LA MARINA MERCANTILE NELL’ANTICA ROMA (2/3)
Plinio racconta che fu un certo Ippo di Tiro ad inventare la nave oneraria.
In realtà già in Omero si incontravano navi idonee ad affrontare traversate in alto mare, anche in condizioni di burrasca: queste imbarcazioni presentavano uno scafo con una struttura alquanto tozza, avente prua e poppa estremamente arrotondate. Un affresco funebre, proveniente da una tomba di Tarquinia, mostra invece un mercantile etrusco bialbero, dotato di un solido parapetto e di una scala a poppa con funzione di ponte mobile.
Anche le navi mercantili della Roma arcaica non dovevano differenziarsi granché da quelle etrusche, ma purtroppo delle imbarcazioni mercantili romane esistono raffigurazioni esaustive solo a partire dall’età imperiale: queste ultime mostrano un’evidente simmetria tra prua e poppa, con quest’ultima talvolta dotata di una cabina di coperta per gli ufficiali o i passeggeri più facoltosi. Le navi onerarie, infatti, trasportavano anche passeggeri, in quanto nella Roma Antica non esistevano imbarcazioni adibite a questo unico scopo.
—
Se l’articolo del nostro blog vi fosse piaciuto, potreste decidere di partecipare ad una delle visite guidate organizzate dall’Associazione Culturale Rome Guides. Contattateci per creare l’itinerario perfetto per le vostre richieste.
LE CARATTERISTICHE DELLE NAVI MERCANTILI
Alcune delle caratteristiche di questi mercantili dipendevano dalla tipologia delle merci trasportate. La loro propulsione era generalmente a vela, ma potevano anche usufruire della dotazione di remi se la qualità del carico avesse la priorità sulla quantità, dal momento che l’apparato di voga riduceva notevolmente le capacità di stivaggio delle merci.
La stazza veniva indicata in base al numero di anfore in grado di caricare: il modello più grande, lungo più di cinquanta metri e chiamato myriophòros (dal greco myrioi = diecimila e phoros = portante) aveva per l’appunto una capacità di 10.000 anfore, equivalenti ad oltre 450 tonnellate di carico. Si trattava però di un’eccezione: normalmente, infatti, una nave oneraria misurava in media tra i 25 e i 30 metri di lunghezza, restando attorno ai dieci metri di larghezza e ad una portata di circa 3500 anfore.
La stiva era situata al centro della nave e le anfore fissate all’interno di una sorta di telaio, al fine di ridurre al massimo la possibilità di romperle o infrangerle. I sacchi invece erano ammassati alquanto liberamente e, al momento delle operazioni di scarico, poteva succedere anche che si verificassero disguidi dovuti all’ appropriazione indebita, vera o presunta, delle merci stivate alla rinfusa o senza imballaggio.
LE MERCI E I VIAGGI
Spesso le navi prendevano il nome a seconda delle merci trasportate: tra gli appellativi più curiosi possiamo citare l’ippagogus per il trasporto dei cavalli, il cercurus per le belve destinate ai giochi circensi o la lapidaria per il trasporto delle pietre (obelischi compresi).
Molte di queste merci, come facilmente intuibile, provenivano da Paesi molto lontani, come l’Egitto o addirittura l’India; in tal senso, l’importazione via mare, direttamente dai Paesi produttori, risultava estremamente conveniente rispetto al trasporto carovaniero.
Si navigava da marzo (il Navigium Isidis ricorreva il 5 marzo) a ottobre, “cinquanta giorni dopo il solstizio d’estate”, come affermano gli antichi autori. D’inverno, infatti, solo le grandi navi onerarie osavano avventurarsi nel Mar Mediterraneo. La durata dei viaggi poteva variare radicalmente a seconda delle condizioni dei venti e del mare: ad esempio, per andare da Alessandria a Pozzuoli normalmente occorrevano dai 15 ai 20 giorni, ma con il vento favorevole e le opportune correnti marine si poteva riuscire ad attraccare anche in meno di una settimana.
LE ROTTE
Non si hanno molte notizie sulle rotte seguite dagli antichi ma, prendendo in esame da un lato le conoscenze a nostra disposizione e dall’altro i dati oggettivi legati comunque alla necessità del cabotaggio e al regime dei venti, siamo in grado di ricostruire alcune delle rotte più usuali.
La traversata del Tirreno era considerata assai pericolosa, tanto da utilizzare i porti della Toscana come approdo intermedio, in particolare all’isola d’Elba, prima di procedere con la traversata. Allo stesso modo e per le medesime motivazioni, la Sicilia rappresentava un punto di sosta obbligato per la navigazione verso l’Africa.
Dalla Puglia partivano invece le navi che seguivano le rotte per la Grecia e l’Oriente e si dirigevano poco a settentrione di Valona per raggiungere l’Elide, costeggiando Corfù, Cefalonia e Zante. Attraverso l’Elide si arrivava a Citera, che costituiva la stazione obbligata per l’Oriente. Per l’Egitto, la Siria e l’Anatolia ci si dirigeva verso Creta, all’altezza del Capo Malea, e se ne seguivano le coste meridionali, puntando poi verso la Cirenaica con una traversata d’alto mare. Benché la navigazione fosse improntata alla massima cautela, potevano a volte verificarsi anche delle rischiose traversate dirette, per esempio dalla Sicilia alla Grecia.
Anche verso la Gallia meridionale e l’Iberia, la navigazione si svolgeva di solito lungo le coste: solo eccezionalmente da Marsiglia ci si dirigeva direttamente sulla Sardegna e di qui in Toscana.
CARICO E SCARICO DELLE MERCI
Le operazioni di carico e scarico delle merci avvenivano generalmente a mano sotto il controllo di appositi ispettori, che facevano capo sia all’amministrazione annonaria relativamente ai problemi di approvvigionamento urbano, sia a quella portuale. Appartenevano alla prima categoria, solo per citarne alcuni, i misuratori del grano (mensores frumentarii), i verificatori dei pesi (sacomarii) ed i trasportatori di sale (saccarii salarii). Lavoravano invece per l’amministrazione portuale le varie corporazioni dei carpentieri (fabri navales), dei noleggiatori di barche da traghetto (lenuncularii) e da alaggio (cadicarii), nonché molteplici facchini (geruli).
Per le merci più pesanti si usavano delle gru, talmente importante che sulle navi più grandi poteva essere adibito a quest’uso anche l’albero di trinchetto, al quale si applicava un canapo con carrucola. Ciò consentiva, come è debitamente spiegato da Vitruvio, un movimento limitato a semicerchio ed uno verticale più completo, con un sistema di manovra simile a quello delle macine per il grano: ciò spiegherebbe tra l’altro il ritrovamento nei relitti di pietre laviche da macina, non ricollegabili al carico o alla zavorra.
Ogni anno arrivavano a Roma circa mille navi mercantili, molte delle quali cariche di grano e provenienti da Alessandria, come potrebbe mostrare il bel mosaico di Claudius Claudianus (in foto). Si pensi, quindi, ai problemi che le autorità portuali dovevano risolvere all’arrivo di tali flotte, con conseguenti lungaggine e lentezze burocratiche: esaminando i documenti dell’epoca, si è stati in grado di risalire ad una spiacevole situazione inerente una nave alessandrina che, attraccata a Portus il 30 giugno, venne scaricata solo il 12 luglio, e il 2 agosto era ancora in attesa del nullaosta per far ritorno in Egitto.
Ovviamente, la confusione che contraddistingueva i porti romani era data anche dalla complessità strutturale degli stessi: fra le principali infrastrutture spiccavano i magazzini per lo stivaggio delle merci, spesso caratterizzati da porticati e logge a più piani, officine per le riparazioni, darsene e capannoni per le attrezzature.
L’ALAGGIO
Una volta arrivate, le merci venivano condotte a destinazione su chiatte e imbarcazioni da traino. Gli alaggi facevano capo a piccoli imprenditori, il cui compito era appunto quello di far risalire i carichi lungo il fiume usufruendo della trazione esercitata da bufali, muli, cavalli e persino uomini. Un particolare tipo di imbarcazione adatta alla navigazione fluviale era la codicaria, con lo scafo profondo e un albero che, collegato all’occorrenza a poppa da un cavo con carrucola disposto sulla sua sommità, serviva proprio da palo da alaggio.
Tipiche della tradizione celtica sono poi le larghe e pesanti chiatte che ancora oggi si vedono piuttosto spesso sul fiume Reno. Queste imbarcazioni a carena piatta e senza chiglia, con due piatte rampe al posto della prua e della poppa, che venivano spesso adibite al trasporto delle botti, potevano essere lunghe anche più di venti metri ed in grado di approdare in qualsiasi punto della riva.
IL TRASPORTO DEI PASSEGGERI
Come già accennato, nell’antichità non esisteva un vero e proprio trasporto passeggeri: coloro che per necessità erano costretti a viaggiare in mare, lo facevano a loro rischio e pericolo. Bisognava innanzitutto aspettare che un mercantile facesse rotta nel luogo desiderato ma poi, una volta a bordo, si era letteralmente in balia dell’equipaggio e poteva persino capitare di essere resi schiavi dall’equipaggio e venduti in Paesi stranieri. Proprio per tutelare la sicurezza dei viaggiatori, la cui unica garanzia era l’onestà del capitano della nave, vennero istituite precise norme giuridiche.
Erano i mercanti coloro ai quali capitava di muoversi più spesso, ed era tradizione ai tempi dell’Antica Roma offrire proprio a questa categoria un corposo sconto sul prezzo, a differenza di altri viaggiatori che invece, per risparmiare, si adattavano a dare una mano ai marinai nei vari servizi di bordo.
A Roma, a partire dall’età repubblicana, invalse l’uso di viaggiare sovente per recarsi in Grecia al fine di apprenderne l’arte e la cultura e, in età imperiale, per raggiungere le località nelle Province dove si avevano determinati interessi. Le navi, non essendo predisposte a trasportare persone che non facessero parte dell’equipaggio, ovviamente non erano attrezzate a tale scopo: solo i più agiati potevano permettersi il lusso di alloggiare nella cabina di coperta a poppa, mentre gli altri venivano sistemati al meglio sui ponte o nella stiva.
Su alcune rotte, poi, si andava decisamente al risparmio: alcuni documenti parlano in modo assai critico del tragitto Brindisi-Durazzo, in cui i viaggiatori dovevano provvedere da soli al proprio vitto al momento dell’imbarco, perché nel costo del trasporto era compresa solo l’acqua. Era anche impensabile pensare di cucinare sulle navi, poiché le cucine erano assai rare, poiché il loro uso rischiava di provocare pericolosi incendi.