LUCREZIA BORGIA
Nell’atrio della Basilica di San Marco, connessa a Palazzo Venezia al centro di Roma, vi è murata sulla parete destra, in basso, una lapide annerita con una lunga iscrizione a malapena leggibile: è dedicata alla “moglie di fatto” del cardinale Rodrigo Borgia, che ebbe da lei quattro figli prima di diventare Papa con il nome di Alessandro VI:
A Vannozza Catanei, nobilitata dai suoi figli i duchi Cesare di Valenza, Juan de Gandia, Jofred di Squilace e Lucrezia Ferrara. Alla donna altamente illustre al tempo stesso per l’onestà, la pietà, l’età e la saggezza sua, e tanto benemerita dell’ospedale lateranense, pose Jeronimo Pico, fide commissario ed esecutore testamentario. Visse anni 77, mesi 4, giorni 13. Morì nell’anno 1518 il 26 novembre.
La lapide venne ritrovata per caso nel 1548 durante i lavori di risanamento, incastrata a rovescio nel pavimento della chiesa dove era stata posta come lastra di pavimentazione da chissà quanti secoli, forse da quando il cardinale Angelo Maria Quirini aveva ordinato i grandi restauri settecenteschi della basilica. L’esistenza dell’iscrizione era però conosciuta grazie ad un codice conservato in Vaticano e redatto da un cotal “anonimo spagnolo”, che lo aveva compilato nel XVI secolo, raccogliendo numerose scritte simili presenti a Roma. Più tardi fu trascritta dal Forcella nella sua opera Iscrizioni delle chiese e d’altri edifici di Roma.
Il suddetto “anonimo spagnolo” aveva sicuramente visto la lapide nella Chiesa di Santa Maria del Popolo, dove Vannozza era stata sepolta nella parte destra del transetto che allora apparteneva ai Borgia e dove oggi possono essere ammirate le cappelle di San Tommaso e Santa Lucia. Accanto a lei riposava in pace il figlio Juan Borgia, duca di Gandia, che era stato assassinato giovanissimo a Roma nel 1497 forse dallo stesso fratello Cesare. Quando papa Alessandro VII Chigi ordinò le grandi trasformazioni barocche della chiesa i monumenti funerari dei Borgia finirono negli scantinati insieme ad altri materiali di scarto, da dove probabilmente un secolo dopo fu prelevata la lapide di Vannozza per i nuovi pavimenti di San Marco.
Vannozza Cattanei era morta nella sua bella casa di Piazza Branca (oggi Largo Arenula), dove era andata a vivere nel 1486 con il terzo marito Carlo Canale che, come i due precedenti Domenico d’Arignano e Giorgio de Croce, le era stato imposto da Rodrigo Borgia: il cardinale aveva infatti voluto sempre per lei una parvenza di vita normale, quasi di moglie onorata, anche quando la loro relazione era finita con la nascita dell’ultimo figlio Joffré nel 1482. Pare che Vannozza fosse figlia del pictor Jacopo e nipote del Maestro Antonio da Brescia, due artisti lombardi calati a Roma al tempo dei grandi lavori rinascimentali.
PALAZZO SFORZA CESARINI
Lei, bellissima donna, non seppe resistere al fascino del giovane Borgia così descritto da uno storico dell’epoca, Gasparre da Verona: “È bello, ha sguardo grazioso e gaio, ed eloquio ornato e dolce. Ove appena verga donne belle, le eccita in modo quasi meraviglioso all’amore, e le attira a sè più che calamita il ferro”. Vannozza ne fu attirata, è vero, ma indubbiamente anche lei doveva avere qualità eccezionali se divenne l’amante dell’ardente Rodrigo Borgia per circa vent’anni. Quando si conobbero, nel 1466, Rodrigo era già stato nominato nel 1456 cardinale dallo zio Papa Callisto III Borgia, ad appena 25 anni, e l’anno dopo Vicecancelliere della Chiesa Romana. Abitava nel rione Ponte, in un palazzo che lui stesso aveva fatto costruire, invidiato da tutta la nobiltà per la sua bellezza e per i sontuosi arredi; tale abitazione era invidiata soprattutto dal fratello di Ludovico il Moro, il cardinale Ascanio Sforza, che lo ebbe in dono quale contraccambio del suo decisivo appoggio per la nomina a Papa.
Oggi il palazzo, che si chiama per l’appunto Sforza Cesarini, è molto cambiato, soprattutto per la creazione di Corso Vittorio Emanuele II dove, al numero 282, si trova ancor oggi l’entrata principale. Nel cortile si può ancora ammirare l’elegante loggiato in cui forse risuonarono le vocine dei figlioli di Vannozza mentre andavano a far visita al loro illustre padre dalla vicina Piazza Pizzo di Merlo (oggi assorbita dal Corso) dove abitavano in una bella casa con l’orto, come piaceva a Vannozza che curava anche le vigne suburbane donatele da Rodrigo Borgia, che con lei era sempre stato pieno di premure. Appena arrivavano a Roma i primi caldi o l’annuncio di un’epidemia, il cardinale Borgia mandava Vannozza e la sua piccola corte al castello di Nepi oppure a Subiaco, dove aveva riedificato la grande rocca sulle mura medioevali dell’antico monastero.
LUCREZIA BORGIA
Fu proprio in quella dimora, ampia e sicura, che Vannozza partorì per ben due volte. La prima fu nel 1476, dando alla luce un maschio forte e robusto che più tardi sarebbe stato temuto da tutte le nazioni: Cesare Borgia. La seconda volta, nell’aprile del 1480, quando nacque una bambina bianca ed esile, dai capelli chiarissimi e gli occhi azzurro-grigi, talmente dolce da intenerire subito il cuore del padre ormai quasi sessantenne, che volle chiamarla Lucrezia come la matrona romana modello di virtù.
Tale nome era ben poco adatto per quella bimba fragile, dalla faccina rosata e aperta al riso che da adulta sarebbe diventata vittima dell’egoismo e delle ambizioni del padre e del fratello Cesare. Lucrezia visse fino ai sei anni con la madre nella casa di Pizzo di Merlo e dopo, come si conveniva alle fanciulle del suo ambiente, fu affidata alle suore: il padre aveva scelto per lei il convento delle domenicane di San Sisto, sulla via Appia, che aveva fama di severità e rigore, e che era lo stesso dove lei si sarebbe rifugiata nei momenti di dolore o smarrimento. Il tempo libero lo trascorreva con Adriana Mila, una bella donna spagnola forte e ambiziosa, cugina e confidente di suo padre, che era arrivata a Roma al seguito del cardinale Alfonso Borgia quando divenne Papa Callisto III nel 1455. Adriana, vedova di Ludovico Orsini, abitava con il figlio Ursino in un’ala del grande complesso di Monte Giordano, proprietà degli Orsini; là, come era costume fra le donne del suo tempo, Lucrezia ricevette da vari precettori una raffinata educazione umanistica.
Di lei dirà il biografo Bayard nel 1512: “Oso dire che in questi tempi non ho trovato un’altra donna alla sua altezza, nemmeno la più trionfale principessa, perché lei è bella, buona, dolce e cortese con tutti. Parla spagnolo, greco, italiano, francese e un po’ di latino, e in ogni lingua scrive e fa di versi”.
Lucrezia imparò ad amare la patria di suo padre mentre studiava lo spagnolo con Adriana Mila, che le parlava delle cento fontane di Jativa, la città da dove provenivano i Borgia, nel regno di Valenza, descrivendole la bellezza delle sue bianche strade che profumavano di palme, cipressi e limoni. Le raccontava miti e leggende di una terra di favola dove ancora vi abitavano gli arabi, a Granada, con le loro ricchezze, la loro cultura, la loro musica e le loro danze. Insieme, zia e nipote, suonavano il liuto e l’arpa accompagnando i dolci canti della musica andalusa, oppure danzavano le morescas, quelle danze ispano-arabe che erano diventate di gran moda nelle corti europee. Lucrezia aveva una particolare grazia danzando, un dono comune a tutti i Borgia: “Il senso del ritmo poi, proprio degli spagnoli, era tanto sviluppato in Lucrezia e in suo fratello Cesare che quando danzavano era un vero godimento per chi assisteva”, scriveva un cronista dell’epoca.
LA ROMA DI LUCREZIA BORGIA
Lucrezia cresceva a Roma in un clima di corruzione e favoritismi. In Vaticano Lucrezia vedeva andare e venire le figlie di Papa Innocenzo VIII e i figli dei cardinali trattati come principi. Aveva nove anni quando il padre divenne l’amante della bella Giulia Farnese che, in cambio dei suoi favori, otterrà più tardi da Papa Borgia il cappello cardinalizio per il fratello Alessandro.
Nei rioni Ponte, Parione e Regola, dove era nata o nella quale si ritrovava a trascorrere le giornate, vi erano quotidianamente lotte e guerre civili, con protagonisti i Savelli, i Colonna e gli Orsini. Le prostitute fra cortigiane e meretrici erano, alla vigilia dell’elezione del Papa, 6.800 su una popolazione di 70.000 abitanti: tutto contribuiva all’avvilimento di una città cui di santo non era rimasto che il nome.
Quando Rodrigo Borgia divenne Papa Alessandro VI, nell’agosto del 1492, Lucrezia era una dodicenne che somigliava enormemente al padre e che, come lui, aveva un modo particolarmente gioioso di vivere: “Di mediana statura, gracile d’aspetto, di faccia graziosa, il naso ben profilato, gli occhi chiari, la bocca un po’ grande con candidissimi denti, la gola schietta e bianca ornata con decente valore, aurei i lunghi capelli, in tutto l’esser suo continuamente allegra e ridente”, scriverà più tardi Bernardino Zambotto nella Cronaca Ferrarese quando Lucrezia sarà la duchessa di Ferrara.
I MATRIMONI DI LUCREZIA
Alessandro VI dispose subito che Adriana Mila, Giulia Farnese e Lucrezia Borgia (ossia “le donne del Papa”, come le chiamava il popolino) andassero ad abitare accanto a lui nel palazzo di Santa Maria in Portico, costruito a sinistra di quello papale nel 1484 e poi demolito nel Seicento per lasciare posto al colonnato del Bernini. Lucrezia amava affacciarsi alla loggia e guardare la piazza gremita, il viavai dei nobili e delle cortigiane, e udire gli schiamazzi degli artigiani nel vicino rione Borgo dove abitava il fratello Cesare.
Da quei balconi vide arrivare ogni volta i cortei nuziali dei tre mariti che il Papa scelse per lei secondo gli interessi politici del momento: Giovanni Sforza, conte di Pesaro e cugino di Ludovico il Moro, Alfonso d’Aragona, duca di Bisceglie e figlio naturale del re Alfonso I di Napoli, ed infine Alfonso d’Este, figlio di Ercole ed erede legittimo al ducato di Ferrara.
Il primo matrimonio le fu annullato con bolla papale del 1497, quando gli interessi del Vaticano volgevano verso il regno di Napoli.
Il secondo marito, l’unico vero amore della sua vita da cui ebbe come figlio il bellissimo Alfonso, le fu strappato appena ventenne dal pugnale assassino di Cesare Borgia perché ostacolava allora, nel 1500, l’alleanza con la Francia.
Le terze nozze con Alfonso d’Este, che la portarono per sempre a Ferrara dove morirà di parto nel 1519, furono la sua salvezza, la fine di un incubo durato ventun anni, ossia esattamente quelli trascorsi a Roma sotto il potere quasi magnetico del padre, che l’aveva persino costretta a fare da “papessa” in sua assenza nel 1501.
I LUNGHI CAPELLI BIONDI
Quando si sposò con lo Sforza il 12 giugno 1493, Lucrezia aveva appena compiuto tredici anni. Il matrimonio si celebrò fastosamente nelle nuove stanze del Papa Borgia, al primo piano dell’edificio di Niccolò V, dove aleggiava ancora l’odore intenso della finitura fresca dei dipinti appena terminati dal Pinturicchio. La sposa era bellissima, con i lunghi capelli biondi, dei quali andava tanto fiera, a scenderle fluenti sulle spalle.
Finchè visse a Roma, Lucrezia li pettinò sempre nello stesso modo, lo stesso che si vede in tutti i ritratti: sciolti, con due sole ciocche che partivano dalle tempie raccolte a forma di treccine sulla nuca. Aveva un aspetto infantile nel viso dall’ovale perfetto: l’imperfezione del mento quasi sfuggente la rendeva ancora più pateticamente bambina. La fronte troppo alta era corretta da uno smeraldo pendente e al collo portava le perle, dono del padre, che lei tanto amava. Il Pinturicchio presente alle nozze rimase affascinato dal portamento della sposa che avanzava col suo passo leggero, mosso da un ritmo interiore: “Porta la persona così soavemente che par non si muova”, dirà un relatore.
Pinturicchio aveva sicuramente ancora negli occhi quell’immagine quando dipinse qualche mese dopo, nella Sala dei Santi degli Appartamenti Borgia, la Disputa di Santa Caterina d’Alessandria con i filosofi raffigurando la martire con le fattezze di Lucrezia. Nel bellissimo affresco la fanciulla è dritta davanti all’imperatore Massimino (secondo alcuni, ritratto di Cesare Borgia) mentre discute con i saggi della corte difendendo la sua fede cristiana. Dovrebbe rappresentare una donna sicura di sé, disposta a morire per le proprie idee, e invece il Pinturicchio la dipinse con quell’aria incerta e inerme, da bambina incredula persino davanti ai fatti compiuti, che aveva contraddistinto Lucrezia in tutti gli anni della sua vita romana, quando i suoli sogni venivano distrutti ad uno ad uno, divenendo nelle mani del Papa e di Cesare Borgia un semplice strumento di potere.
Osservando la freschezza incomparabile di quel volto, si è restii a credere alle accuse che i nemici dei Borgia ordirono contro di lei: incesto, amori proibiti e complicità nei delitti del fratello Cesare. Si trattò, con ogni probabilità, di calunnie e menzogne incrementate dalla fantasia popolare e dalla tragedia che nell’Ottocento scriverà Victor Hugo, disegnando per sempre in Lucrezia Borgia l’archetipo della malvagità e della depravazione femminile cui si ispirerà Donizetti per il suo melodramma.
Dal 23 dicembre del 1833, giorno della prima della Lucrezia Borgia alla Scala di Milano, il mondo intero poté inorridire a suon di musica con i delitti della figlia del Papa. E mentre tutti la accusavano, nel I atto lei disperata cantava:
M’abborre ognuno!
Pur, per sì trista sorte
nata io non era…
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