ALESSANDRO VI BORGIA
Alessandro VI era stato eletto Papa nell’agosto del 1492, dopo un conclave durato cinque giorni in cui i favoriti erano i cardinali Giorgio Costa e Oliviero Carafa, appoggiati rispettivamente dai due partiti principali, Napoli e Milano, rappresentati da Giuliano della Rovere e da Ascanio Sforza, fratello di Ludovico il Moro, che aveva però come candidato di riserva Rodrigo Borgia, vicecancelliere della Chiesa.
Dopo quattro giornate di votazioni, in cui la lotta fra i due partiti si rivelò tanto decisa quanto inutile, entrò in scena proprio Rodrigo, riuscendo a “convincere” lo Sforza ad accordarsi sul suo nome: il 10 agosto raggiunse, a quel punto, i due terzi necessari per la maggioranza, facendo capitolare Giuliano della Rovere che, in cambio del voto, ebbe dal Borgia un’abbazia, varie rendite, il legato d’Avignone e la fortezza di Ronciglione. In realtà, anche il resto delle immense ricchezze del Vicecancelliere fu largamente distribuito per l’occasione: al cardinal Colonna andarono l’abbazia di Subiaco e 28 castelli, al Savelli la Basilica di Santa Maria Maggiore e il legato di Perugia, all’Orsini i possedimenti di Monticelli e Soriano e al fido Ascanio Sforza la propria abitazione di corso Vittorio Emanuele, che oggi si chiama ancora Palazzo Sforza Cesarini, nonchè la carica di Vicecancelliere — la massima dopo quella di Papa — che Rodrigo Borgia aveva occupato durante trentacinque anni.
Inoltre, promise ad ogni cardinale presente alla votazione un aumento del reddito non appena fosse sali to sul soglio pontificio. Il duro lavoro di “convincimento”del Borgia durò per un giorno e una notte, fino a quando, all’alba dell’11 agosto, i romani riuniti in Piazza San Pietro sentirono una voce che annunciava con “sommo gaudio! L’elezione del Vicecancelliere con unanimità di voti: “Habemus Pa pam, Alexander VI!”.
LE RICCHEZZE
Fu subito festa. Molti accorsero in piazza a manifestare con esultanza per il nuovo eletto, mentre altri andarono a saccheggiare la sua principesca residenza nel Rione Ponte come era tradizione: si pensava infatti che, dovendo traslocare al Vaticano, il neopapa non avrebbe avuto più bisogno dei propri averi terreni. In quella occasione, però, il bottino fu scarso perché il cardinale Ascanio Sforza il nuovo proprietario — aveva preso precauzioni facendo sorvegliare il palazzo dai soldati armati fino ai denti.
Le ricchezze di Papa Alessandro VI erano leggendarie. Per trentacinque anni il cardinale Rodrigo Borgia era infatti vissuto a Roma come uno dei più ricchi principi dell’epoca, accumulando denaro, benefici e potere. Nel 1486, durante il pontificato di Innocenzo VIII, Jacopo di Volterra dirà di lui: “Egli è uomo di uno spirito atto ad ogni cosa e di largo senno. Pronto al discorso cui riesce benissimo a dare uno stile. E per natura accorto e fornito d’arte meravigliosa nella trattazione degli affari, è straordinariamente ricco, e la protezione di molti re e principi gli dà fama… e tutto ciò accoppiato ad una magnificenza splendida quale sarebbe degna di un re o di un papa”.
GLI AMORI
Certamente il Borgia doveva essere un uomo singolare anche nell’aspetto fisico, perché la sua prestanza fu decantata dai contemporanei quando aveva ormai più di sessant’anni. I cronisti lo ritraggono allegro, cordiale, amante della musica, della danza e dei divertimenti e molti suoi contemporanei gli invidiarono la facilità con cui attirava le donne “come calamita al ferro”. Ciò nonostante, il Papa si rivelò di indole alquanto fedele, perché fino al 1482, e per più di vent’anni, ebbe come amante Vannozza Cattanei, la madre dei suoi amatissimi figli, Cesare, Giovanni, Lucrezia e Jofré.
Poi si innamorò della quindicenne Giulia Farnese, (nella foto, il ritratto della bella Giulia realizzato da Luca Longhi ed oggi esposto a Castel Sant’Angelo) moglie di Orsino Orsini, che tutti chiamarono per scherno “la sposa di Cristo” e che forse fu la madre di altri suoi figli: Laura, il misterioso “infante romano” e Rodrigo, nati durante il papato. L’amore per la bella Giulia fu il canto del cigno di quell’uomo sensuale in ogni suo gesto, e quando nel 1494, temendo una epidemia di peste, la mandò a Pesaro con la figlia Lucrezia, le lettere d’amore fra i due erano simili a quelle di due innamorati qualsiasi. Lei scriveva “al mio unico signore…”, “al mio tesoro…”, “tutto è burla se non stare ai piedi di vostra santità…”, e lui rispondeva “Noi vorremmo che tu fossi destinata e senza mezzo a quella persona che più di ogni altra ti ama…”.
LA POLITICA
Allo stesso modo e con uguale intensità il Papa amava i propri figli, e forse fu questa la causa che lo fuorviò dai suoi doveri spirituali, sebbene non esitasse ad utilizzarli per i suoi intrighi politici con diversi matrimoni d’interesse.
Con Alessandro VI la storia del nepotismo dei Papi cambiò: si passò dall’accaparramento dei vescovati e benefici ecclesiastici di Sisto IV e Innocenzo VIII a una grande politica territoriale, alle alleanze con i principati, alla creazione di contee e ducati, al comando degli eserciti. Ciò che ora contava era l’arte del governo del principe, così acutamente analizzata poi dal Machiavelli. Il Papa voleva governare un campo più vasto di quello rappresentato dalla Chiesa, voleva dominare con un potere non soltanto spirituale; e come ogni re, questo Papa-Re cercò di consolidare la propria dinastia attraverso un’abile politica matrimoniale, affinchè i figli dei suoi figli potessero fondare una stirpe capace di perpetuarsi nei secoli.
Per il governo della Chiesa Alessandro preferì circondarsi di persone di fiducia che gli garantissero l’appoggio dei paesi alleati. A tale proposito nominò dodici cardinali dei vari Stati: Venezia, Firenze, Milano, Napoli, Francia, Spagna, e persino un giovane di 15 anni, Ippolito d’Este, che gli assicurava il riconoscimento di Ferrara. Queste promozioni, a cui ne seguirono altre dodici nel 1501 e altre nove nel 1503, servirono anche per aiutare le finanze della Chiesa: per ogni nomina incassava infatti dai 100.000 ai 130.000 ducati.
L’ARTE
Alessandro VI, e come lui tutti i Papi rinascimentali, si compiaceva di rivaleggiare in magnificenza con i suoi vicini, abbagliandoli con spettacoli prodigiosi mai visti: la festa era funzionale all’azione politica e si rivelava indispensabile sia per attirare grandi clientele sia per confrontarsi con gli altri potenti. Feste politiche e feste religiose, dunque, finirono per confondersi: l’ostentazione del fasto, le considerevoli spese sostenute non servivano soltanto a glorificare Dio e la Chiesa, ma bensì anche il Papa, che era allo stesso tempo principe e Capo di Stato, e che quando appariva in pubblico era ammirato per il suo portamento e per ciò che rappresentava.
Con questo spirito, Alessandro fece decorare le stanze dove lui viveva, riceveva, pregava, amava e architettava i piani più segreti della sua politica. Il pittore scelto fu il Pinturicchio, che già aveva lavorato in Vaticano nel Belvedere di Innocenzo VIII. Nelle varie sale dell’Appartamento Borgia (visibile durante il Tour dei Musei Vaticani organizzato dall’Associazione Rome Guides) l’artista rappresentò la gloria del Papa con scene del mito di Iside e Osiride e del bue Api ispirate allo stemma della famiglia spagnola: un toro pascente su fondo oro.
Nell’Appartamento Borgia, mitologia e religione si mescolano secondo il gusto del Rinascimento e si possono ammirare scene della vita di Maria e di Cristo, santi e profeti, insieme con sibille e divinità pagane: nella Sala delle Sibille, Alessandro VI troneggia fra un re e un imperatore sotto l’immagine del dio Apollo, mentre nella Sala dei Misteri della Fede, Cristo risorge mentre ai piedi del santo sepolcro vi sono tre giovani guerrieri che forse sono i tre figli beniamini del papa, Cesare, Giovanni e Jofré. In primo piano il Pinturicchio ha eseguito il suo capolavoro, il magnifico ritratto di Alessandro VI proprio come lo descrivono i cronisti dell’epoca: un uomo anziano ancora bello, dal profilo volitivo e autoritario, e dall’aria sorniona, come un bel felino che sa di essere il più forte e il più libero.
LA RINASCITA DI ROMA
Nonostante i suoi impegni politici e militari, e a dispetto di quanto i suoi detrattori abbiano affermato ripetutamente, Alessandro VI ebbe tempo per arricchire ed abbellire Roma architettonicamente.
Continuò in Vaticano le opere iniziate da Papa Niccolò V, costruendo una torre e i suoi appartamenti, fece restaurare la Porta Settimiana ad Antonio di Sangallo che fu anche l’incaricato di fortificare ulteriormente il Castel Sant’Angelo con trincee, mura e fossati.
Quando nel 1500 ebbe inizio l’anno del Giubileo, l’intero quartiere attorno a San Pietro aveva cambiato volto; sgomberate vigne e case fatiscenti, ampliate e selciate le piazze, e inaugurata la nuova Via Alexandrina detta anche Borgo Nuovo, una via retta di quasi 500 metri che dal fiume andava fino al Vaticano. Si trattò di una impresa di grande respiro che permise al vecchio borgo dei pellegrini di diventare il vero centro perché i cortigiani si affrettarono a costruirvi sontuosi palazzi.
Sotto il suo papato sorsero le nuove chiese di San Rocco, della Trinità dei Monti, di Santa Maria del Monserrato con l’ospedale nazionale degli spagnoli. Nel 1500 fu posta la prima pietra di Santa Maria dell’Anima, e Bramante, che era stato chiamato dallo stesso Papa, costruì quel gioiello che è il celebre Tempietto nell’atrio di San Pietro in Vincoli al Gianicolo, nonché lo splendido Palazzo della Cancelleria.
LA SAPIENZA
L’opera magna di Alessandro VI fu però la costruzione nel 1497 di una nuova e grande università degna della gloria di Roma. Fino ad allora era stata confinata in angusti e degradati locali mal illuminati, e ridotta in condizioni così misere che i docenti venivano pagati soltanto saltuariamente, quelle poche volte che vi erano lezioni.
Rodrigo Borgia, che aveva studiato con profitto a Bologna, serbava ancora il ricordo del suo splendido ateneo quando decise di investire 2000 ducati d’oro nel progetto di uno simile a Roma; poi richiamò numerosi studiosi stranieri offrendo loro una sistemazione adeguata, aumentò il salario dei docenti e fece in modo che gli studenti più avvantaggiati fossero esenti dalle tasse.
Alla nuova Università della Sapienza arrivarono umanisti come Pomponio Leto e uomini di scienza come Copernico, e la fama delle sue magnifiche aule, cortili e gallerie s’impose autorevolmente.
Certamente il Papa Borgia non fu nelle arti né un Giulio II né un Leone X, ma la sua corte era aperta ad interessi di ogni genere; ed egli stesso si appassionò alle nuove scoperte in tutti i campi dell’arte, della scienza, dell’esplorazione del nuovo mondo appena ritrovato e nel quale incoraggiò l’evangelizzazione.
LE CRITICHE
Mai, nella storia della Chiesa, un Papa è stato più esecrato. Si è giunti al punto di descriverlo come un uomo ambizioso, rozzo, macchiato di delitti e di sesso, senz’altro interesse che quello di seguire i propri istinti. Una leggenda nera che il suo successore Giulio II fu il primo a diffondere: il cardinale della Rovere non si era mai rassegnato a vedere il Borgia diventare papa prima di lui e neanche a quel Vicecancellierato che tutti i pontefici, persino suo zio Sisto IV, gli avevano confermato durante trentacinque anni.
Eppure, quando Alessandro VI fu eletto, tutti furono pronti a riconoscere che nessuno aveva le carte più in regola di lui: “Sembrava riunisse in sé tutte le prerogative d’un eccellente principe secolare”, diranno poi i cronisti. La Chiesa, che ormai da secoli era una potenza terrena, aveva in quel momento bisogno di un capo che la rendesse più forte e temuta, ed il Borgia avrebbe potuto farlo.
D’altra parte un papa spagnolo sembrava consono con i tempi: era cominciato il periodo d’oro della Spagna con la caduta di Granada, ultimo baluardo arabo, nel gennaio del 1492 e, proprio in quei giorni d’agosto in cui si concludeva il conclave, Cristoforo Colombo si inoltrava nei mari con le navi spagnole alla ricerca di mondi mai prima esplorati.
Alessandro VI fu probabilmente un pessimo pastore della Chiesa, nel senso più teologico e dogmatico dell’espressione, ma mai la Santa Sede fu tanto forte, compatta e temuta come sotto il suo regno. Si rivelò certamente uomo d’ingegno e abile diplomatico, e se la morte non lo avesse sorpreso in un torrido agosto del 1503, avrebbe forse condotto a termine quella sua politica tesa ad unificare l’Italia.
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