adottato come figlio. Madre e patrigno cercarono di dissuaderlo dall’accettare l’eredità e il nome, ma Ottaviano si rivelò fermissimo nella sua decisione: se fosse stato necessario, sarebbe arrivato a Roma accompagnato dai veterani del padre, sparsi nelle colonie campane.
L’INCONTRO CON CICERONE
A Cuma, Ottaviano incontrò il potentissimo e ricchissimo Cicerone, principe degli avvocati, desideroso di diventare agli occhi di tutti l’arbitro della concordia ordinum.
Ottaviano, che era un furbacchione, fu assai accorto nell’adulare, dimostrandosi umile, chiedendo consigli, domandando valutazioni sulla attuale situazione politica. Cicerone ne fu lusingato e cadde nella trappola, tanto da scrivere “Mi è devotissimo”. Scelse quindi di proteggerlo, credendo di avere escogitato un tranello adeguato al momento: spezzare il fronte cesariano, combattendo Marco Antonio attraverso Ottaviano. L’idea di Cicerone era che la Repubblica si sarebbe liberata prima di Antonio, per poi ingabbiare l’erede designato da Cesare; quello che il potente avvocato non capì, per presunzione, era che Ottaviano si servì di lui onde disporre di un’iniziale serie di appoggi politici che non aveva e che gli erano indispensabili.
L’INIZIO DELLA SFIDA
A maggio, Ottaviano giunse a Roma, affascinando con la sua imberbe giovinezza popolo e veterani, ambedue fanaticamente devoti alla memoria di Cesare: ne rivendicò immediatamente la paternità per adozione, argendosi a vendicatore contro i congiurati della morte del “padre della patria”. D’altro canto, con il Senato e con Cicerone, che lo rappresenta e che odia visceralmente Antonio, indossa la toga dell’opposizione al potere del console in carica ed alla sua tracotanza.
Come reagì a tutto questo Marco Antonio?
Quando venne in possesso del testamento di Cesare (due notti dopo il fatale 15 marzo), Marco Antonio non immaginava che quel giovane diciannovenne potesse sottrargli le simpatie del popolo e dei veterani, e men che mai che potesse costituire per lui un serio ostacolo alla corsa al potere. In realtà, però gli ostacoli iniziarono a rendere più difficoltoso il suo cammino: Ottaviano gli chiese infatti subito la restituzione del tesoro personale di Cesare (lasciato dal dittatore nel tempio di Opi) per onorare le donazioni promesse dal padre sia al popolo che ai veterani, comportandosi nel colloquio con fermezza e senza un minimo di soggezione. Per statura gli arrivava poco oltre l’altezza delle spalle: era esile e biondiccio, ma con due occhi che a tratti sembravano lame di coltelli.
Furono le prime avvisaglie di una lotta che durò quattordici anni, intervallati da intese politiche, compromessi, rappacificazioni, ipocrisie, matrimoni, contumelie, fino alla morte di uno dei due contendenti, il più forte a livello fisico, ma il più debole in quanto a saldezza d’animo, pervicacia e lucidità mentale.
DECIMO GIUNIO BRUTO
A settembre, mentre Marco Antonio era a Brindisi a ricevere le legioni cesariane che stazionavano in Epiro, Ottaviano corse nelle colonie giuliane di Calazia e Casilino, raccogliendo i veterani e marciando su Roma. Era un atto gravissimo di tradimento della costituzione, ma Cicerone, il legalista che dice di salvare la libertà della Repubblica a ogni piè sospinto, lo difese forsennatamente in Senato, accusando anzi l’odiato Marco Antonio, console in carica, di essere “un forsennato e un criminale”.
Fu Cicerone a scatenare, indirettamente, la Guerra di Modena in difesa del cesaricida Decimo Giunio Bruto Albino, il più ingrato e infame dei congiurati, secondo erede testamentario dopo Ottaviano. Il mondo romano si spaccò in due: da una parte il Senato, capeggiato da Cicerone, i nuovi consoli e gli eserciti della Repubblica con Decimo Giunio Bruto Albino, dall’altra l’hostis publicus Marco Antonio, colpevole soprattutto di essere incorso nell’odio inestinguibile di Marco Tullio Cicerone. Le Filippiche, da lui scritte contro Marco Antonio e spesso tradotte dagli ignari studenti liceali nelle versioni di latino, sono state definite da alcuni critici “un eterno monumento di eloquenza, di rancori, di travisamento dei fatti”.
Dalla parte del Senato, e quindi con Decimo Giunio Bruto Albino, c’era anche Ottaviano. Per uno che nel Foro, davanti al popolo, aveva giurato solennemente di perseguitare i congiurati uccisori del padre, il salto era a dir poco sconcertante; il fatto è che, in politica, la verità ha sempre una doppia faccia. Adattandosi alle circostanze, Ottaviano perfezionò sempre più la sua naturale disposizione a dissimulare, un talento che gli consentirà di detenere un potere assoluto per oltre quarantaquattro anni.
IL SECONDO TRIUMVIRATO
La guerra intavolata da Cicerone fu una guerra autodistruttiva, con migliaia di morti, i due consoli uccisi, crudeltà gratuite e follia omicida. Sottrattosi all’accerchiamento, Marco Antonio passò in Gallia per unirsi all’altro cesariano, Marco Emilio Lepido; fu solo a questo punto che Ottaviano si rese conto della strategia di Cicerone, tanto più che in Oriente Bruto e Cassio si erano impadroniti di tutte le province romane.
Ottaviano scelse quindi di radunare l’esercito, parlando ai soldati come fece Cesare a Rimini prima di varcare il Rubicone e, per la seconda volta, marciò su Roma alla testa di otto legioni. Il Senato, che annaspò di colpo nel turbinio dei pentimenti, delle paure e delle recriminazioni, cercò di ricorrere al ricatto imprigionando la madre e la sorella di Ottaviano, per poi cedere nominando Ottaviano console ad appena venti anni.
Marco Antonio, Ottaviano e Marco Emilio Lepido si riunirono dapprima sulla via Emilia e quindi a Roma, facendo nascere il secondo triumvirato. Nel nome e nella memoria di Cesare, arrivarono le proscrizioni, sotto forma di vendette politiche e personali. Cicerone, il grande trasformista, si ritrovò, sbalordito ed esterrefatto, impigliato nella sua stessa trappola; in lui il coraggio non era minimamente pari agli impeti dell’eloquenza e, per ironia della sorte, ad ucciderlo sarà un centurione che in tribunale lo stesso Cicerone aveva salvato dall’accusa di parricidio.
LA BATTAGLIA DI FILIPPI
Filippi, in Macedonia, ottobre del 42 a.C.
Da una parte erano schierati Bruto, Cassio ed i restanti cesaricidi con i loro eserciti.
Dall’altra parte erano disposti gli eredi politici di Caio Giulio Cesare, Ottaviano e Marco Antonio.
Ottaviano aveva il genio della politica, non quello militare. A Filippi, nelle due battaglie del 4 e del 23 ottobre, l’ala dello schieramento da lui comandata fu rovinosamente travolta da Bruto; secondo alcuni resoconti, nella prima battaglia Ottaviano addirittura scappò e perse l’accampamento.
In entrambi i casi, gli scontri vennero vinti grazie all’esperienza, all’abilità tattica ed alla risolutezza di Marco Antonio: quella di Filippi rimase, senza alcun dubbio, la sua gloria più grande. Nella spartizione del mondo, Antonio scelse l’Oriente: rispondeva più alla sua natura sanguigna, edonistica, tracotante, generosa e passionale. Ottaviano tornò in Italia accollandosi i grossi problemi dei veterani, in particolare la questione della distribuzione delle terre, saldando il suo destino di potere con il loro consenso e le loro aspirazioni.
La lotta per il dominio del mondo si era già delineata: si sarebbe risolta undici anni dopo nelle acque di Azio.
CLEOPATRA E LA FINE
A Tarso, in Cilicia, Marco Antonio incontrò Cleopatra, colei che aveva conosciuto Cesare, l’espressione più alta dell’universo romano, e gli aveva dato un figlio. Passati i furori della passione, il confronto con il leggendario “padre della patria” divenne fatale per Marco Antonio, che nell’arco di appena dieci anni, dal 41 al 31 a.C., conobbe gli alti e i bassi della fortuna: dalle orge spensierate e folli di Alessandria ai lividi deserti della Mesopotamia, dai sogni di imperio universale alle viltà dell’abbandono. Salutato quale novello Ercole e Dioniso da folle rigurgitanti di entusiasmo, ascoltò la beffarda risata di un destino a lui contrario.
Fu un’inevitabile parabola discendente? Difficile dirlo, in uno spazio così breve. Oggi, a distanza di oltre duemila anni, possiamo affermare che la vita di Marco Antonio assomiglia ad un rutilante fuoco pirotecnico: si innalzò ed illuminò il cielo di bagliori iridescenti, toccò l’apogeo e tutto a un tratto si spense miseramente nel buio di un suicidio da palcoscenico.
Ottaviano sapeva bene che un coraggio come quello di Antonio era solo un diverso nome della temerarietà. Si fece quindi saldamente scudo della dignitas, del nome che portava per adozione, senza mai indulgere alla clemenza, dimostrandosi spietato e crudele quando la necessità o il proprio utile politico lo imponessero. Si è detto che Marco Antonio gli fosse militarmente superiore, e questo è tendenzialmente innegabile, ma il lungimirante Ottaviano si fece affiancare nelle sue guerre da abilissimi generali a lui legati, precipuamente Marco Vipsanio Agrippa, suo coetaneo che divenne anche suo genero.
Il pregio migliore di Ottaviano fu però la sagacia politica: ebbe la capacità di formare un “partito” nel quale attrarre i cesariani, fondendo insieme politica e interessi personali. Gli alleati di Marco Antonio, progressivamente ma inesorabilmente, si dispersero come rugiada al sole, spinti dalla comune avversione verso Cleopatra, per amore di patria, odio popolare e indignazione morale. Nella battaglia navale di Azio, assieme a Ottaviano e Agrippa, contro la regina d’Egitto c’era praticamente tutta Italia. Fu proprio su questa emotività che Ottaviano costruì la tela entro cui impigliare le debolezze di Marco Antonio: la sua propaganda gonfiò oltre misura e ogni decenza la figura di Cleopatra, che egli trasformò non solo in una donna dai facili costumi (la “puttana d’Egitto”), ma in un vero e proprio mostro assimilabile a Medusa.
Quella fra Marco Antonio e Ottaviano fu una guerra fra due stati d’animo. Cleopatra fu solo un tassello del puzzle. Ottaviano si basò sulla logica e sulla freddezza dei ragionamenti, ragionando con il proprio animo. Marco Antonio agì spronato dalle passioni e dalle emozioni, ragionando con le viscere.
E fu proprio nelle sue viscere che spinse il proprio pugnale, esalando l’ultimo respiro.
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