IL PORTO DI RIPETTA
Nella nostra Città Eterna, dove ogni edificio significativo ostenta la propria vetustà plurisecolare, un destino avverso si è accanito contro un singolare monumento, quello che potrebbe senza dubbio essere considerato come il più bello degli ornamenti della riva tiberina: il Porto di Ripetta, bello ed anomalo perché il fiume di Roma non ne ebbe mai nessun altro di paragonabile valore.
In compenso, basta osservare vecchi dipinti ed antiche incisioni per rievocare con gli occhi della memoria vedute e suggestioni maestose e brillanti, brulicanti di vita o architettonicamente dimostrative, a splendida riprova dell’eleganza dell’approdo di Ripetta, che divenne per il breve spazio della sua vita una delle piazze maggiori del vedutismo romano.
Il principe dei vedutisti settecenteschi, Gaspare Van Wittel, lo riprodusse due volte, presto seguito dal suo allievo Van Lindt; il cantore assoluto di questo pezzo di bravura costruttiva e di questo centro di animazione cittadina fu però, come al solito, Giovanbattista Piranesi che vi dedicò un vero e proprio cantico del suo poema: la raccolta delle immagini trasfigurate della Roma di metà Settecento. Il movimento delle scalee si stagliava luminoso in una cornice di grazia architettonica, mentre sulla riva si affollavano e si incalzavano le leggere barche cariche di barili e di botti provenienti dalla Sabina.
Rivaleggiarono con il Piranesi tutti i maggiori descrittori della città, dal Vasi al Rossini, poiché il Tevere era un soggetto amatissimo dai vedutisti, per l’ampiezza delle panoramiche e per le romantiche impressioni che suscitava. Il fiume non era infatti percorso da un movimento di barche di diporto, ma era essenzialmente una struttura di servizio utilizzata dai trasportatori di merci varie, i quali attraccavano normalmente presso le rive allo stato naturale le quali, dalla localizzazione dei diversi traffici, prendevano nomi specifici come “porto dei travertini”, “porto della legna” e così via.
La città, affacciandosi sul fiume, si trovava di fronte una riva verdeggiante di vigne e orti, con qualche rada costruzione di piacere di alcune grandi famiglie, ma soprattutto frequentata da coltivatori e da cacciatori. Pochi erano gli episodi monumentali della riva opposta (il Castel Sant’Angelo, la lontana cupola di San Pietro, l’affollato Trastevere) e queste prospettive ottennero infatti la realizzazione di significativi belvedere sulla riva sinistra, come la loggia raffaellesca degli Altoviti, la facciata borrominiana di Palazzo Falconieri o l’edificio dei Cento Preti a Ponte Sisto.
LA GENESI DEL PORTO DI RIPETTA
Quando, nei primissimi anni del Settecento, si pose mano alla realizzazione dell’approdo monumentale, si trovarono sotto le melme della riva le tracce degli antichi attracchi: la Roma Antica, in epoca imperiale, utilizzava infatti talmente tanto intensamente il fiume Tevere che quasi tutte le rive dello stesso erano affiancate da banchine adatte all’approdo dei natanti (che alcuni studiosi sostengono si svolgessero ininterrottamente dal Campo Marzio fino al Testaccio).
Fu la costruzione delle mura difensive di Aureliano alla fine del III secolo d.C. che, anticipando in qualche modo l’effetto moderno dei muraglioni, distaccò gran parte della città dal fiume: un lungo muro intervallato da piccole torri si distese infatti a quel punto dall’altezza della Porta Flaminia (la nostra porta del Popolo) fino al Ponte di Aureliano (più o meno all’altezza di Ponte Sisto).
Queste mura sul fiume furono tuttavia rese permeabili ad un certo traffico mediante l’apertura di alcune posterule: una di queste venne a trovarsi all’altezza dell’attuale Chiesa di San Rocco. Da lì, attraverso i giardini del Mausoleo di Augusto, si raggiungevano le zone edificate del Campo Marzio fin sotto le pendici, estese dal colle Quirinale al Pincio e lussureggianti di fastose dimore gentilizie.
Il disfacimento urbano del Medioevo conservò solamente gli approdi dell’Isola Tiberina per le poche mercanzie e la Ripa Romea per i pellegrini provenienti da oltremare. Solamente con il fiorire del Rinascimento la città si riappropriò delle mura fluviali nel tratto settentrionale del Tevere corrispondente ai quartieri lungo la via Lata (via del Corso) che si andavano animando sotto l’impulso di un più consistente afflusso di visitatori. Una parte delle mura venne trasformata in edifici di abitazione che, fino alla distruzione di fine Ottocento, lasciarono trasparire il loro antico carattere di fortilizi, mentre altre parti cedettero il loro materiale per le nuove costruzioni.
Contemporaneamente, per accogliere un più abbondante arrivo di vettovaglie, la posterula di cui abbiamo appena parlato si allargò sino a diventare una vasta breccia e, sulla riva informe, modellata ad arbitrio della corrente e delle piene, si crearono i depositi temporanei delle merci in arrivo.
Che il posto fosse dirupato, selvaggio e solitario lo dice quel sinistro episodio di cronaca nera che fu lo scaricamento a fiume del cadavere del duca di Gandia, disgraziato figliolo di papa Borgia, avvenuto proprio in questo luogo. Vi erano comunque delle cappellette religiose, ed una di esse, per iniziativa della corporazione degli osti e dei mercanti di vino, divenne proprio la Chiesa di San Rocco. Un’altra divenne prima sede di un eremita croato e attrasse in seguito i profughi della Schiavonia, riparati a Roma sotto l’incalzare dei Turchi; verso la fine del XVI secolo, Papa Sisto V vi eresse la nuova Chiesa di San Girolamo degli Schiavoni.
VIA DI RIPETTA
Lo spiazzo fra le due piccole cappelle/chiese e il fiume divenne, all’epoca di Papa Leone X, un polo urbanistico importante perché vi giunse da Piazza del Popolo la nuova strada Leonina, che finì successivamente per assumere il nome di Via di Ripetta a causa della sua destinazione al frequentato luogo commerciale.
Proseguendo, essa penetrava verso il cuore della città, dove si trovava Palazzo Medici, appartenente alla famiglia del Papa ed avente oggi nome di Palazzo Madama) e si intersecava con un altro nuovo asse stradale di grande importanza, la Via del Monte Brianzo diretta alla piazzetta di Ponte Sant’Angelo.
Pochi decenni dopo, l’arrivo della Via Trinitatis di Paolo III (ossia l’allineamento di via Condotti, via Fontanella Borghese e via del Clementino) avrebbe completato la predominanza urbanistica della zona nella Roma di nuova espansione. Ripetta era ormai divenuta un luogo molto frequentato e sotto l’occhio di molta gente: Papa Sisto aveva già pensato di creare in asse con la sua chiesa di San Girolamo un nuovo ponte per collegare la città con la Basilica di San Pietro (idea che venne abbandonata per la preoccupazione di non facilitare l’aggiramento, da parte di un eventuale aggressore, della fortezza di Castel Sant’Angelo).
IL RIASSETTO URBANISTICO
Si andò comunque ugualmente affermando l’idea di assestare in qualche modo quel luogo, ormai dotato di un bel fondale (fra le due chiese, entrambe centri di assistenza ospedaliera e ospizi) ed assai vicino alla deliziosa faccia del “Cembalo Borghese”. Se non si poteva mettere rimedio al vocìo dei facchini, certo intercalato da fiorito turpiloquio, si poteva però rimediare al disordine della riva che veniva descritta accidentata e scivolosa, percorsa da liquidi scaricati dalle case verso il fiume (anche Palazzo Borghese vi convogliava le deiezioni delle stalle).
Nei primissimi anni del Settecento, quando ormai la città curava anche la sua immagine minore, oltre a quella più monumentale, si pose il problema della sistemazione ambientale di Ripetta. Papa Clemente XI fu lieto di approvare la proposta del suo Presidente delle Strade per la creazione di un sistema di banchine, scalinate e piazzale superiore. Pare che addirittura l’idea iniziale della sistemazione non fosse dell’architetto Alessandro Specchi ma dello stesso monsignor Presidente delle Strade, il quale espresse chiaramente i requisiti che si volevano raggiungere: facilità d’approdo, sicurezza di accesso per i marinai, un gradevole movimento di scalinate e, al centro, un corpo avanzato che si prestasse come gradevole luogo di sosta verso la facciata della Chiesa di San Girolamo.
IL PROGETTO DI ALESSANDRO SPECCHI
Alessandro Specchi assolse brillantemente al suo compito di progettazione, mentre nel 1703 un terremoto, facendo rovinare una parte del Colosseo, agevolò la realizzazione dell’impresa offrendo molto materiale a costo decisamente ragionevole.
La terrazza ricavata sul corpo circolare, avanzante tra le scalinate, era delimitata verso la strada da due colonne recanti i segni dei livelli raggiunti dalle acque tiberine nelle più memorabili alluvioni. Al centro, una scogliera evocativa del mare lasciava sgorgare un’acqua abbondante, utile soprattutto per abbeverare gli animali da soma che qui arrivavano numerosi per le operazioni di trasporto su terra delle mercanzie. In seguito, sulla fontana doveva venire collocata una lanterna disposta per facilitare le manovre di attracco nelle notti senza luna.
La realizzazione piacque al Papa e al popolo quando, per la solennità di San Rocco (16 agosto 1704), nel contesto delle feste fluviali che tradizionalmente si svolgevano quel giorno a cura dell’Università degli Osti, l’opera venne inaugurata. Essa divenne presto un prototipo di moda come si riscontrò da lì a pochi lustri, quando divenne d’attualità il vecchio proposito di una sistemazione della pendice sottostante la chiesa della Trinità dei Monti. Nella contesa che impegnò molti architetti, fra i quali lo stesso Alessandro Specchi, il progetto del prescelto Francesco De Sanctis, preferito dai Francesi della Trinità dei Monti perché loro uomo di fiducia, risultò una quasi pedissequa ripetizione dei motivi affermati dallo Specchi nel vicino porticciolo.
LA DECADENZA DEL PORTO
Forse fu proprio l’infatuazione per la più grandiosa scalinata che distolse i romani da un più profondo apprezzamento dell’opera di Alessandro Specchi. Pur raffigurata ed idealizzata da decine di disegnatori, essa cadde ben presto in un deplorevole stato di abbandono: il porto era tormentato da un movimento incessante di facchini che vi issavano i loro pesanti barili e forse non venne sufficientemente curato in occasione delle alluvioni periodiche, mentre al contrario, l’architettura gemella di Piazza di Spagna conosceva l’esibizione delle modelle, il movimento delle fioraie ed i passi leggeri di dame e cavalieri.
Impietose, le prime foto di questo luogo ce lo descrivono in stato di notevole decadenza, parzialmente invaso dal terriccio, con i gradini sbrecciati. Solamente questa condizione di abbandono può lasciarci comprendere come l’opinione pubblica potè accettare che, nel 1878, la passerella voluta dai promotori dell’edificazione dei Prati di Castello venisse piantata proprio al centro delle gradinate, partendo dalla rotonda sovrastante, in asse con la facciata della chiesa. In precedenza, sotto Pio IX, quando si progettò l’installazione di un ponte in questa zona, l’ingegnere comunale ne scelse la collocazione subito a monte o subito a valle del piccolo sistema d’approdo.
La creazione della passerella anticipò in forma ormai risolutiva la successiva condanna da parte dei costruttori dei muraglioni, che accettarono con indifferenza il sacrificio di quella sistemazione architettonica, la quale venne in parte distrutta ed in parte sommersa a seguito delle maggiori quote date al lungotevere. Fu una sorta di piccolo misfatto, che si compì in un assordante silenzio degli archeologi ed urbanisti dell’epoca, fatte salve poche eccezioni. Ci si assolse in maniera sbrigativa progettando più a monte la fredda sistemazione dello scalo intitolato al trasvolatore De Pinedo, ammarato proprio in questo tratto del fiume con il suo idrovolante.
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