FESTE E TRADIZIONI DEI CASTELLI ROMANI
Ogni Castello Romano, come tutti i borghi che si rispettino, ha una tradizione custodita gelosamente, un patrimonio che riflette l’immagine dell’ambiente circostante, dei suoi vicoli antichi e delle sue piazzette, semplici ma armoniose. È il segno di una cultura popolare che si anima attraverso feste, leggende e aneddoti curiosi, a volte significativa dell’antica civiltà che l’ha vista nascere e fiorire. Alcune, in provincia di Roma, si raccolgono all’interno dei Castelli Romani, e questo articolo è destinato a raccontare, sia pure in modo breve e conciso, le tradizioni più significative di questa area ricchissima di storia e folklore.
LA SAGRA DELL’UVA
La Sagra dell’Uva di Marino, che appartiene alla millenaria tradizione delle feste contadine, fu istituita nella forma attuale nel 1925 da Leone Ciprelli, poeta romano di genitori marinesi, e da allora, ad eccezione del periodo della guerra e dell’infausta fase Covid, si è celebrata ogni anno con grande concorso di popolo, con la sfilata dei tipici “carretti a vino” e dei “carri mascherati”, da cui vengono distribuiti grandi grappoli d’uva alla popolazione, accorsa in gran parte da Roma.
Ci sono poi le celebri “fontane che danno vino”, di cui parla la famosa canzone Gita a li Castelli tanto cara a Ettore Petrolini:
Guarda che sole
ch’è sortito Nannì…
Che profumo de rose,
de garofani e panzè…
Lo vedi? Ecco Marino!
La Sagra c’è dell’uva,
fontane che dànno vino,
quant’abbondanza c’è!
Per le “fontane che dànno vino” Leone Ciprelli si ispirò a certe leggendarie tradizioni rinascimentali romane, quando, in tempo di Carnevale, per dare spettacolo al popolo romano, i Papi facevano scaturire vino dalle narici del cavallo di Marco Aurelio. Secondo alcuni, però, la tradizione sarebbe stata ripresa da Marcantonio Colonna che, dopo aver prevalso nel 1571 contro la flotta turca nella famosa Battaglia di Lepanto, ritornò trionfante a Marino: proprio in questa cittadina egli aveva infatti la sua fastosa residenza nel Palazzo Colonna, davanti a cui campeggiava la colonna di marmo, secolare stemma della sua famiglia.
I marinesi, entusiasti della vittoria e onorati per il fatto che il loro principe fosse stato l’artefice maggiore della strepitosa vittoria della flotta cristiana contro gli infedeli saraceni, portarono in trionfo Marcantonio Colonna, che già i cantastorie esaltavano in tanti poemetti popolari diffusi rapidamente in tutta Europa. Il principe Colonna, per festeggiare allegramente quella straordinaria vittoria che aveva salvato la cristianità dall’invasione saracena, concesse ai concittadini di Marino una fontana “che buttava vino”, in modo che tutti potessero bere gratis il generoso vino dei Castelli.
Oggi, durante la Sagra dell’Uva di Marino, il ritorno trionfale di Marcantonio Colonna dalla battaglia di Lepanto è rievocato da una doppia rievocazione storica: un primo corteo, formato dal Contestabile, dalle dame e dai cavalieri, parte dal Palazzo Colonna e va incontro al secondo corteo, quello di Marcantonio, seguito dai suoi armigeri e dai principi mori prigionieri. Il Contestabile, arrivato davanti alla Fontana dei Mori, consegna al Colonna le chiavi della città e tutti, in un unico corteo, fanno ritorno a Piazza San Barnaba, in cui dinanzi alla Basilica si svolgono i giochi e le gare degli arcieri.
Ovviamente, affinchè le fontane di Marino possano buttare vino durante la Sagra dell’Uva, sia per la Fontana del Nettuno a Piazza San Barnaba sia per la Fontana dei Quattro Mori è stata predisposta una doppia tubatura, in modo da poter sostituire il vino all’acqua in queste occasioni speciali.
LE NAVI DI NEMI
Legate al culto di Diana erano le famose navi di Nemi, che ovviamente non servivano affatto, come è stato anticamente riportato dalle cronache, alle rappresentazioni degli spettacoli pornografici di cui l’Imperatore Caligola sarebbe stato ghiotto spettatore e partecipante. Tutti gli elementi ornamentali e le suppellettili trovate sulle due navi ne dimostrano con tutta evidenza il legame strettissimo con il santuario di Diana: si trattava di navi sacre, adibite al culto della dea.
Il Museo delle Navi di Nemi dispone di locali vastissimi creati appositamente per contenere le due navi di Nemi (m. 71×20 e m. 73×24) andate distrutte durante la guerra, bruciate dai tedeschi in fuga nel 1944, e oggi sostituite da due modelli in legno, in scala 1 a 5, ricostruiti dai cantieri di Castellamare di Stabia: gran parte delle decorazioni di questi due enormi scafi è al momento ammirabile presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma. Nel nuovo allestimento, l’ala sinistra è dedicata alle navi, delle quali sono esposti alcuni materiali, come la ricostruzione del tetto con tegole di bronzo, due ancore, il rivestimento della ruota di prua, alcune attrezzerie di bordo originali o ricostruite (una noria, una pompa a stantuffo, un bozzello, una piattaforma su cuscinetti a sfera).
IL DRAGONE SACRO
All’antichissimo santuario di Giunone a Lanuvio è legato il mito del “dragone sacro”. Nel santuario infatti, costruito in un tenebroso nemus sacro, si apriva un antro ampio e profondo, in cui era rintanato, come riferisce il poeta elegiaco Properzio, un dragone consacrato alla dea Giunone. Ogni anno si ripeteva una solenne cerimonia religiosa: una schiera di vergini, con gli occhi bendati, si doveva inoltrare nei penetrali del bosco, portando sulla testa canestre ricolme di focacce di marzapane. Le vergini procedevano a piccoli passi, terrorizzate dalla paura, e si avvicinavano per la discesa all’antro del dragone che nel frattempo, a digiuno, si contorceva per la fame.
Una dopo l’altra le vergini, con le mani tremanti per la paura, porgevano le canestre verso le fauci del serpente: se il dragone afferrava subito il cibo che gli veniva offerto, voleva dire che gradiva il dono e che la fanciulla che glielo offriva aveva mantenuto la sua verginità. In questo caso le fanciulle tornavano felici fra le braccia dei loro genitori, che le aspettavano ai margini del bosco insieme a tutti i fedeli di Giunone, ed i contadini acclamavano le loro figlie, perché questo era un sicuro auspicio di un’annata felice. Se invece qualcuna delle fanciulle, a insaputa dei genitori, aveva perduto la verginità, il dragone rifiutava il dono del cibo e la focaccia veniva sbriciolata dalle formiche subito accorse, che portavano le briciole fuori del bosco sacro. Allora le vergini sacre venivano sottoposte a un controllo e la fanciulla trovata “impura” veniva punita con pene inflitte dalle severe leggi del tempo.
LA PORCHETTA E LA SIGNORINA
Il maialetto arrosto di Ariccia è famoso almeno quanto il vino dei Castelli. Anche se la cosiddetta porchetta si trova ormai dappertutto a Roma e nelle vicinanze, spetta senz’altro ad Ariccia (almeno a detta degli abitanti della cittadina) il primato della prima e perfetta realizzazione del suino al forno; morbida, croccante e profumata, la porchetta va naturalmente innaffiata con il vino e gustata tra due belle fette di pane casareccio.
Alla porchetta ad Ariccia si accompagnò per decenni la cosiddetta “processione della signorina”, che si svolgeva nel paese l’8 giugno e l’8 dicembre. La processione aveva carattere folcloristico e vi partecipavano numerose ragazze che indossavano caratteristici costumi locali in una manifestazione che evocava la fine della peste del 1625: una fanciulla di Ariccia, vestita di bianco, precedeva la processione che si muoveva dal Santuario della vicina Galloro con l’immagine della Madonna, che veniva deposta presso la “casa del festarolo”, il quale avrebbe avuto l’onore e l’onere di custodirla per sei mesi.
LA TOMBA E IL SASSO DI ALBANO
Alla periferia di Albano, un monumentale complesso è ancora leggendariamente indicato come Tomba degli Orazi e Curiazi. Sebbene in tale nomea non ci sia nulla di vero, questo maestoso sepolcro rivestito di blocchi squadrati di peperino, che il Nibby definiva nel 1834 “un basamento in parte sgretolato e sormontato da due coni tronchi angolari e dalla base cilindrica del cono centrale scomparso”, riveste comunque una certa importanza storica, e viene da alcuni studiosi legato alla memoria di Arunte, figlio del re Porsenna.
Sempre ad Albano, sulla facciata della Chiesa di Santa Maria della Stella, costruita sui resti delle antiche catacombe, un’antica immagine raffigurante la Madonna del Carmine presenta alla sua destra un sasso della grandezza di un pugno. La leggenda racconta che una sera un carrettiere ubriaco, passando presso la chiesa, abbia lanciato per disprezzo quel sasso verso l’immagine; non centrò però il bersaglio, ed il sasso rimase miracolosamente conficcato nel muro.
LA MADONNA DI FRASCATI E DEL TUFO
Quando Frascati era un piccolo villaggio caratterizzato solo da rovi e frasche (dettaglio che poi, secondo alcune fonti, diede il nome alla cittadina), una sera d’inverno un contadino, tornando a casa con il suo asino carico di un sacco di carbone, vide tra i rovi una donna con un bambino in braccio.
Lui le chiese cosa facesse lì a quell’ora, e lei rispose che si era nascosta lì perché era inseguita e minacciata. L’uomo, impietosito, la rassicurò dicendole che sua moglie li avrebbe ospitati volentieri, ma la donna replicò che era troppo stanca per muoversi di là. Il contadino le propose allora di farla salire sull’asino e lui avrebbe portato il sacco di carbone sulle sue spalle, proseguendo a piedi. Di fronte a tanta gentilezza la Madonna si rivelò allora in tutto il suo splendore e disse solennemente: “Che tutte le frasche di Frascati si trasformino in vigne superbe e diano la ricchezza ad un luogo dove la gente è tanto misericordiosa”.
Anche Rocca di Papa ha la sua Madonna, che secondo la tradizione risalirebbe alla fine del Quattrocento. Anche qui un viandante, attraversando uno stretto sentiero presso il Monte Albano, vide improvvisamente staccarsi dal ciglio della roccia un grosso macigno di tufo che stava per travolgerlo, ma lui invocò la Madonna e si salvò. A ricordo dell’evento miracoloso lui stesso volle far costruire in quel luogo una cappellina, e un celebre artista, Antoniazzo Romano, vi affrescò una Madonna col Bambino; col passare dei secoli, la fama di questa Madonna aumentò sempre più, finché si arrivò all’attuale santuario.
SAN SEBASTIANO E SANT’ANTONIO
San Sebastiano è il patrono di Castel Gandolfo. Un tempo, la prima domenica di settembre si organizzava la festa in onore del santo, caratterizzata da una spettacolare processione: interpreti principali erano un giovinetto, che incedeva solennemente con lo scettro e la corona, seguito da una fanciulla con tanto di diadema e manto regale. Essi rappresentavano l’Imperatore e l’Imperatrice della Dottrina Cristiana, ovvero i vincitori di una gara catechista molto severa, ed a seguirli c’era la cosiddetta “schiera dei perdenti”, ossia un folto gruppo di bambini e bambine che impersonavano i ruoli pur sempre dignitosi di principi e principesse.
Sant’Antonio è invece il patrono di Velletri e si festeggia il 17 gennaio: due le caratteristiche tipiche della cerimonia commemorativa, la cavalcata e la corsa dell’anello. La cavalcata è in costume con tanto di stendardo raffigurante il volto del santo, che viene vinto in un’apposita gara da colui che ha poi l’obbligo e l’onore di custodirlo gelosamente nella maniera più degna, per un anno intero, nella propria abitazione. La corsa dell’anello è invece un’emozionante gara equestre di origine medievale, che consiste nel centrare un anello dal dorso di un cavallo in piena corsa.
L’INFIORATA DI GENZANO
La più celebre delle tradizioni dei Castelli Romani è probabilmente l’Infiorata di Genzano: la tradizione di questa splendida festa risale al 1778, quando in occasione del Corpus Domini la famiglia Leofreddi ebbe l’idea di disporre fiori davanti alla propria casa, al centro della strada dove doveva passare la processione con il Santissimo. L’esempio fu imitato da numerose altre famiglie in decorazioni floreali che sono diventate sempre più elaborate nei secoli e negli ultimi anni in una sorta di gara e di creazione artistica, trasformandosi in un avvenimento di fama internazionale.
Massimo d’Azeglio ne lasciò ne I Miei Ricordi una precisa descrizione, che ancor oggi racconta perfettamente l’atmosfera che si respira nel borgo: “Alcuni giorni innanzi la festa, le donne e le ragazze del paese vanno per i prati, per i boschi, per i giardini e li spogliano di fiori, che portano a casa a fastelli. Poi sfogliano questi fiori ad uno ad uno, ammucchiano le foglie dello stesso colore; onde compongono alla fine una specie di tavolozza piena di tinte diverse. Ogni casa che fronteggi la strada, s’incarica di coprire lo spazio che le sta dinanzi, ed eseguisce un disegno diverso. L’insieme riesce vivacissimo, e visto dal piede della salita, si mostra come un tappeto magnifico floreale”.
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