La Roma di Renato Guttuso

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LA ROMA DI RENATO GUTTUSO

Nel gennaio del 1938 il ventiseienne pittore Renato Guttuso si stabilisce a Roma, dopo avervi soggiornato saltuariamente negli anni precedenti. Il suo primo studio, al sesto piano di una casa popolare in Piazza Melozzo da Forlì n.1, è condiviso con Antonello Trombadori e Armando Pizzinato: proprio in quello studio, in poche settimane, mette insieme la prima personale, che in marzo sarà presentata da Nino Savarese alla «Galleria della Cometa» diretta da Corrado Cagli e Libero de Libero per Anna Laetitia Pecci Blunt.

È un momento particolarmente travagliato per gli artisti e gli intellettuali romani: nella città che si prepara ad accogliere trionfalmente Adolf Hitler e vive le prime dure polemiche sulla “difesa della razza italiana”, matura un distacco dal regime che diventerà presto opposizione aperta. Guttuso vive in prima persona questi accadimenti, scrivendo: “Sembra che nessuno si accorga che questi sono tempi pericolosi ma straordinari. Se io potessi per una attenzione del Padreterno, scegliere un momento della storia e un mestiere, sceglierei questo tempo e il mestiere del pittore”.

Con il suo intuito preciso e puntuale, l’artista siciliano è uno dei primi a sentire che il vento della pittura romana sta cambiando direzione. La poesia intimista e allusiva delle Demolizioni e dei Fiori secchi di Mario Mafai, così come la scelta dimessa e antiretorica del tonalismo, sembrano aver esaurito la loro spinta. “Dipingere bottiglie o fare poesia ermetica era di per sé una protesta, ma è chiaro che ciò non poteva essere per noi sufficiente. Non volevamo essere asciutti, volevamo essere foschi, sensuali, colorati, espansivi ed estroversi”.

I segni del cambiamento si avvertono da qualche tempo. È ancora viva l’emozione per gli aspri paesaggi del confino in Lucania esposti alla Galleria della Cometa da Carlo Levi (maggio 1937) e già si discute della nuova pittura di Mafai e Ziveri (che avranno una sala in comune alla Biennale di Venezia del 1938), delle drammatiche tinte di Fausto Pirandello, dell’inquietante ciclo del Trionfo di Roma dipinto pochi mesi prima da Cagli all’Esposizione Universale di Parigi. Da quella stessa Esposizione arrivano a Roma le prime notizie e le prime immagini di un quadro senza colori, in cui il dramma di una piccola città spagnola, di nome Guernica, è stato finalmente raccontato fuori dai denti.

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Nel 1938 inizia l’incubazione di due quadri decisivi nella storia di Guttuso, la Fuga dall’Etna e soprattutto la splendida Crocifissione esposta alla Galleria Nazionale di Arte Moderna, ma è anche il tempo dei primi paesaggi romani, tra cui un’ampia veduta da Piazza Melozzo da Forlì.

Poco più tardi, nel 1940, appaiono i primi Tetti. E un tema che Guttuso divide con altri pittori romani (Mafai, Ziveri e Pirandello, per citare solo alcuni nomi), un tema importante perché toglie alla veduta ogni carattere documentario e locale e trasforma la città in un orizzonte di linee spezzate e imprevedibili, di luci e di scuri profondi. Roma dai tetti diviene una grande natura morta in cui lo spazio subisce l’invasione della presenza umana; talvolta l’occhio del pittore risale più indietro e accoglie nell’inquadratura il telaio della finestra, una donna affacciata, un tavolo con gli oggetti della vita quotidiana. Dalle altane alle cupole, fino ai primi piani con i fiaschi rovesciati, i bucrani e le arance in bilico sul bordo del tavolo, emana una sensazione di vivace e vitale disordine, il segno di un entusiasmo e di una passione che tuttavia riesce sempre a disciplinarsi sotto il segno di Cézanne e Morandi.

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Il primo contributo di Guttuso alla storia della veduta romana è in questa scoperta del disordine e dell’imprevedibilità, che subentra al rigore geometrico in pieno stile Piero Della Francesca della pittura tonale intorno alla metà degli anni Trenta.

Anche in quadri più tardi, come la grande Veduta di Villa Medici dipinta nel 1946 per il Caffè Rosati in via Veneto (dove appariva accanto ai paesaggi di Mafai e di Antonio Donghi), viene scartata ogni inquadratura tradizionale. La villa è addirittura tagliata bruscamente in alto e in diagonale mentre il verde del Pincio incombe sui tetti di via Margutta.

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Da questa data trascorreranno alcuni anni prima che Roma torni a occupare un posto di rilievo nella pittura di Guttuso. Nel 1952 è ancora Trinità dei Monti a fare da sfondo alla coppia di Immigrati a Roma, nel momento di più forte impegno sociale dell’artista.

Solo verso la fine degli anni ’50, approfittando della posizione di un suo nuovo studio in via di Santa Maria Maggiore, riprende a dipingere con frequenza quadri con i tetti del rione Monti, mentre le case intorno a San Pietro in Vincoli fanno da sfondo al ritratto di Rocco Catalano nel dipinto La domenica dell’emigrato (1960).

L’anno 1966 vede Guttuso impegnato in un vasto ciclo (quasi sessanta quadri) sul tema dell’Autobiografia. E l’occasione per riprendere in modo diverso, forse persino più creativo e intrigante, il discorso sulla città, questa volta attraverso il filtro della memoria. Nel dittico del Cielo di Roma una fresca immagine di piazza del Popolo è affiancata da un armadio aperto con i vestiti e gli oggetti della giovinezza: un thermos, un cappello sformato, dei libri.

In un altro quadro dello stesso ciclo, Notte metafisica del 1 gennaio 1940 è rievocato l’incendio della Cancelleria Apostolica: in primo piano, sotto la pioggia battente e sullo sfondo del palazzo in fiamme, Guttuso si ritrae insieme a Mimise Dotti e ad Antonello Trombadori.

Il clima di Roma negli anni di guerra è rievocato con forza anche in altri dipinti: è proprio l’atmosfera tragica romana, che sarà poi la stessa di Rossellini in Roma Città Aperta, quella che avvolge l’atroce cronaca affidata nel 1944 alle famose tempere guttusiane del Gott mit Uns.

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Guttuso si trova ormai padrone di un nuovo linguaggio, in cui il realismo delle immagini si carica di sempre più forti implicazioni metafisiche e allegoriche, e anche la lettura di Roma segue questo destino. La sua presenza si fa più sporadica ma allo stesso tempo più intensa e concentrata: sono del 1972 alcune immagini dell’interno del Colosseo in cui le gradinate e i corridoi sotto l’arena si trasformano in profondi solchi, ferite di grande suggestione emotiva, accompagnate, in uno dei quadri della serie, dai simboli scoperti del martirio: un teschio e dei chiodi.

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In questa riscoperta della dimensione storica di Roma, il pennello di Guttuso finisce per consacrare al tempo uno dei luoghi più celebri della sua vita culturale e mondana, il Caffé Greco, che in uno dei quadri più discussi degli anni Settanta appare abitato da presenze illustri quanto allusive, Apollinaire e Picasso, Buffalo Bill e, con due distinte immagini, Giorgio de Chirico col suo profilo inconfondibile.

L’insistenza su de Chirico è fortemente motivata dalla presenza del demone metafisico che aleggia in tutta l’ultima fase della pittura di Guttuso. La Visita della sera, il dipinto ormai celebre in cui il cortile di Palazzo del Grillo, con la scalinata a forcipe, fa da sfondo all’inquietante arrivo di una tigre, è tra i quadri che più degli altri mostrano una riconoscenza verso de Chirico, con il classico cielo romano del pittore metafisico, immobile e carico di enigmi dietro alla vegetazione scura.

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