Le Memorie di Mastro Titta

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LE MEMORIE DI MASTRO TITTA

Non c’è dubbio che le “Memorie di Mastro Titta”, il boia del papa, al secolo Giambattista Bugatti, si inseriscano a buon diritto nella storia esemplare del romanzo d’appendice.

Pubblicate alla fine dell’Ottocento dall’editore romano Perino, esse in realtà costituiscono una sorta di autentico “falso d’autore”, poichè il famoso esecutore di condanne capitali della Roma pontificia non scrisse mai delle memorie, ma si limitò semmai a lasciare un preciso elenco delle “giustizie” da lui compiute, registrando per ciascuna di esse le generalità delle vittime, il luogo e il genere delle esecuzioni e il crimine commesso.

Da questo macabro elenco è quindi possibile venire a sapere che gli interventi di Mastro Titta, tra impiccagioni semplici, impiccagioni seguite da squartamento (quando il delitto fosse particolarmente esecrando), mazzolature, squartamenti e decapitazioni mediante ghigliottina, assommano a ben 516, eseguiti dal marzo 1796 all’agosto del 1864.

E pensare che chi lo conobbe lo descrisse per un uomo bonario ed educato, pronto ad offrire prese di tabacco alle vittime e felice quasi di compiere il suo dovere, per il quale riceveva il simbolico compenso di un “Papetto”, ovvero di tre centesimi di lira romana. Solitario e cupo si aggirava per Borgo Sant’Angelo fra il terrore di chi lo riconosceva, ed erano decisamente in parecchi a riconoscerlo, perché le condanne a morte del governo papale erano seguite sempre da grandi masse festanti: era una sorta di spettacolo itinerante, avente come scenari privilegiati di questa rappresentazione pseudo-teatrale lo spiazzo di Ponte Sant’Angelo, Piazza del Popolo o Via dei Cerchi.

Tra il salmodiare delle varie Confraternite, il condannato si avvicinava al palco, intorno al quale era disposto in quadrato il reparto militare; subito si susseguivano gli ultimi tentativi per convincere l’eventuale impenitente a ricevere il “conforto religioso”.

Infine, rapida, ecco l’esecuzione. Come ben si vede nel film “Il Marchese del Grillo”, nel momento in cui la testa della vittima veniva spiccata dal corpo o infranta dal colpo di mazzuolo, i padri presenti in piazza sferravano un violento schiaffone ai figli, affinchè ricordassero lo spettacolo appena visto ed imparassero la silente lezione di esso.

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LE MEMORIE DI MASTRO TITTA

Le “Memorie di Mastro Titta”, a dispetto del tono assai ingenuo circa le scelleratezze compiute, assursero nonostante tutto a specchio dei tempi e suscitarono una certa curiosità. Sfogliandole, si ha la sensazione di teletrasportarci come d’incanto di fronte al boia.

Le note di costume lapidarie, messe in bocca al nostro eroe dal suo biografo, sono infatti abbastanza numerose e puntellano qua e là le imprese del boia romano, proprio per andare incontro alle aspettative dei lettori, fermi e convinti di ben precisi schemi di comportamento, e pertanto soddisfatti nel poter leggere un discorso che non ne minasse ma anzi consolidasse gli assiomi.

Così, durante un orrendo rogo, Mastro Titta sembrò rivestire persino i panni dello psicologo a buon mercato, ammonendo il suo vasto pubblico che, essendo composto principalmente da uomini, era sicuramente pronto a dargli ragione: “Non è raro il caso che il marito innamorato sia anche un marito ingannato. I sacrifici che fate per una donna essa non li considera che come un tributo dovutole; ella aumenta il concetto di sé medesima e cresce per conseguenza le sue pretese in ragione dell’affetto che le portate”.

Mastro Titta doveva aver però conseguito, di nascosto, anche un Master in Patologia Clinica, poiché nel caso di un dramma d’amore in carrozza si lascia andare ad una scheda anamnestico-sociale di grande e sicuro effetto emotivo: “Le resistenze di Sofia furono deboli, per non dire nulle. Le condizioni patologiche della donna erano favorevoli a quell’avventura arrischiatissima (ossia con il suo cocchiere, famoso e irriducibile don Giovanni). Se è vero che tutte le donne hanno dei momenti nei quali sono di chi le piglia, doveva essere quello uno dei suoi momenti…quando una passione non ha potuto avere il suo svolgimento nei sensi di una donna, questa ne soffre orribilmente, il suo carattere si altera e si dà in balia agli eccessi più mostruosi”.

Naturalmente le Memorie sono colme anche di annotazioni tecniche riferite al mestiere praticato da Mastro Titta, il quale, tra la disinvoltura e la truculenza più becera, reca al lettore ogni segreto del suo ufficio, con quel compiacimento comprensibile in chi, sapendosi al di sopra d’ogni giudizio, gode nell’analizzare in dettaglio i piccoli guai di un lavoro al limite dell’assurdo, con pennellate quasi malinconiche: “Trascorsero due mesi prima che dovessi esercitare di nuovo le mie funzioni; né, per dire la verità, me ne rammaricavo, perché nella stagione estiva il mestiere diventa più faticoso e più difficile, specie nelle impiccagioni e negli squartamenti”.

In uno dei capitoli delle Memorie, intitolato “Un’esecuzione difficile”, la descrizione dei guai che potevano scaturire una volta che il boia fosse in azione sul palco, assunse senz’altro le tinte più drammatiche: “Non era stata agevole l’impiccagione di Francesco Perelli, un povero diavolo reso becco dalla moglie troppo avvenente. Non appena, infatti, gli ebbi tolto il bavaglio cominciò ad urlare, a chiedere grazia e a invocare le celesti legioni perché discendessero a liberarlo; non era svenuto come tanti altri, possedeva ancora tutte le sue forze; ma era mestieri trascinarlo e portarlo su a braccia mentre si dibatteva. Con il laccio al collo, gridava ancora, e fu proprio la corda che gli strozzò la parola di bocca. Impiccato, diventò paonazzo e quasi nero. Aveva gli occhi fuori dall’orbita, i capelli irti come chiodi, la lingua sporgente dalla bocca dura e irrigidita. Quando incominciai a spaccarlo, mi pareva che le sue fibre avessero ancora dei fremiti di vita. Certo non avevano perduto punto del loro calore naturale. La giornata era rigida; soffiava la tramontana, e le sue viscere fumavano, come se fossero state tratte bollenti da una pentola; a contatto dell’aria algida il fumo si condensava in grasso e deponendosi sulle mie mani, me le rendeva scivolose. Prima di tornare a casa mi ci volle una libbra di sapone per ripulirmele”.

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IL BOIA DEL PAPA

La figura di Mastro Titta divenne letteralmente leggendaria nella Roma papalina, finendo indiscutibilmente per diventare il nome emblematico del boia pontificio, anche se non fu l’ultimo giustiziere del Papa. Quando infatti andò in pensione, gli subentrò Vincenzo Balducci, suo aiutante dal 1850, che seguitò la cruenta missione fino al 9 luglio 1870.

Quello di Mastro Titta rimase però un nome storicamente epocale, che ispirò a Giuseppe Gioacchino Belli una dozzina di sonetti, nei quali definì il boia come “er bastone de la vecchiaia de li Stati” in polemica ironica con i giacobini che volevano l’abolizione del carnefice, simbolo di un sistema di giustizia considerato tirannico.

È proprio il Belli che, nel sonetto Er dilettante de Ponte, rievoca un’esecuzione a Ponte Sant’Angelo nel caratteristico segno dello spettacolo segnalando in nota che “molto ben pagato è il carnefice, ed in qualunque servizio del suo mestiere gode di vari e bei profitti. Si vuole però che l’atto della uccisione del paziente siagli pagati tre quattrini, cioè tre centesimi della lira romana, a dimostrare la viltà dell’opera”.

Viengheno: attenti: la funzione è lesta.

Ecco cor collo iggnudo e ttrittichente

er prim’omo dell’opera, er pazziente,

l’asso a coppe, er ziggnore de la festa.

 

E ecco er professore che sse presta

a sservì da cirusico a la gente

pe ttre quadrini, e a ttutti gentirmente

je cura er male der dolor de testa.

 

Ma no a man manca, no: l’antro a man dritta.

Quello ar ziconno posto è l’ajutante.

La precedenza aspetta a mastro Titta.

 

Volete inzeggnà a me chi ffà la capa?

Io qua nun manco mai: sò ffreguentante;

e er boja lo conosco com’er Papa.

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