MICHELANGELO PISTOLETTO
Nel 1966, il poco più che trentenne artista biellese Michelangelo Pistoletto disse: “Un paio di calzini non sono meno adatti a fare un dipinto che legno, chiodi, trementina, olio e stoffa. Il materiale è scelto di volta in volta a seconda di una particolare necessità percettiva. Tutti i materiali per me sono idonei, non ci sono materiali più moderni o meno moderni. Un elemento, per esempio lo specchio in molti miei lavori recenti, può anche essere mantenuto costante in più oggetti, perché accostato a situazioni e materiali diversi assume ogni volta un diverso significato all’interno della nuova combinazione”.
La sua poetica artistica era lampante. Già nel 1961, del resto, Pistoletto aveva compiuto un primo passo importante autoritraendosi, in una serie di quadri tutti intitolati Il presente, su un fondo nero reso riflettente da uno strato di vernice lucida. Fu lui stesso a spiegare in seguito la sua intuizione: “L’uomo dipinto veniva avanti come vivo nello spazio vivo dell’ambiente, ma il vero protagonista era il rapporto di istantaneità che si creava tra lo spettatore, il suo riflesso e la figura dipinta, in un movimento sempre presente che concentrava in sé il passato e il futuro”.
L’anno dopo, nel 1962, portò il concetto alle estreme conseguenze, sostituendo la tela con lo specchio e moltiplicando così all’infinito le prospettive: era la prima volta che la scena rappresentata in un quadro comprendeva anche lo spettatore. I Quadri Specchianti (riporti fotografici su carta velina incollati su lastre di acciaio inox lucidate a specchio) portarono un Pistoletto appena trentenne al successo internazionale. Ancora oggi è possibile ammirarne alcuni esempi presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna, come nel caso de “I Visitatori”, qui sotto in foto.
Lo specchio, d’altra parte, tornerà infinite volte nelle sue composizioni, diventando con il tempo un’altra costante della sua poetica. Come lui stesso rivelò, “le possibilità di rispecchiamento non sono contenibili in una dimensione limitata. Uno specchio riflette potenzialmente ogni luogo e continua a rispecchiare anche quando e dove non è presente l’occhio dell’uomo. Lo specchio espande le caratteristiche dell’occhio e la capacità della mente fino a offrirci la visione della totalità. Può riflettere tutta l’umanità”.
Chiunque, quindi, può diventare immediatamente protagonista dell’opera d’arte, essendo lui stesso parte dell’opera. Lo specchio, d’altronde, è un dispositivo assai comune che riesce a tenere insieme una lunga serie di contraddizioni: lo statico e il dinamico, l’ordine e il disordine, il costante e il mutevole, il visibile e l’invisibile.
Gli spettatori, quindi, passando dinanzi o fermandosi di fronte ai Quadri Specchianti, ne entrano immediatamente a far parte, divenendo protagonisti dell’opera d’arte, così come d’altronde accade anche all’ambiente in cui è di volta in volta collocata.
Tra il 1966 ed il 1967 Michelangelo Pistoletto realizzò altri lavori che fecero epoca, come il celebre Metro cubo d’infinito, un cubo formato da sei specchi con la superficie riflettente rivolta verso l’interno.
È però con le altre opere realizzate nel 1967, come la Venere degli Stracci, l’Orchestra di Stracci ed il Muro di Stracci che Pistoletto scelse di mettere in scena un materiale disprezzato, lo stesso che proprio l’artista aveva fino a quel momento adoperato esclusivamente per ludicare l’acciaio inossidabile dei suoi Quadri Specchianti. Nella sua Venere, in particolare, Pistoletto accostò un’icona della statuaria classica, ossia la copia in bianchissimo marmo della Venere con mela eseguita nel 1805 da Bertel Thorvaldsen, ad un mucchio di coloratissimi indumenti in attesa di cambiare la propria destinazione.
Fu un lavoro di forte critica nei confronti della celebratissima Pop Art: “l’opera nasce in un periodo in cui con la Pop Art si era arrivati all’apologia dell’oggetto di consumo, come se esso fosse inconsumabile. Invece, con i miei stracci, dimostro che la moda di oggi il giorno dopo decade, diventa scarto, che i prodotti di consumo hanno una rapida scadenza e che il mito consumistico diviene prodotto consumato. Per contrasto c’è un altro mito che viene dal passato, una Venere che attraversa immobile la storia, come immagine che proviene dai tempi antichi”.
Qualche critico, in quegli anni di contestazione giovanile e lotta sindacale nelle fabbriche, percepì negli stracci di Pistoletto un riferimento agli ultimi, agli emarginati, ai rifiuti della società. In realtà, quello che Michelangelo Pistoletto cercava era una sperimentazione forte, decisa ed aggressiva. Nel 1964, presentando i suoi Plexigass, l’artista si era posta la domanda per eccellenza: cosa è arte?
Fu lui stesso a cercare di darsi una risposta: “È facile in questi anni equivocare sull’identità tra oggetto reale e oggetto arte. Una cosa non è arte; è semmai l’idea espressa dalla stessa cosa che può esserlo”. Anche il ruolo dell’artista era determinato da canoni e regole molto rigide: “L’artista ha un ruolo nuovo nella società: l’arte è l’espressione primaria, più sensibile, della creatività umana e, di conseguenza, il riferimento costante di ogni attività culturale, economica e sociale. La responsabilità dell’arte è creare i principi di una nuova armonia che, attraverso l’estetica e l’etica, bilancia tutti gli elementi della società”.
L’arte diventa dunque, con Michelangelo Pistoletto, una sorta di luogo di rieducazione sociale, con l’artista destinato ad insegnare ed a fungere da modello per i propri contemporanei. Era una visione inevitabile, per un artista che in una celebre performance del 1976 scrisse sul muro “Dio c’è?” per poi rispondere alla sua stessa domanda con le parole “Sì, ci sono”.
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